lunedì 21 ottobre 2024

Dario incontra Vittorio nella tenuta di Fabrizio De André all'Agnata

 


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Capitolo Quarto

 

Con il tempo Dario, era riuscito a farsi una ragione della morte di quel sindacalista che era caduto nel corso della prima e unica azione terroristica alla quale lui aveva preso parte. Nel corso di numerose riunioni segrete, alle quali aveva successivamente partecipato, si era parlato molto del prezzo di sangue che si sarebbe dovuto pagare sulla via della rivoluzione vittoriosa. Numerose letture avevano poi contribuito a rafforzare le sue convinzioni. 

Concluse che ormai si trattava di una guerra e senza morti era impossibile da immaginare. D’altronde anche molti dei loro compagni erano caduti sotto il fuoco nemico dei carabinieri e dei poliziotti ed era legittimo rispondere con il fuoco. Il torto era facile da intravedere nello sfruttamento secolare, per non dire millenario, degli operai e dei braccianti, schiavizzati con la schiena piegata sulla terra da coltivare o legati alla catena di montaggio. Mentre i ricchi, i borghesi, i padroni se la spassavano tra belle donne e macchine di lusso, con gli yatch ormeggiati al porto sempre a loro disposizione. Chi lo aveva decretato che lui dovesse appartenere per sempre alla classe degli schiavi? Non aveva forse ragione il povero ad alzare la voce e a ribellarsi? E i ricchi avrebbero ceduto le loro proprietà, il loro potere con le buone maniere, ragionando da buoni fratelli? Col cavolo! Lenin, Mao e Fidel Castro avevano imbracciato le armi ed erano riusciti a riportare l’uguaglianza e la libertà ai diseredati e agli sfruttati di sempre.

 I libri di storia, dopo la vittoria della rivoluzione, gli avrebbero reso quello che adesso i giornali e le televisioni dei padroni gli stavano togliendo in termini di credibilità e ragione.

 Quando a metà giugno partì per la Sardegna, senza dire niente a nessuno, decise che prima di andare a Nuoro per quei contatti con i combattenti sardi per la libertà e l’indipendenza, si sarebbe recato a trovare i parenti di sua madre e forse perfino da Fabrizio.

I parenti di sua madre, a Sassari, lo accolsero davvero con affettuoso calore. In aggiunta al senso di ospitalità, tipico dei Sardi, vi era quel legame di sangue, che li univa, ad amplificare quell’afflato empatico. Angelo, uno dei suoi cugini, che aveva più o meno la sua età, aveva un bel giro di amicizie e anche lì fu accolto con estrema simpatia.

Tuttavia, quando si accorse che una delle sue amiche, con cui aveva più che familiarizzato, si stava troppo affezionando a lui, decise ch’era giunto il momento di staccarsi. Si guardò bene dal comunicare i suoi riferimenti nuoresi e inventò di avere un impegno importante con il suo amico d’infanzia Fabrizio, nelle campagne di Tempio, dove diede appuntamento a tutti quanti, per ritrovarsi e rafforzare i loro vincoli, di qualunque natura essi fossero. All’Agnata ci andò davvero con l’idea di salutare il suo amico Fabrizio e ripartire poi per Nuoro, dove avrebbe preso finalmente i contatti, come da incarico ricevuto.

Da Tempio non fu semplice trovare un passaggio per l’azienda agricola di Fabrizio ma alla fine, a forza di chiedere, trovò un passaggio su un camion che andava lì per prendere il latte delle mucche e portarlo in città. L’estate era già avanzata nella campagna tempiese. Mentre l’autista guidava attento su quelle tortuose stradine, lui respirava a pieni polmoni quei profumi inebrianti della macchia mediterranea. Si sentiva emozionato dall’idea di ritrovare il suo vecchio amico e di vedere come si fosse sistemato nella terra di sua madre. Certo era strano quel suo compagno d’infanzia. 

Lo era sempre stato, anche se lui aveva sempre attribuito le stranezze del suo carattere, come una bizzarria dovuta alla sua nascita tra i privilegiati e alle eccessive attenzioni che aveva ricevuto in famiglia, soprattutto dalla mamma, sempre pronta ad accontentare quel suo figlio ribelle e capriccioso. Non gli era mai venuto in mente che invece, quelle originalità, fossero frutto della natura artistica di un animo attento e sensibile alla natura. Un ascolto perenne alla vita e ai suoi dettati. Nell’animo di Dario non c’era posto per simili sentimenti. Lui, ormai, misurava tutto con un metro materiale.

Fabrizio fu sinceramente felice di vederlo e di ospitarlo. Quanto a trascorrere insieme del tempo, era un’altra questione. A parte qualche partita a carte, la sera, dopo avere inizialmente ricordato ancora una volta i vecchi tempi trascorsi nei caruggi della città vecchia, non ci furono troppe occasioni. Il suo amico aveva delle abitudini originali, riguardo al tempo. Dormiva di giorno e per lo più lavorava di notte in compagnia della sua chitarra. Le sue note e i suoi versi riempivano il silenzio notturno.

Una volta anche Dario si sentì immerso in una nuvola di malinconia, proprio mentre il suo amico cantava ‘Giugno 73’ una canzone che, per sua stessa ammissione, era una delle poche autobiografiche. Fu durante il verso finale “è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati” che si ritrovò a ripensare alla sua ragazza finalmente così felice di avere l’apparecchio acustico che aveva risolto il suo problema uditivo che l’affliggeva dalla nascita. Cosa stava facendo ora Bice? Lo amava ancora? Mentre si rigirava nel suo letto si chiedeva se avesse fatto bene a spezzare quel legame tenero e sincero che per un certo periodo era riuscito, almeno in parte, a colmare i vuoti della sua esistenza. Per fortuna il sonno prese subito sopravvento. Non c’era spazio nei suoi pensieri e nel suo animo per simili nostalgie.

Infatti il giorno seguente Bice era già fuori dalla sua testa. Ma Dario non se ne preoccupò affatto.

 La tenuta era così grande che vi si poteva camminare per ore senza trovare anima viva. Un giorno che aveva fatto un lungo giro, dopo aver vagato a lungo tra rupi, boschi e anfratti, mentre si trovava sulla via del rientro, si imbatté casualmente nell’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere. All’inizio non lo riconobbe, sdraiato com’era in mezzo all’erba, pancia a terra, con i binocoli puntati in direzione della residenza De André. Ne distinse il volto come quello si girò di scatto, forse spaventato dal fruscio dei suoi passi.

«Belin, Vittorio, che diavolo stai facendo qui? E cosa fai con quei binocoli?» gli chiese ridendo di gusto.

«Ma che domande del cazzo mi fai? Cosa ci fai tu, qui? Non dovevi essere a Nuoro, boja d’un fàuss! Ho pensato che ti avessero arrestato o che fossi morto da qualche parte» sbottò in tono minaccioso l’altro, per tutta risposta.

A Dario, la risata di prima passò di colpo. Quello lì era incazzato sul serio. Tanto più che dal folto della macchia era apparso all’improvviso un altro uomo. Non era giovane quanto lui e neanche quanto Vittorio. Fu colpito da due cose. Dal suo fisico imponente e dal fatto che vestiva alla sarda, con giacca di velluto e pantaloni di fustagno e con i gambali e la berrita in testa, a completare l’abbigliamento tipico dei pastori, come gli avevano ampiamente descritto i suoi cugini di Sassari.

L’uomo, lisciandosi con fare circospetto i baffi neri e spioventi, appena spruzzati di grigio, lo guardò negli occhi e non parlò neppure per dire il suo nome. Dario notò come se ne stesse tutto il tempo al coperto del macchione boscoso, guardandosi in continuazione tutt’attorno. I suoi occhi chiari gli sembrarono quelli di un gatto o forse di una volpe.

«Belìn, non ti avevo detto che avevo dei parenti e degli amici da salutare?» farfugliò, sorpreso dalla furia aggressiva del suo interlocutore.

«Ma che cazzo vai vaneggiando? Non avevi l’incarico di stringere dei contatti con i compagni sardi, giù a Nuoro? E invece ti ritrovo qui a fare un belin, come dici tu!»

«E tu, che stai con i binocoli allora?» tentò di reagire Dario che si era sentito trattato come una merda. Ma quello rincarò ancora la dose di rabbia.

«Ma allora tu non capisci davvero un cazzo! Ma sei un combattente o sei un pirlètta che continua a fare domande inutili?»

Dario questa volta abbassò la testa, sentendosi di colpo ridicolo.

«Sì, scusa, hai ragione tu. Ho sbagliato.»

«Se tu fossi andato dove ti avevo mandato, sapresti benissimo per quale motivo mi hai trovato qui, con questi binocoli. Non penserai che sia venuto a gustarmi il paesaggio?»

Poi, visto che l’altro non parlava e stava lì a capo chino, mortificato, cercò di addolcire un poco il tono della voce. «Ce li hai sempre quegli indirizzi di Nuoro?»

«Sì, certo», disse Dario, contento di potere dare una risposta soddisfacente.

«Ecco, falli a pezzetti e buttali via. Li abbiamo dovuti cambiare, per paura che ti avessero preso con quegli indirizzi in tasca. Adesso ti do un nuovo recapito e contattalo subito a nome mio» disse in tono sbrigativo Vittorio, scrivendo qualcosa su un pezzo di carta, dopo avere passato i binocoli al suo silenzioso accompagnatore.

«Mi dici adesso che cosa sei venuto a fare e perché ti trovi qui?» chiese ancora consegnandogli il pezzo di carta con il nuovo numero di telefono.

«Non ti avevo mai detto che con Fabrizio De André siamo amici d’infanzia?», disse con un filo di voce Dario.

«Ah!» fece l’altro sorpreso. «No, non me lo avevi detto e non lo sapevo. È superfluo che io ti dica che la segretezza della nostra missione in Sardegna va oltre ogni amicizia.»

«Ma certo, stai tranquillo. Ci mancherebbe» rispose offeso. Tuttavia pensò che significato avesse la sua presenza nella tenuta del suo amico, con quei binocoli e con quel pastore silenzioso.

«E speriamo che questo non complichi, a te e a noi, i nostri programmi futuri» disse in tono enigmatico.

Dario si sentì addosso gli occhi dei due uomini e si chiese ancora il senso di quelle parole. Tuttavia non disse niente.

«Ciao. Ci vediamo a Nuoro. E non perderti per strada, anche stavolta!» aggiunse mentre si accingeva a seguire l’altro uomo, che, dopo aver dato un ultimo sguardo intorno, lo aveva osservato un’ultima volta. I suoi occhi parlarono per lui, anche se Dario non seppe come interpretare quello sguardo indagatore e profondo.

Restò lì per qualche secondo chiedendosi che senso avessero quelle parole riferite ai programmi futuri. Poi si avviò pensieroso verso la tenuta, nella direzione opposta a quella che avevano preso gli altri due uomini. Presto sarebbe partito per Nuoro. Ma non lo avrebbe detto a nessuno.

 

 

giovedì 17 ottobre 2024

Il Manuale del perfetto orologiaio

 

Capitolo Quinto



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«Eccellenza, gli ospiti spagnoli sono giunti e chiedono di essere ricevuti», disse il primo segretario con una certa agitazione nella voce, affacciandosi alla porta dello studio che il vice legato aveva lasciata aperta in attesa dell’arrivo di quegli ospiti lungamente attesi.

«Finalmente! È tutto il santo giorno che li aspetto», disse rivolto al suo interlocutore, interrompendolo. Poi, rivolto al suo braccio destro aggiunse: «Falli accomodare e poi recati subito in sala da pranzo. Che tutto sia pronto a dovere per il desinare degli ospiti!»

Un uomo dal fisico atletico e dall’età indefinibile e apparente, tra i quaranta e i cinquant’anni, fece il suo solenne ingresso nell’ufficio. Seppure non tanto alto, aveva un passo marziale, in linea con la foggia dei suoi abiti, che avevano qualcosa di militaresco. La barba e i baffi, ben sagomati, erano neri e leggermente spruzzati di grigio, come la sua folta capigliatura. Che fosse un militare venne confermato dal colpo di tacchi che diede, scattando sugli attenti, per presentarsi al padrone di casa, andatogli incontro in segno di accoglienza e rispetto.

«Don Agostino Barozzi ho il piacere di presentarvi don Pedro Domingo Mendoza Martinez, inviato di sua maestà il re di Spagna Filippo IV! Don Pedro, lasciate che vi presenti il Presidente del Tribunale dell’Inquisizione di Ferrara, confermato in sede da Sua Santità, il nuovo papa Urbano VIII», disse subito dopo avere dato il suo caldo benvenuto all’ospite ed essersi a sua volta presentato, volgendosi all’indietro verso l’ imponente figura di un  religioso vestito di bianco.

All’Hidalgo don Pedro, quell’accoglienza in pompa magna, piacque soltanto a metà. Apprezzò l’utilizzo della lingua spagnola, che i due prelati italiani, da buoni diplomatici, padroneggiavano assai bene.

E gli piacque, tutto sommato, la figura rotonda e gioviale del vice legato. Forse perché lo superava in statura; inoltre la sua stretta di mano, debole e soffice, denotava un carattere poco bellicoso, anche se gli suggeriva, per esperienza, di guardarsi le spalle dalle sue azioni segrete.

 Ciò che più di tutto lo mise a disagio, anche se soltanto a un livello epidermico, fu però quel domenicano, dall’aspetto troppo fiero e troppo gaudente, per quel suo ruolo di inquisitore.

«Ma, come mai, siete solo, eccellenza?», chiese Pasini Frassoni guardando oltre le spalle dell’hidalgo spagnolo.

«Il mio servitore non ama le riunioni conviviali; e padre Alonso de Barranquilla si è trattenuto in carrozza per completare i suoi vespri», disse il cavaliere spagnolo. «Vi sarei grato se ci poteste fare accompagnare ai nostri alloggi. So che il nostro comune amico vi ha raccomandato l’esigenza di una nostra autonomia».

«È tutto pronto, in tal senso. Tuttavia, il nostro comune amico, non mi perdonerebbe mai se vi facessi andar via senza avervi invitato a mangiare qualcosa con noi, dopo un così lungo viaggio! Vi farò accompagnare ai vostri alloggi subito dopo cena».

«Permettetemi allora che io vada a chiamare il mio accompagnatore e assistente spirituale Padre Alonso de Barranquilla e a dare disposizioni al mio servitore!» disse l’hidalgo ringraziando l’ospite per la sua gentilezza.

«Non incomodatevi, manderò uno dei miei servi» lo incalzò Pasini Frassoni.

Non aveva tuttavia finito di parlare che un sacerdote, alto e magro, rigorosamente vestito di nero, fece il suo ingresso nell’ufficio del vice legato. L’uomo fece sparire il suo breviario nelle capaci tasche della tonaca prima di presentarsi. Nonostante la sua giovane età, il gesuita mostrava una grande sicurezza.

Il tempo di fare le presentazioni del nuovo venuto che Don Giuseppe si affacciò sulla soglia.

«In sala è tutto pronto per la cena!», disse rivolto al suo diretto superiore.

«Benissimo. Don Giuseppe accompagna i nostri ospiti a rinfrescarsi dal viaggio e poi portali in sala da pranzo», ordinò il padrone di casa. «Volete che faccia chiamare il vostro servitore?», aggiunse poi rivolto ai due nuovi arrivati.

«Non c’è bisogno. Ha con sé delle cose personali che non lascerebbe mai incustodite; e poi, come vi ho già detto, non è un tipo che ama troppo le compagnie numerose» lo giustificò l’hidalgo.

«Piuttosto non sarebbe male fargli arrivare qualcosa di caldo da mangiare», interpose il padre gesuita.

«Non si preoccupi. A questo provvederò immediatamente io», lo rassicurò il padrone di casa.

Poco dopo i quattro si ritrovarono in una sala dove troneggiava una tavola imbandita di tutto punto. Il vice legato e il presidente del tribunale avevano atteso in piedi i loro due commensali.

«Prego accomodatevi. Spero vi piaccia la cucina italiana», disse il vice legato indicando agli ospiti i loro posti.

Dietro ogni sedia vi era un cameriere, che prontamente facilitò la loro seduta, scostando opportunamente le sedie dietro di loro.

«Amiamo abbastanza la vostra gradevole cucina, ma a tavola vorrei parlarvi di alcune cose alquanto riservate», rispose l’Hidalgo, posando il suo sguardo sospettoso sui camerieri.

Con un cenno degli occhi Pasini Frassoni licenziò i quattro camerieri. Intanto il coppiere aveva iniziato a versare il vino nei calici. Gli occhi intensi dello spagnolo si posarono su di lui, più che sul contenuto che aveva versato nei calici.

«State tranquillo don Pedro, si tratta di un fido servitore sordomuto», lo tranquillizzò il vice legato.

L’hidalgo annuì con un cenno d’intesa, cominciando a intuire la sottile intelligenza che animava il suo anfitrione italiano.

«Vi do il benvenuto con questo Savignon, tanto per iniziare», disse Pasini Frassoni levando in alto il calice. «Propongo questo primo brindisi in onore del re di Spagna», aggiunse subito dopo, mentre i calici tintinnavano.

«Al re Felipe e al papa Urbano», aggiunse Padre Alonso de Barranquilla.

Dopo il brindisi il padrone di casa invitò i commensali ad assaggiare il primo piatto, che lo stesso mescitore sordomuto, in mancanza di altro personale, provvide a versare nei piatti, attingendo da una zuppiera che troneggiava al centro della tavola.

Un gradevole profumo di zucchero e di latticini si levò dalla zuppiera e dai piatti fumanti.

«Buono davvero questo riso alla turchesca!», commentò per primo don Agostino Barozzi, che era un vero buongustaio.

«Il cuoco lo ha arricchito anche con farro e mandorle» disse il padrone di casa, apprezzando il complimento del suo connazionale.

«Davvero saporito», convenne il gesuita, sorridendo. Aveva dei denti piccoli e scuri, ma il suo sorriso denotava un animo gentile. Evitò di dire che lo avrebbe gustato meglio con un cucchiaio di legno, ma in fondo si era già rassegnato alle usanze italiane.

«Prima di tutto vorrei parlare del mio metodo di lavoro» disse don Pedro rivolgendosi al vice legato. Il padrone di casa annuì, notando che l’hidalgo, per niente in imbarazzo nell’uso della forchetta e del tovagliolo, aveva appena assaggiato il gustoso primo piatto.

«Non vi è piaciuto il riso?» chiese non di meno al suo ospite.

«È saporito, forse anche troppo, per il mio palato. E poi presumo che abbiate degli altri piatti da farci gustare. Mi voglio riservare uno spazio anche per dopo», rispose l’hidalgo gustando ancora un po’ di vino, per fare onore comunque alla buona tavola imbandita per lui.

Come evocato dalle parole dello spagnolo comparvero due camerieri che portavano due vassoi di arrosti: uno colmo di crostacei e di pesci del Po, l’altro di carni bianche. L’hidalgo, che aveva fatto cenno di continuare il suo discorso sulle sue modalità operative, si era bloccato all’apparire dei due camerieri. Aspettò pazientemente che il dapifero trinciasse i fagiani e mondasse abilmente i pesci della portata. L’hidalgo, per tutto il tempo gli aveva tenuto gli occhi addosso.

 Con un cenno eloquente di congedo, Pasini Frassoni li congedò tutti e tre. Poi, sempre senza parlare, fece intendere al coppiere che era ora di cambiare calici e qualità del vino.  Con gesti rituali il sordomuto provvide a colmare i nuovi calici di cristallo di un liquido rosso rubino.

«Ho pensato che con gli arrosti il vino più adatto fosse il Fortana».

«Ottima scelta», convenne don Agostino, che aveva già bevuto dell’acqua, dopo avere vuotato il calice del vino bianco e, soprattutto, il piatto di riso e farro.

L’hidalgo sollevò il calice per un ulteriore brindisi. Sembrava quasi rassegnato a quel cerimoniale ma si vedeva che i suoi interessi e la sua testa stavano da un’altra parte.

«Come vi dicevo», riprese infatti dopo avere gustato un piccolo sorso di rosso «io ho bisogno di una certa autonomia nel mio lavoro di indagine».

«In che senso?», interpose don Agostino dopo avere fatto schioccare la lingua sul palato, in segno di apprezzamento per il gusto del vino Fortana.

«Nel senso che noi seguiamo i nostri metodi e le nostre procedure in maniera autonoma. Per questo abbiamo chiesto un alloggio ampio e isolato» disse   don Pedro Domingo Mendoza Martinez, sempre rivolto al vice legato. Non poté fare di osservare, comunque, con quanta lascivia il domenicano ingurgitasse i gustosi gamberoni di fiume.

«Però voi sapete che potete contare su di noi per ogni tipo aiuto. Il nostro comune amico mi ha raccomandato di non negarvi alcun appoggio possiate necessitare per il successo della vostra missione».

«Vi ringrazio e conto davvero sul vostro appoggio, soprattutto dandomi le opportune informazioni sull’Accademia capitanata da quel Pietro Marino De Regis segnalatami dal mio illustre committente e sui suoi indegni sodali».

«Potete contarci in toto, don Pedro», lo rassicurò il vice legato.

«Quanti soldati mi potete mettere a disposizione?», rilanciò subito lo spagnolo, dimostrando di voler subito giungere al sodo.

«Ho già pensato anche a quello. Alla fortezza del Barco vi è un plotone di soldati che si alternano nell’arco delle ventiquattrore. Il comandante, per mio incarico, è già stato informato del vostro arrivo».

«Sa già che lui e i suoi uomini saranno sotto il mio diretto comando per tutto il tempo in cui starò qui in missione?»

«Sì, certo. Glielo preciserò ulteriormente, se ci tenete»

«Certo che ci tengo. E vi ringrazio per ciò che farete per assicurarmi la più ampia autonomia».

«Ma non è che sorgano poi problemi di giurisdizione con il nostro comune amico? Sapete bene quanto egli sia geloso delle prerogative e delle competenze dell’umile ufficio che qui rappresentiamo…», intervenne a dire don Agostino, ch’era già passato a degustare i fagiani arrosto.

Don Pedro capì che un uomo di legge come il vice-legato poteva restare influenzato dal discorso del domenicano che, evidentemente, non era soltanto un mangione. Ma lo spagnolo conosceva bene l’animo umano e sapeva come muoversi anche sul piano dialettico.

 «Anche io sono soltanto un umile servitore del re Filippo IV, ma sono qui per incarico del nostro comune amico onde assicurare alla giustizia divina l’anima di numerosi  peccatori eretici. Non è forse così Padre Alonso?»

Il gesuita assentì in direzione dell’hidalgo con uno dei suoi sorrisi intelligenti e mansueti.

«Ma state pur sicuri che dopo il pentimento e la confessione degli eretici, il loro corpo vi verrà consegnato per le giuste punizioni. E con il loro corpo anche i loro beni materiali rientreranno nella loro naturale giurisdizione; e sarete voi ad occuparvene, dal momento della confessione in poi» concluse lo spagnolo con un’espressione del viso che assomigliava più a un ghigno che a un vero sorriso.

 Quest’ultimo inciso piacque assai all’ambizioso vicario che in realtà non ce l’aveva con il De Regis in funzione delle sue letture (lui stesso stava consultando avidamente certi scritti di Copernico, rinvenuti negli archivi estensi che in parte erano rimasti a Ferrara dopo la Devoluzione), ma puntava alla confisca delle sue proprietà (indispensabile corollario della sentenza di condanna per eresia in forza delle norme inquisitorie in vigore). Non di meno non volle che il domenicano avvertisse da parte sua una scarsa considerazione per le sue corrette considerazioni e ci tenne a tranquillizzarlo in tal senso.

«State tranquillo don Agostino che provvederò personalmente a informare il nostro comune amico della misura e delle forme con cui abbiamo utilizzato la sua delega nei confronti del nostro ospite, qui in missione per conto di lui!»

Dopo cena il vice legato accompagnò i suoi ospiti in una saletta riservata ove, con grande stupore di tutti, dispiegò sopra un tavolo quadrato, una dettagliata mappa che comprendeva sia la vecchia città medievale, sia l’addizione erculea, comprensiva del tragitto che di lì a poco il terzetto spagnolo avrebbe percorso in direzione dell’edificio che un tempo aveva ospitato l’Osteria del Buon Samaritano.

Pasini Frassoni li informò che li avrebbe fatti accompagnare da Cristoforo Messìppo, un abile cavallerizzo e suo conduttore personale, che avrebbe mantenuto i contatti riservati tra le due sedi. Gli mise inoltre a disposizione, uno scalco- credenziere e  due delle sue migliori inservienti, una cuoca e l’altra pulitrice e rassettatrice. Omise ovviamente di informare l’astuto hidalgo che in realtà si trattava di tre fidatissimi agenti della sua segreteria personale, incaricati di riferirgli nel dettaglio tutto quanto sarebbe avvenuto nella sede operativa prescelta per gli interrogatori degli inquisitori spagnoli. 

Preso nota di alcune altre fondamentali informazioni sull’Accademia degli Increduli e su Pietro Marino De Regis, Don Pedro Domingo Mendoza Martinez e Padre Alonso de Barranquilla si avviarono nel cocchio personale del vice legato, condotto da Cristoforo Messìppo.

Li seguiva dappresso il carro con le vivande e le masserizie, nonché con il bagaglio della commissione inquisitoria iberica (escluso il bauletto di Tenoch, che lo legò sul dorso del suo  cavallo, in sella al quale affiancava il cocchio che conduceva il  suo padrone)  guidato dallo scalco e credenziere.

Una luna piena e velata li accompagnava.

Messìppo pensò che l’indomani tutta Ferrara sarebbe stata avvolta nella nebbia.

Ma non disse niente. Il suo padrone gli aveva raccomandato infatti di mostrarsi indifferente a tutto e di tutto osservare senza dare nell’occhio.

venerdì 4 ottobre 2024

Sicuramente ligure ma anche un poco sardocartaginese


Lasciare Genova per il paesaggio sardo di Tempio Pausania, impregnato di una natura ancora primordiale, è una scelta di vita per Fabrizio De André. All’Agnata il cantautore compra terreni, un casale da ristrutturare e, ormai ammaliato da quell’aura autentica e misteriosa che ammanta una delle isole più belle e selvagge del Mediterraneo, si trasferisce con la sua compagna, la cantante Dori Ghezzi. Ma, la notte del 28 agosto del 1979, l’Anonima sequestri, legata alle Brigate Rosse sarde, mette in atto il rapimento di Faber e della sua donna. La coppia viene nascosta tra le montagne di Pattada.

117 giorni di prigionia, il riscatto pagato, le dichiarazioni dopo la liberazione e le condanne inflitte sono state ampiamente documentate da TV, giornali e libri. Perciò, la storia che Basile, autore cagliaritano, vuole raccontare senza emettere giudizi è una narrazione parallela, nella quale i protagonisti sono la sua Sardegna e le leggi non scritte ma applicate in una società agropastorale, i codici comportamentali che rispecchiano la semplicità della vita tra le montagne e i dubbi di Dario – di origine sarda e amico d’infanzia di De André – che, per inseguire le sue aspirazioni verso una società più equa e solidale, si ritrova coinvolto in un’azione criminosa e si lega a banditi talvolta improvvisati, ma decisi a perseguire il loro personale senso di giustizia.

martedì 1 ottobre 2024

Il Manuale del Perfetto Orologiaio

 


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Capitolo Secondo

«Le ho gabbate una volta, quelle sottane» – si vantava Pietro Marino con gli amici della Nuova Accademia, riferendosi ai religiosi della Congregazione pontificia che lo avevano processato negli anni novanta del secolo precedente – «e le gabberò novellamente anche ‘stavolta!»

«Quante ne abbiam fatte con gli Incerti, eh Pietro?», interpose Girolamo Aleardi.

«E soprattutto quante ne faremo ancora!», rispose Pietro Marino sollevando il calice stracolmo di vino.

«Giusto», interloquì Ciro di Pers, facendo tintinnare il suo calice con quello dei suoi sodali. «Brindiamo al nuovo che avanza!»

«Brindo ai dolci e femminili visi, che degli Incerti i cuori affranti, ieri allietarono conquisi, e cogli Increduli in avanti, a scapito di Ludovisi, conquisteremo ancor festanti!», improvvisò Gabriello Chiabrera, levando a sua volta il calice.

Un coro di evviva, di prosit, ad maiora, e altri auspici che inneggiavano alle nobili frontiere delle nuove conoscenze ma anche alle crapule più prosaiche e volgari, si levarono in risposta ai versi improvvisati dal poeta; e altri ne seguirono quella notte, come altre notti a seguire.

Pietro Marino De Regis, chiamato “Il Carminate”, era uno dei 144 membri, tra poeti, musicisti, pittori  e artigiani,  che avevano contribuito nel dicembre dell’anno del Signore 1623 a fondare  la Nuova Accademia degli Increduli di Ferrara.

Si trattava in realtà di una rifondazione della precedente Accademia degli Incerti, sorta sempre a Ferrara molti anni prima e sciolta nel 1597 dalla Congregazione dell’Indice Paolino, per avere osato tradurre la Bibbia in volgare.

Egli era uno dei pochi sopravvissuti che poteva fregiarsi di essere appartenuto alla precedente fondazione accademica ferrarese.

Lo stesso  Pietro Marino, all’epoca già provetto  orologiaio, nonché promettente e giovane poeta,  era scampato però alla condanna personale,  in virtù di uno stratagemma di natura legale: gli avvocati degli imputati erano riusciti infatti a dimostrare che la Bibbia in volgare era stata composta dal 5 al 14 ottobre 1582, un periodo temporale che il papa  Gregorio XIII, decidendo di riformare il calendario giuliano, aveva dovuto abolire per decreto, onde correggere le imprecisioni del precedente calcolo giuliano, recuperando il tempo in esso perduto.

In quanto “vacuum ac nullus”, avevano chiosato gli abili difensori degli imputati accademici (avvocati direttamente nominati dal duca d’Este, che con quella mossa aveva inteso difendere, ad un tempo, un componente del suo casato, affiliato all’Accademia ed il suo stesso Ducato, da sempre nelle mire espansionistiche dello Stato Pontificio), in quel periodo non poteva essere validamente ascritto alcun crimine a chicchessia, in quanto “quod nullum est, nullum producit effectum”.

E non si sa se furono i brocardi di giustinianea memoria, profusamente decantati dai quei provetti principi dello Studium Juris Estense, capitanati da Renato Cato ovvero l’influenza del loro potente patrono, ovvero ancora il timore  del cardinale Aldobrandini di guastare i già difficili  rapporti con la Francia (Alfonso II d’Este era nipote del re francese  Enrico II per parte di madre ed era di casa presso la sua corte), fatto sta che il Tribunale della Congregazione dovette assolvere tutti gli autori imputati.

Certo è che le Note Difensive redatte dallo Studium Estense furono intelligentemente fatte circolare, seppure in copia informale e per conoscenza, nelle più importanti corti europee, ciò che mise in seria difficoltà la cerchia aldobrandina, sempre attenta a non turbare troppo gli equilibri diplomatici.

La Congregazione sfogò però tutta la sua rabbia potente contro l’Accademia, ordinandone lo scioglimento e contro l’editore Manuzio di Venezia, acerrima nemica dello Stato Pontificio, che aveva pubblicato la traduzione vietata in mille esemplari andati a ruba, e che comunque aveva pensato bene di   rimanere contumace nel processo. E il duca Alfonso II, ormai al tramonto della sua vita, stanco e senza figli, sullo scioglimento dell’Accademia chiuse tutti e due gli occhi perché comunque l’assoluzione degli imputati, tra cui quella del suo nipote affiliato che tanto gli era caro, fu considerata negli ambienti politici e diplomatici dell’epoca, una sua vittoria personale.

Ne era passata di acqua sotto i ponti da quel tempo! Estintasi la linea diretta della casata degli Estensi (Alfonso, nonostante i suoi due matrimoni, era morto senza eredi legittimi diretti) lo Stato Pontificio era riuscito finalmente ad inglobare i territori ferraresi del ducato sotto la sua sovranità, ed al posto dei duchi d’Este ora regnava a Ferrara un Legato Pontificio.

E quegli accademici, rimasti orfani dei grandi mecenati estensi, seppure sfrattati da villa Marfisa, avevano continuato ad unirsi in segreto, aggregando giovani talenti, per niente impauriti dai nuovi sovrani tonacati.