sabato 23 marzo 2019

L'immigrazione e il teatrino della politica


Il teatrino della politica,  al quale stiamo assistendo  anche in questi giorni,  in materia di immigrazione , mi ricorda, in una certa misura, le rappresentazioni che facevano certi film degli anni sessanta della lotta che vedeva opposti i buoni e prodi americani ai selvaggi e cattivi Indiani d'America, ben prima che questi venissero rivalutati da un cinema più attento e intelligente, sulle ali dei grossi sensi di colpa che hanno fatto emergere le loro ragioni, al di là delle apparenze.

Ebbene, in questi film dozzinali della mia infanzia, gli Indiani venivano rappresentati come dei selvaggi idolatri, aggressivi, sporchi e inaffidabili, mentre gli americani erano "i nostri", i giusti, quelli che intervenivano al momento giusto per rimettere le cose a posto.
Era facile per noi bambini identificarci e solidarizzare con i cow-boys e con i soldati americani e, di conseguenza, schierarci contro gli Indiani.

Cosa non può distorcere, la rappresentazione di una verità voluta, ancorché fallace e fuorviante, nella mente semplice di un ingenuo ragazzo!?

Che cosa c'era che non andava in quelle rappresentazioni filmate hollywoodiane?

E' molto agevole rispondere: esse ricreavano una situazione, immediata e contingente, in cui era facile leggere da che parte stesse il torto e da quale la ragione.
Era sufficiente, a titolo d'esempio, mostrare degli Indiani ululanti e rabbiosi, in assetto di guerra, incendiare un forte, assalire dei coloni, rapire o peggio uccidere con selvaggia ferocia delle donne e dei bambini inermi,  per scatenare nello spettatore ingenuo e impreparato (ma quale bambino non lo è?) lo sdegno e il desiderio di un intervento riparatore.

Lo stesso accade, se ci badate, nell'odierno teatrino della politica, in materia di immigrazione, anche se la rappresentazione è assai più sfumata e complessa.

 Lo schema di base, tuttavia, è identico: nella rappresentazione di una certa parte politica, ci vogliono mostrare da un lato  gli invasori, i cattivoni, i selvaggi; dall'altro ci sono "i nostri", i salvatori, i giusti.

I politici di parte avversa, nella loro rappresentazione, utilizzano lo stesso schema: da un lato ci mostrano i cattivoni libici, quelli dei campi di concentramento che si accaniscono contro gli inermi migranti; dall'altro ci solo loro, i rescuers, i nuovi salvatori della patria, le ONG filantrope che salvano gli inermi dalle grinfie del mare malvagio.

Entrambe le rappresentazioni sono fallaci e ingannevoli, anche se possono contenere, se non altro,  qualche verità contingente.

Il loro inganno, la loro fallacità sta nella parzialità della rappresentazione; rappresentano cioè soltanto un segmento di verità, estrapolato dal complesso del problema, dalle radici, dalla realtà più complessa e complessiva.
A seconda del suo orientamento politico, l'ingenuo spettatore non può non schierarsi con i buoni di turno.
Così è automatico per uno di sinistra, schierarsi con le ONG contro gli aguzzini del mare e i trafficanti di uomini; e per uno di destra non ci sono dubbi che occorra impedire agli invasori neri (pakistani invaders li chiamava qualcuno a Londra,  tempo fa) di insediarsi in Italia, con le loro credenze esotiche e le loro consuetudini antieuropee e anticristiane.

Ma nelle rappresentazioni semplicistiche, parziali e superficiali, alle quali non è estranea certamente un'informazione televisiva sbrigativa e sommaria, non emergono gli esatti e netti contorni della realtà.
Per esempio: ma chi ha portato questi disperati in Libia? E perché? Se l'Italia e l'Europa hanno bisogno di manodopera e di operai per le loro campagne e per le loro industrie, non ci sono altre vie per fare arrivare soltanto quelli di cui si ha veramente bisogno e le loro famiglie ? (E che ce ne sia bisogno, non c'è dubbio; la stessa destra di Berlusconi e Bossi, fece anni fa un condono per 600.000 clandestini già inseriti come operai nelle industrie del Nord, su pressione dei loro sodali di Confindustria).
E ancora: queste ONG, cosa ci guadagnano a pattugliare il mare in cerca di naufraghi da salvare? Chi sono? Chi paga la loro organizzazione? E perchè? Abbiamo il diritto di sapere da chi vengono finanziate?
Ma davvero dobbiamo prendercela con questi poveri disgraziati e non, invece, con i governanti dei diversi stati del mondo (in primis quelli italiani) per questa situazione?
E poi mi piacerebbe chiedere: dove sono le ricchezze prodotte dalle risorse naturali dell'Africa? Dove sono i profitti delle industrie delocalizzate dall'Europa e insediate in Africa e in Asia?
E i profitti della globalizzazione che se li sta incamerando?

E infine (ma solo per paura di tirarla troppo alle lunghe): ma il nostro dovere di salvare le vite umane, si limita a quei disperati che hanno la forza e i soldi per incamminarsi e imbarcarsi verso le nostre coste? E gli altri? Quelli che rimangono a morire di stenti e di guerra in Africa? Quelli non contano?
Nessuno vuole capire  che gli immigrati che approdano nelle nostre coste sono soltanto la punta di un iceberg?
Insomma, fermo restando il dovere di salvare le vite umane, siano esse in mare, siano esse inchiodate in Africa o in Asia, o dovunque si soffra e si muoia a causa di guerre e carestie, io mi rifiuto di parteggiare per gli Indiani o per i Cow-boys e pretendo una visione più ampia e completa del problema.
E' troppo chiedere ai nostri politici e ai mezzi di informazione che essi controllano di fare chiarezza?

venerdì 15 marzo 2019

Memorie di scuola - Parte terza


Capitolo quattordicesimo
Anno scolastico 2000-2001
Alcuni vecchi docenti come me, che hanno insegnato a lungo,  a cavallo dei due secoli ventesimo e ventunesimo, sogliono distinguere il prima e il dopo rispetto alla introduzione dell’autonomia scolastica.
A distanza di oltre venti anni dalla sua introduzione  (l’autonomia scolastica è in realtà entrata in vigore formalmente il 1 settembre del 2000, ma in precedenza c’era stato un biennio di sperimentazione) io ancora non riesco a spiegarmi il senso di questa riforma che il centro sinistra (col ministro  Luigi Berlinguer) ha voluto calare dall’alto, nonostante le opposizioni nette dei sindacati e dei docenti.
A me questa riforma dell’autonomia scolastica (ripresa con esiti ancor più disastrosi dal governo Renzi con la legge 107 del 2015) ha dato sempre l’impressione di quel  matrimonio, preannunciato con squilli di tromba e grande enfasi, che poi venne però festeggiato  con i fichi secchi.
Si iniziò con la  legge n. 59/1997, (riforma Bassanini), che all’art.  art.21 pose la prima pietra dell’autonomia scolastica conferendo al Governo il potere di riorganizzare il “Servizio istruzione” mediante il potenziamento dell’autonomia intestata alle istituzioni scolastiche ed educative.
Venne poi  realizzata dal DPR 275/1999, che la sbandierava  come “garanzia di pluralismo culturale che si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti” .
Al tutto venne infine conferito persino  rango costituzionale (sempre da questa incomprensibile sinistra revisionista) con la Legge 3/2001 del 18 ottobre che all’art. 117, che ha  modificato  il titolo V, della parte seconda della Costituzione.
Per chi ha vissuto la riforma dall’interno, come docente,  il tutto è risultato essere una grande operazione propagandistica, fatta da ministri affetti da megalomania che forse sognavano di iscrivere il loro nome nella storia della scuola (paradossalmente, nel secolo scorso, ci è riuscito soltanto il ministro Giovanni Gentile, cioè un ministro dell’epoca fascista).
In pillole, la  riforma ha attribuito a ogni scuola una personalità giuridica, ha cambiato il nome del preside in Dirigente Scolastico, ha introdotto per ogni scuola l’obbligo di differenziare l’offerta formativa con l’adozione di un POF (piano dell’offerta formativa).
A ben vedere la riforma è stato un cambio di facciata, un’operazione malfatta di maquillage che ha aumentato soltanto il disorientamento dei docenti e la confusione nell’organizzazione.
Del resto basta leggere la cronaca per capire che cosa sia diventata la scuola.
Al di là delle formule burocratiche e pompose, quali quella tesa a “migliorare il processo di insegnamento e di apprendimento” o quella che avrebbe per fine “  di garantire ai soggetti coinvolti il successo formativo, mediante l'impiego delle indispensabili risorse umane, finanziarie e strutturali” e “l’ambizione  di realizzare l’integrazione e il miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, anche attraverso l’introduzione e la diffusione di tecnologie innovative”, l’autonomia scolastica è un vero e proprio sacco vuoto.
E leggiamola questa cronaca, per capire quanto poco abbia funzionato questa strombazzata riforma scolastica.
Punto primo: gli edifici scolastici stanno cadendo a pezzi.
La riforma avrebbe dovuto cominciare invece da lì. Si sarebbe dovuto innanzitutto provvedere a mutare radicalmente la stessa architettura scolastica, rinnovando la concezione architettonica della scuola, prevedendo in ogni edificio scolastico una mensa, un teatro, una palestra, degli spazi appositi per i laboratori informatici.
Quella sì che sarebbe una vera rivoluzione. Prima di sbandierare riforme megagalattiche a nessuno di questi soloni della sinistra revisionista (non parliamo, per carità di patria, dei ministri della destra, con Moratti e Gelmini in testa, che alla scuola pubblica hanno suonato il de profundis, per rilanciare le scuole private dei loro sodali e per punire i docenti, colpevoli di essere, ai loro occhi e dei colleghi ministricchi, della serie Brunetta e Tremonti, per intenderci,  dei marxisti leninisti, affetti da fannullismo cronico, terroristi mancati e figli spuri della rivoluzione del sessantotto), è venuto in mente di rinnovare la scuola partendo dagli edifici destinati a ospitare le classi e i docenti?
A che cosa sono servite queste riforme se gli edifici scolastici son rimasti gli stessi di cinquant’anni fa? Ma davvero si può pensare di fare una riforma così ambiziosa senza prevedere una ricostruzione e un ripensamento degli spazi a disposizione di studenti e docenti per svolgere la vita scolastica? Ma qualcuno di questi riformatori mancati è mai stato all’estero, almeno per capire come va concepito una spazio scolastico decente?
Io ho avuto l’impressione che tutti i ministri che si sono succeduti nel secondo dopoguerra, non abbiano capito niente della scuola (soprattutto quelli dalla Falcucci in poi).
Non c’è bisogno di scomodare Keynes per capire che un piano di ricostruzione di tutti gli edifici scolastici avrebbe costituito un volano economico e culturale davvero rivoluzionario.
Invece i nostri ministricchi sentenziavano che con la cultura non si mangia e hanno continuato, inesorabilmente, a tagliare le risorse scolastiche.
Punto secondo: è mancato totalmente il rilancio della figura del docente.
Trattando i docenti da fannulloni, riducendo i loro stipendi a salari di sopravvivenza i nostri ministricchi non hanno fatto altro che screditare i docenti agli occhi di un’opinione pubblica sempre più arrabbiata e sempre più confusa e impreparata (che altro aspettarsi, d’altronde, se i nostri ministri e parlamentari, per primi, hanno messo la scuola all’ultimo posto dei loro pensieri?).
Risultato di questa politica di screditamento: gli studenti hanno cominciato a vedere i loro docenti come degli sfigati, senza arte né parte, bistrattati, malpagati e tecnologicamente arretrati; i familiari sono arrivati persino ad allungare le mani su di loro (e non è mancato neppure qualche studente che lo ha fatto, postando poi su Internet la malefatta).
Ma come si è potuto pensare a una riforma che non prevedesse il rilancio della figura più importante della scuola?
Terzo punto: si è tanto discettato di autonomia ma i programmi sono rimasti quelli di mezzo secolo fa, appannaggio esclusivo dei ministri e dei loro apparati. E qui la domanda sorge spontanea: ma allora di quale autonomia si è parlato in questo ventennio?
Risposta semplice e ovvia: dell’autonomia relativa ai programmi aggiuntivi, quelli extracurricolari, da svolgersi nel pomeriggio. Insomma, a dei veri e propri riempitivi, per non chiamarli optional.
Peccato che nessuno abbia previsto che questi programmi aggiuntivi, tesi magari lodevolmente a colmare le lacune manifestate dai discenti durante l’anno scolastico, andassero svolti al pomeriggio, e che quindi gli edifici scolastici abbisognassero di una mensa scolastica, una cucina , dei luoghi di ritrovo per studenti e docenti!
E qui mi fermo. Non senza aver posto un’ ultima  domanda: ma si può seriamente  pensare di costruire una scuola di livello europeo, lasciando gli stipendi dei docenti a un livello tra i più bassi d’Europa?

Leggi il  testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile,  acquistando on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486. Il romanzo è disponibile anche in formato e-book nel sito della casa tramite il link sottostante.

giovedì 14 marzo 2019

Free Nasrin Sotoudeh


Though Mohammad Moqiseh, a judge at a revolutionary court in Tehran, said on Monday that Nasrin Sotoudeh had been sentenced only to five years (and not to decades of prison and to be lashed in a public place) for assembling against national security and two years for insulting the country’s supreme leader, Ali Khamenei, we are all very worried about the human rights in Iran.
The concerns are increased by the circumstances that Nasrin Sotoudeh is a lawyer and as such she has spent her professional efforts to defend several  Iranian  people from the invadence of the religious dictatorship.
As a western citizen I found inacceptable that a regimen of a no democrat state  inhibits lawyers and writers to criticise the vertices and the powermen of the apparatus.
Please don't think and don't tell me this is a domestic jurisdiction affair.
The globalisation has mad the entire world a unique, great comunity.
How long do we have to wait until all the men and women in the world can freely speech even against the power?
It's a shame that in the third millennium we must assist to convictions for opinion crimes.
We want freedom of speech for everyone in the world.
We want the men of state and power stop preventing lawyers, journalist and simple citizens to express their opinions.
We can't tolerate anymore a censorship of the free speech and the free human thought.
Enough it's enough!

mercoledì 13 marzo 2019

Memoria di scuola - Parte terza


Capitolo sesto
Anno scolastico 1992-1993
Chissà come e perché (forse è vero che l’appetito vien mangiando), ma erano passati pochi anni da quando avevo vinto il concorso per insegnante delle scuole superiori, che già sognavo di fare il gran salto all’Università.
Forse sarà stato un retaggio della mia gioventù da giramondo (l’attento lettore ricorderà come io avessi interrotto i miei viaggi soltanto provvisoriamente, per dar modo al mio buon vecchio, di liberarsi del fardello dei suoi affari e di come poi, invece, io restassi favorevolmente incastrato da una serie di coincidenze positive, rassegnandomi a non riprendere più quei miei viaggi solitari e, in fondo,  spericolati,   senza meta e senza costrutto). O magari saranno  stati il mio ego smisurato e  la mia giovanile esuberanza a spingere per un miglioramento di status economico e sociale; infine, forse, più verosimilmente, sarà stata la mia condizione di solitudine e il vuoto affettivo da riempire, o la sete di avventure, fatto sta che quando lessi di un concorso per ricercatore universitario bandito dall’Università di Trento, mi venne voglia di mettermi in gioco di nuovo e cimentarmi ancora in un concorso pubblico che, in caso di vittoria, mi avrebbe proiettato nel mondo accademico, dove finalmente avrei potuto appagare (così almeno ragionavo all’epoca) la mia infinita sete di conoscenza.
All’università avevo studiato il diritto tributario con il prof. Basciu, un autentico luminare della materia. Sapevo inoltre che non erano molti gli studiosi specializzati nella difficile materia,  per cui quando lessi il bando dell’Università di Trento con cui si metteva a concorso un posto da ricercatore universitario per il diritto tributario feci subito la domanda.
Il profilo richiesto dal bando sembrava corrispondere al mio. Il concorso era per titoli e per esami. Gli esami consistevano in  due scritti e un colloquio. Tra i titoli venivano considerati prioritari: l’essere titolare  di una cattedra  in discipline giuridiche ed economiche per vincita di concorso; l’avere superato l’abilitazione alla professione di procuratore legale (era il titolo che precedeva quello di avvocato e che io avevo già superato nel 1990); la conoscenza di una o più lingue straniere a livello professionale (io ne conoscevo anche allora almeno tre: l’inglese, lo spagnolo e il francese).
Prima di partire per Trento ebbi l’ispirazione di passare nella mia ex facoltà, quella di Giurisprudenza a Cagliari. Trovai un’impiegata gentile che mi diede alcune fotocopie con delle sentenze della Corte Costituzionale  incentrate sulla figura dell’intendente  di finanza (una figura che di lì a poco sarebbe scomparsa con l’istituzione delle Agenzie delle Entrate di livello provinciale che in pratica ne surrogarono le funzioni).
Prima di andar via mi imbattei nel segretario della presidenza ( che all'epoca era ancora il mio relatore alla tesi di laurea, il prof Pau, di cui ho già parlato, come ricorderà l’attento lettore) che si ricordava di me e mi accolse calorosamente. Si chiamava Lay, mi pare di ricordare, (con la ypsilon e non con la i finale) e non era sardo. “Chi ti porta?” – mi chiese dopo avere appreso che mi recavo a Trento a fare l’esame di ricercatore universitario.
Sul momento non capii. Soltanto dopo ripensai a quella strana domanda. “Torna domani!” mi disse con entusiasmo quando mi accommiatai da lui. Ci tornai dopo un paio di giorni, poco prima di partire. La sua accoglienza fu un po’ più dimessa e meno entusiastica rispetto a qualche giorno prima, anche se Lay non mancò comunque di essere cordiale. Mi fece semplicemente gli auguri, stringendomi la mano.
A Trento presi alloggio in un albergo del centro, non molto distante dalla sede ove dovevano svolgersi gli esami.
La vigilia del primo scritto mi svegliai alle quattro del mattino e non ci fu verso di riprendere sonno. Avevo con me il Manuale di diritto tributario dove avevo preparato l’esame dell’Università. Il suo autore era il Micheli , un altro luminare della materia.
Lo aprii a caso su un argomento abbastanza centrale e importante: “Il sostituto d’imposta”. Dato che il sonno non veniva mi lessi tutto l’argomento, dalla a alla zeta. Poi si fece l’ora di andare all’università. Mi preparai e dopo aver fatto colazione mi recai alla sede dove doveva svolgersi l’esame.
Eravamo sette candidati in tutto; tre, due uomini e una donna particolarmente giovane,  venivano da Bari. Gli altri tre dal nord: forse Bologna, Piacenza e Bergamo, o qualcosa del genere. Io ero l’unico Sardo. Il presidente della Commissione invitò con un largo sorriso l’unica donna candidata a scegliere una delle tre buste che lui le porgeva. Così fece la candidata. Con mia grande sorpresa, l’argomento estratto dalle mainine di quella fata fu  “Il sostituto di imposta”. Avevamo sei ore per lo svolgimento e la consegna.
Ma dopo neanche due ore tre candidati consegnarono il compito e andarono via, preannunciando che non si sarebbero presentati all’indomani per la seconda prova. Io e i tre baresi consegnammo dopo sei ore, proprio alla fine. Notai che i tre lavoravano in equipe e che i loro sforzi sembravano svolti a favorire la loro collega. Scoprii, dopo avere consegnato, che facevano parte di uno studio specializzato di Bari e un po’ ingenuamente mi confidarono che erano rimasti perché il compito che gli aveva dato il capo studio era quello di aiutare Alessandra (non ricordo il cognome di quella candidata anche se mi pare di ricordare che fosse alquanto carina e che assomigliava, almeno nei miei pensieri e nei miei ricordi, all’attrice Florinda Bolkan).
Mi riposai per tutta la sera. Prima di cena mi diedi una lettura esaustiva delle fotocopie che mi avevano dato all’università di Cagliari. Cenai leggero e me ne andai a dormire molto presto.
L’indomani mattina il presidente disse che la prova odierna sarebbe durata soltanto tre ore e che avremmo dovuto dissertare sulla figura dell’Intendente di Finanza.
Immagini il benevolo lettore che cosa provai io a sentire l’argomento proposto!
Prima di iniziare la prova il presidente ci diede delle schede da compilare; dovevamo elencare i nostri titoli e le lingue conosciute e parlate.
Consegnai il tutto dopo tre ore. Nel consegnare chiesi al presidente se la commissione  avrebbe avvisato tutti i candidati in ogni caso. La risposta del presidente fu molto chiara. Disse che dato che i candidati erano rimasti soltanto in quattro, saremmo stati avvisati tutti, sia in caso di superamento degli scritti, sia in caso di mancato superamento. Mentre consegnava la candidata di Bari ricordo ancora le parole che le rivolse il presidente, con quel suo consueto sorriso: “ Mi saluti tanto il prof. Russo!”
Sono sicuro che questo fantomatico prof. Russo con il prosieguo della storia non c’entra niente; ma io ricordo benissimo quel saluto cordiale, anche se solo dopo tanti mesi ne capii l’esatto significato.
Non dico oggi che fossi certo che quel posto sarebbe stato mio; sono stato sempre pessimista di natura (e lo sono ancora). Ma ero certo di avere superato gli scritti; questo sì.
Invece attesi inutilmente la chiamata del segretario della commissione che mi comunicasse l’esito degli scritti (e auspicabilmente anche la data del colloquio).
Quando fui stanco di aspettare telefonai io all’università di Trento.
Mi rispose un funzionario il quale mi informava che il concorso si era chiuso da un pezzo. Chiesi chi lo avesse vinto. Mi rispose cortesemente che lo aveva vinto una certa dottoressa Alessandra nonricordocosa, di Bari”.
Se mi avessero informato di non avere superato gli scritti, avrei sicuramente impugnato gli atti del concorso al TAR (forse a quello del Lazio, competente per materia, dato che si trattava di un concorso nazionale). E questo l’esimio presidente lo aveva messo di sicuro in conto, leggendo i miei titoli. Per cui si guardò bene dall’avvisarmi che non avevo superato neppure gli scritti.
Così, prima ancora di iniziare, finì la mia carriera universitaria.
Recentemente ho letto sulla stampa di uno scandalo scoppiato a causa di alcuni concorsi universitari truccati in diverse discipline, tra cui il diritto tributario. Tra i professori indagati un certo prof. Russo. Sicuramente è un caso di omonimia. Fatta salva comunque la presunzione di innocenza per tutti gli indagati.

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venerdì 1 marzo 2019

Memorie di scuola


3.
Anno Scolastico 1962-63
Dopo l’esperienza di Giorgino tornai al mio paese, dove mi aspettava il fiocco giallo della terza elementare.
Le nuove scuole elementari di via Matta non erano state ancora ultimate, per cui il Comune comunicò ai genitori che i propri figli avrebbero continuato a frequentare le scuole elementari nel vecchio Convento dei Cappuccini.
Tornai così nell’antico edificio seicentesco, secolarizzato con la legge del 29 maggio 1855, la prima di una serie di leggi con cui il Regno di Sardegna prima, e il Regno d’Italia poi, acquisirono l’ingente patrimonio ecclesiastico al patrimonio statale, nell’ambito di quel movimento politico ed economico teso a combattere la c.d. “manomorta”, ovvero l’accumulo delle proprietà immobiliari nelle mani degli ordini religiosi.
Il Convento era stato assegnato al Comune nel 1866, con l’obiettivo di adibirlo a scopi di natura pubblica.
Ci avrebbe pensato poi Mussolini, nel 1929, coi Patti Lateranensi, a risarcire  la Chiesa per quelle espropriazioni, contribuendo così a costituire il primo nucleo di quella gestione finanziaria che grazie a uomini onesti e capaci come l’ing. Bernardino Nogara e ad ecclesiastici,  non meno capaci,  ma sicuramente meno onesti,  come il cardinale Marcinkus, ha portato il Vaticano, ed il suo braccio finanziario, lo IOR, al vertice delle potenze finanziarie off shore,  o paradisi fiscali che chiamar li si voglia, del mondo globalizzato.
Ma a quel tempo certe cose non si sapevano; e se qualcuno sapeva non veniva certo a dirle a noi.
Insomma queste scuole si trovavano in uno dei quartieri storici del mio paese: su Guventu, che comprendeva, oltre alle strade attorno al vecchio convento dei Cappuccini, anche la via Cimitero, che univa il camposanto e la Piazza Chiesa, attraverso la via Roma.
L’altro quartiere storico era quello che si snodava attorno alle vie Siviller e alla via Baronale costruite attorno al Castello quattrocentesco dei Marchesi di Alagon e di Siviller, antichi feudatari del re Aragonese Martino, fiero avversario della giudicessa Eleonora d’Arborea,  poi decaduti in epoca sabauda.
Infine c’era il mio quartiere, relativamente nuovo, ricompreso tra la Piazza del Municipio, la stazione ferroviaria e lo Zuccherificio (che allora produceva alla grande, dando lavoro a un sacco di gente, direttamente e indirettamente, con l’indotto, come si usa dire oggi).
Ognuno di questi quartieri aveva la sua banda di ragazzini. Quella de su Guventu era capeggiata da Mariano, un tipetto dalla fama da duro, che non permetteva ai ragazzini degli altri quartieri di entrare nel suo, senza buscarle di santa ragione. Ricordo una sfida epica con lui e la sua banda, fatta di lanci di pietre (a mano libera e con la fionda, “su tirallasticu”, che noi stesso realizzavamo con una forcella di legno di  fico a “Y”, due strisce di camera d’aria in disuso e un pezzetta di cuoio forata ai lati).
In testa porto ancora il ricordo di quella e di altre sfide: “is istaffeddasa”, ovvero dei tagli visibili sulla cute, dovute all’impatto con i sassi taglienti.
A me toccava di stare in prima fila. L’obbligo mi discendeva dal fatto che io ero stato prescelto come capo-banda. Non tutti, però,  erano stati concordi nella scelta del capo; mi ricordo in particolare un caro amico di quei tempi andati: Rodolfo; avevamo la stessa età ma lui era più alto e robusto di me; quindi rivendicò per sé, non so dietro a quale altro pretesto,  la leadership; mi sfidò apertamente un pomeriggio d’estate, levandosi la maglietta e mostrando la  corazza di cuoio che gli copriva tutto il busto e che, a suo dire, lo rendeva invincibile e degno del comando. Più tardi mi confessò che si trattava di un busto ortopedico che gli era stato prescritto per risistemare non so bene quale sporgenza ossea; ma in quel momento credetti soltanto che si trattasse di un escamotage inventato per togliermi il bastone del comando faticosamente conquistato.
Alla vista di quella corazza, che Rodolfo scoprì con un urlo di minacciosa sfida, tutti i componenti della banda ammutolirono di colpo; ma quando capirono che non intendevo cedere il comando senza lottare si disposero in cerchio attorno a noi; ci studiammo a lungo, con finte e occhiatacce di sfida; io intuii che se mi avesse afferrato, corazza o non corazza, mi avrebbe stritolato; allora, istintivamente, escogitai un trucco che mi sarebbe servito negli anni a venire per atterrare avversari ben più temibili: mi lanciai in avanti afferrandolo dietro ai polpacci;  poi, tirando con forza verso di me, lo atterrai  pesantemente; paradossalmente, quella corazza, che lui credeva il suo punto di forza, si dimostrò invece quell’handicap che in effetti era, impedendogli di divincolarsi dalla  presa in cui lo avevo steso, con il peso del corpo e  le mie ginocchia sulle scapole che lo inchiodavano a terra. Alla mia affannosa domanda “t’arrendisi?” , lo spaventato amico non poté fare altro  che rispondere con un mesto assenso e il boato della banda decretò la mia vittoria;   Rodolfo si dimostrò un valido e leale luogotenente in tutte le nostre scorribande.
Leggi il  testo integrale di Memorie di scuola di Ignazio Salvatore Basile,  acquistando on line(c/o Mondadori store, Feltrinelli, IBS, Libreria Universitaria, Amazon ecc.) oppure in libreria il volume edito da Youcanprint ISBN 9788827845486. Il romanzo è disponibile anche in formato e-book nel sito della casa tramite il link sottostante.