sabato 9 dicembre 2023

Delitto al Quadrivio -14

 

 



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Capitolo Settimo

 

Alle 13:30, mentre il commissario De Candia si stava accingendo a lasciare il suo ufficio, dal centralino gli comunicarono che c’era una chiamata dell’avv. Luisa Levi in attesa.

-        «Qui è De Candia!» – disse asciutto sollevando la cornetta.

-        «Buongiorno commissario!» – disse una voce femminile dal tono sicuro e squillante al telefono, «la chiamo per l’omicidio del Quadrivio…»

-        «Mi dica, avvocato…»

Il commissario si sforzò di anticipare cosa potesse volere un avvocato difensore dall’uomo incaricato di svolgere indagini per conto dell’accusa.

-        «Avrei necessità di illustrarle l’esatta posizione del mio assistito, il dott.  Gino Garau…»

Forse la sua era una deformazione professionale, ma il commissario non amava molto parlare al telefono; il suo intuito di sbirro, tuttavia, gli suggerì che quel contatto poteva tornargli utile per le sue indagini, in quel frangente in cui stavano appena decollando.

-        «Questo pomeriggio ho programmato un sopralluogo al Quadrivio. Alle 15:00 sarò là!»

-        «Ci sarò anch’io!» – rispose l’avvocato Levi.

-        «A dopo, allora!»

-        «Certamente. Alle 15:00 al Quadrivio!»

A quanto pare neanche l’avvocato Levi amava dilungarsi al telefono, pensò il commissario mentre lasciava la Questura.

Decise di fermarsi a pranzo da Vincenzo, uno dei ricciai che cucinava gli spaghetti sul tratto cagliaritano del lungomare Poetto. Nei due giorni in cui aveva il rientro pomeridiano al lavoro preferiva mangiare fuori; gli altri giorni feriali rientrava spesso a casa e si cucinava qualcosa da sé.

Mangiare nel gazebo dei ricciai, su una tavola rustica, aveva per lui un fascino particolare. Da Vincenzo c’ era andato di frequente anche con sua moglie che per gli spaghetti ai ricci di mare aveva una vera passione. Il vermentino era ben fresco e Vincenzo sapeva che lui amava piatti di ceramica e posate in metallo. E il vino fresco nel bicchiere di vetro.

continua...

domenica 26 novembre 2023

Delitto al Quadrivio - 13



Capitolo Sesto

Il lunedì successivo all’omicidio l’Opinione riprendeva e rilanciava la notizia a tutta pagina. Il titolo annunciava che i segni dello strangolamento erano compatibili con l’utilizzo di un cappio o di una cordicella. Ma il titolo, come al solito, non rispecchiava il contenuto del pezzo.

Il commissario De Candia apprese infatti, mentre tentava di sorseggiare il suo cappuccino bollente nel solito Bar da Tonio, che in seguito all’autopsia era stato asseverato che nei polmoni della vittima non erano state rinvenute tracce di iodio. Indi per cui l’omicidio non era stato commesso nel luogo di ritrovamento del cadavere ma, come evidenziato dall’avvocato Luisa Levi nel ricorso al Tribunale della Libertà, in altro loco. Dal luogo di effettiva consumazione del delitto, continuava il ragionamento del difensore nel ricorso, il cadavere era stato trasportato e abbandonato in un tratto di spiaggia nei pressi dell’ex Ristorante-Pizzeria Il Quadrivio.

La vera notizia era che veniva a cadere tutto l’apparato accusatorio della Procura, che si basava sull’incontro casuale tra vittima e assassino, avvenuto sul lungomare del Poetto e sul diverbio che, scoppiato tra i due, aveva spinto l’assassino all’efferato omicidio.

Anche i tempi del ritrovamento del corpo apparivano incompatibili e contraddetti dalla ricostruzione dell’omicidio fatta dalla Procura. Il ritrovamento del corpo era stato fatto alle 22,30. Ma verso le due del mattino il rigor mortis era quasi terminato e quindi dovevano essere trascorse almeno dieci ore dalla morte. Dove era rimasto in quelle sette ore il corpo della povera vittima? A che ora era giunto sul lungomare e come? Tutte domande ancora senza risposte, era l’incalzante finale dell’articolista, che aveva fatto in fretta a scendere dal carro della Procura e salire su quello della Difesa.

In un’intervista, nelle pagine interne, l’avvocato Levi spiegava che sin da subito aveva ritenuto inverosimile la ricostruzione operata dagli inquirenti.

Infatti, spiegava il legale, la vittima indossava un abito elegante e delle scarpe a tacco alto, senza scialle o giacca al seguito. Nella borsetta non erano state rinvenute né le chiavi di casa, né le chiavi della macchina. Ora, chiosava il legale con logica incalzante, come era possibile che il presunto assassino che, non dimentichiamolo, era stato fermato nell’immediatezza del ritrovamento, proprio mentre si svolgevano le operazioni peritali sul cadavere, non avesse con sé neanche un oggetto della vittima? E come mai nella borsetta vi erano invece il portafoglio, con dei contanti, le carte di credito e altri oggetti di valore? La risposta logica era che il delitto doveva per forza essere stato commesso da un’altra parte e non nel luogo del ritrovamento. Per questi ed altri motivi il Tribunale della Libertà aveva ordinato l’immediata scarcerazione dell’indiziato.

Elegantemente il legale non aveva fatto cenno agli evidenti svarioni dei cosiddetti inquirenti.

L’Opinione, dal suo canto, si limitava a lodare l’avvocato difensore del presunto assassino (mai

come ora valeva per lui la presunzione di innocenza) senza ritornare sull’operato degli inquirenti (che avevano portato all’ingiusto arresto di un innocente) a suo tempo lodati come tempestivi e brillanti.

Al suo arrivo in Questura il Commissario si accinse a riesaminare tutti i fascicoli di omicidio che giacevano sulla sua scrivania (morti ingiuste, anch’esse, ma che meno risalto avevano trovato nella cronaca), ormai comunque ampiamente istruiti: il transessuale ucciso a Giorgino; il corpo dagli arti mancanti restituito dal mare; i due pastori uccisi nelle campagne di Dolianova; la farmacista uccisa in casa; la prostituta accoltellata in viale Po e il matricida tossicodipendente. Erano soltanto alcuni “dei casi di omicidio che avrebbero costituito oggetto di esame della riunione settimanale del suo team che comprendeva, oltre a lui, il sovrintendente Farci e l’ispettore Zuddas.

In previsione del periodico incontro, voleva capire quali altri atti essi necessitassero e stava

studiandoci sopra quando proprio Zuddas irruppe nel suo ufficio, dopo una bussatina veloce che soltanto i suoi più stretti collaboratori, nelle occasioni informali, potevano permettersi. L’ispettore Zuddas aveva in mano un foglio con tutta l’aria di un fax fresco di ricezione.«Notizia bomba, commissario!» esclamò l’ispettore brandendo proprio il foglio di carta lucida.
«Di che si tratta, Zuddas?», disse il commissario senza scomporsi, sollevando appena lo sguardo dalle sue carte – “Accomodati pure!”
«La Procura Generale ha inviato la delega per le indagini del delitto del Quadrivio!», disse Zuddas di un fiato, sedendosi di fronte al commissario e porgendogli il foglio appena faxato dalla Procura.

Il commissario diede uno sguardo al foglio e poi si accese una sigaretta offrendo il pacchetto al suo sottoposto.«Non mi tenti, commissario! Oggi è il mio trentesimo giorno di astinenza!»«Ah già, è vero! Scusami Zuddas, mi ero scordato che hai deciso di smettere…»
«Per ora, commissario!» – disse Zuddas che, per scaramanzia e per orgoglio (nel caso avesse ripreso a fumare controvoglia) non aveva fatto dichiarazioni eclatanti e ancor meno trionfanti sulla dismissione dell’odiato, ma anche amato, vizio del fumo.
«Hai capito il grande capo?» – disse il commissario riprendendosi il pacchetto con la mano libera- “Quando ci sono interviste e televisioni per millantare risoluzioni fantasiose è sempre in prima linea! Quando invece ci sono da consumare il fondo dei pantaloni e le suole delle scarpe, avanti Savoia!»
“Arma capere, alios pro mittere ad bellum!” – interpose Zuddas, il quale aveva tutto un repertorio di massime latine, retaggio dei suoi passati studi classici, che citava regolarmente e non sempre a proposito!
«Eh va beh!» – disse il commissario, levandosi in piedi, con un sospiro di rassegnazione, «era destino che la nostra riunione settimanale ladovessimo fare su sette fascicoli e non su sei!»
«Ma questo mi sa che li vale tutti insieme o sbaglio?»
«Beh, a sentir certi giornali…!»

Così dicendo il commissario De Candia si avviò verso l’uscita.«Se mi cercano sono a Palazzo dal procuratore!»
«Comandi, commissario!», rispose Zuddas con cortesia.
«Non torno in ufficio. Se hai urgenza, chiamami al cellulare».
«D’accordo commissario. La chiamo solo se è necessario, dato che io resto qui sino a fine turno!»
«Ah, fammi il favore! Dai uno sguardo a quei sei fascicoli e poi sistemali in un faldone per la riunione settimanale!»
«Ci conti commissario!»
«Grazie Zuddas! E avvisa anche Farci delle novità, ricordandogli della riunione! E per domani giusto!?»
«Giustissimo commissario! Proprio domani!»«A presto allora! Domani ti faccio sapere del mio incontro di oggi in Procura!» – aggiunse De Candia infine lasciando l’ufficio.
«A domani commissario! E cave canem!»

continua…

giovedì 16 novembre 2023

Delitto al Quadrivio - 9

 

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-        «No, avvocato. Se lo avessi fatto non avrei mai chiamato la pula e meno che mai mi sarei trattenuto in zona col mio cane.»

Prima di andare a letto, e dopo avere predisposto al computer il Modulo di Nomina, indispensabile per formalizzare la sua posizione   come difensore di fiducia, l’avvocato Levi aveva fatto una ricerca negli archivi elettronici e sulle banche dati a disposizione del suo studio e della rete, scoprendo che il suo assistito era stato condannato circa quindici anni prima a otto anni di reclusione per rapina a mano armata (ma ne aveva scontato soltanto sei, in ragione della sua ottima condotta) a danni della Biglietteria del Teatro dell’Opera Cagliaritano.

Obiettivo della rapina pareva essere stato l’incasso della Prima della Stagione Operistica.

Il Garau era stato inchiodato dalla testimonianza di una violinista che lo aveva riconosciuto nonostante il suo travisamento. A incastrarlo erano stati in particolare alcuni segni distintivi, confermati poi dall’ impiegata della biglietteria, che la violinista aveva colto con insolita acutezza mentre, al momento dell’irruzione del malvivente, si trovava presso la biglietteria per ritirare due biglietti che aveva prenotato per certi suoi ospiti.

La violinista era stata colpita in particolare dal colore degli occhi del rapinatore, insolitamente diversi tra loro. Uno era castano, l’altro verde “caratteristica che si riscontra nella popolazione sarda con una percentuale inferiore a uno su mille”, aveva chiosato il Pubblico Ministero nella sua requisitoria al processo che aveva appassionato l’opinione pubblica. La malformazione del mignolo della mano sinistra e un tatuaggio sul polso della stessa mano, che si erano evidenziati nel momento in cui il rapinatore aveva allungato la mano per prendere i soldi che la bigliettaia, con mano tremante, gli porgeva,  avevano portato alla sua definitiva identificazione.

In carcere Gino Garau aveva studiato e si era laureato in psicologia. Da molti anni lavorava come assistente nella Comunità “El Ziggurat”, un centro sociale che si occupava del recupero di tossicodipendenti, alcolisti ed ex carcerati.  Il fondatore Don Costantino Sanna, sacerdote e anche lui psicoterapeuta, era convinto che chiunque potesse essere restituito alla vita, anche se non tutti erano disposti a farsi recuperare.

Gino Garau era la dimostrazione lampante di come gli ideali di un prete sognatore potessero realizzarsi.

Dopo avere sottoscritto la sua nomina, trasformandola da difensore d’ufficio a difensore di fiducia, Gino Garau raccontò all’avvocato Levi la sua versione dei fatti.

La sera prima si era recato al Poetto per la solita passeggiata notturna col suo cane, un pastore tedesco di nome Tex.

 A un certo punto si erano imbattuti in un cadavere, in un tratto di spiaggia a ridosso del vecchio Quadrivio, che lei sicuramente conosceva. Aveva pensato che fosse il suo dovere chiamare il 112.

In seguito la sfortuna aveva voluto che ad accorrere per il sopralluogo fosse un certo maresciallo Camboni, lo stesso che una quindicina d’ anni prima, quando era ancora brigadiere, lo aveva arrestato per una vecchia storia, per la quale aveva già saldato il conto alla giustizia.

Lo stesso Camboni, riconosciutolo tra la folla di curiosi, lo aveva poi sottoposto a fermo, tramutatosi poi in arresto per volontà del procuratore della repubblica.

-        «Lei mi conferma quello che io ho già intuito. La ricostruzione fatta dalla Procura e dai Carabinieri non mi ha convinto molto sin dal primo momento e dopo aver parlato con lei mi convince anche meno!»

-        «La ringrazio avvocato. Comunque anche la ricostruzione fatta dal quotidiano ‘L’Opinione’ è alquanto fantasiosa.»

-        «Di quella non faccia alcun conto. Nel dibattimento, semmai ci arrivassimo, perché io conto di smontare anche prima questo castello di sabbia che hanno messo in piedi, gli articoli dell’Opinione contano quanto il due di picche, quando la briscola è a denari!»

Gino Garau si fece scappare un mezzo sorriso. Nessuno si aspettava che una donna conoscesse la briscola.

-         «Dov’è il suo cane adesso?» – gli chiese l’avvocato restando seria.

-        «Ho pregato i Carabinieri che lo portassero a Settimo San Pietro, nella Comunità ‘El Ziguratt’che lo affidassero a don Costantino. Io lavoro e vivo là da quando ho lasciato il carcere, l’altra volta».

L’avvocato notò una nota particolarmente dolente nella voce di Gino Garau.

    «Contatti don Costantino appena possibile e si assicuri per favore che il mio Tex sia con lui. E lo rassicuri anche sulla mia buona fede e sulla mia innocenza. Lui e il mio cane sono tutto ciò mi rimane.

 In particolare don Costantino mi ha restituito la dignità, un lavoro e la voglia di vivere in un momento in cui ero davvero solo, senza più genitori, né affetti e senza più amici.»

-        «Non dubiti. Questo pomeriggio stesso, dopo che avrò finito i miei incombenti in Procura, mi recherò da lui. Ci rivedremo presto per l’interrogatorio di garanzia. Le suggerisco sin d’ora di avvalersi della facoltà di non rispondere, almeno sino a quando non si sarà svolta l’autopsia. Poi ne riparleremo e studieremo insieme la migliore strategia».

 

fine capitolo terzo. continua... 

 

 

venerdì 20 ottobre 2023

Delitto al Quadrivio - 8

 


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Capitolo Terzo

 

Dopo avere recuperato un po’ del sonno perduto, una doccia refrigerante e una buona colazione l’avvocato Luisa Levi, vestita come si conviene a chi si accinga a simili visite, si trovava in viaggio sulla strada statale 130, diretta al nuovo Carcere Circondariale di Uta.

Anche se il  personale della Polizia Penitenziaria, che era lo stesso del vecchio carcere di Buon Cammino, ormai dismesso, la conosceva bene, dovette assoggettarsi  alla consueta routine cui erano sottoposti gli avvocati (ben più snella e meno estenuante di quella dei parenti): declinazione delle generalità del recluso  da assistere, consegna del badge di ammissione, cellulari e macchine fotografiche nel cassetto con chiave e consueta raccomandazione, ormai superflua, dopo anni di colloqui, di non lasciare penne o altri oggetti appuntiti ai carcerati (la penna, pur non essendo di per sé più pericolosa di tanti altri oggetti,  era però suscettibile di una banale dimenticanza rispetto ad altri oggetti pericolosi e di uso meno comune).

La sua attesa fu breve. Anche il suo cliente non doveva aver dormito a lungo, nella notte appena trascorsa.

Aveva infatti l’aria stanca di chi ha fatto le ore piccole e non ha avuto modo né di sbarbarsi né di cambiarsi d’abito.

Gino Garau era un uomo sui quarant’anni, di media statura e di complessione olivastra. Aveva ancora una folta e nera capigliatura riccia, dove si cominciava ad intravvedere qualche spruzzatina di grigio. Teneva gli occhi bassi ma dava più l’impressione di un uomo rassegnato piuttosto che di un colpevole.

      «Dottor Garau, mi dica la verità, senza offendersi per la domanda e considerando l’assoluto segreto professionale che mi vincola all’incarico che lei mi ha appena conferito: è stato lei ad uccidere la signora Daniela Georgimirescu?» chiese l'avvocato al suo nuovo assistito.

continua...


sabato 14 ottobre 2023

Delitto al Quadrivio - 7

 


Intanto il suo cappuccino era diventato troppo tiepido per i suoi gusti, quasi freddo.

La bevanda gli lasciò in bocca un sapore sgradevole, e una sensazione di disagio che il commissario provava ogni qualvolta si imbatteva in una storia poco convincente e che neanche il cornetto alla crema, seppure fresco di giornata, era riuscito ad evitare.

Con l’aggiunta di un forte prurito al naso che il commissario cercò inutilmente di scacciare, passandovi sopra un paio dei fazzoletti di carta che il buon Tonio gli aveva messo a disposizione insieme alla colazione.

Più che il cappuccino freddo era il suo istinto di sbirro che gli procurava questo effetto sgradevole.

Con quella sensazione di disagio, dopo aver pagato e salutato il barista, il commissario concluse il tragitto  verso l’edificio  che ospitava gli uffici della Questura. Lo stabile, costruito in anni relativamente recenti, era sito nello spiazzo in cui sfociava quel primo tratto della via Tuveri, ad angolo con la via Carboni Boi e sembrava posto come a retroguardia del Palazzo di Giustizia.

Proprio lì, dietro le porte e le finestre dell’imponente ed elegante edificio, il cui nucleo originario risaliva ai primi anni trenta del secolo precedente,  ogni giorno si celebravano numerosi processi, civili e penali,   con la consueta, italica improvvisazione, un misto di approssimazione e genialità, con qualche rara perla di saggezza giuridica, negli strenui e troppo spesso vani tentativi di rimediare alle tante, troppe ingiustizie che anche in quell’angolo di mondo, dilaniato da faide fratricide, vendette oscure,  eredità contese,  liti piccole e grandi,  drammi personali vivi e palpitanti,  incomprensioni e rivendicazioni di ogni tipo, cercavano ristoro nella gestione della fallace giustizia degli uomini.

In attesa, per chi ci credeva, che quella divina rimediasse ai torti e ai danni da questa inflitti e perpetrati.

fine cap. 2

continua....

 

 

 

 

sabato 7 ottobre 2023

Delitto al Quadrivio - 6

 


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La vittima era una violinista rumena, appena in pensione, che aveva suonato nell’orchestra del Teatro dell’Opera di Cagliari.

Era giunta in Italia nella seconda metà degli anni settanta e come altri musicisti rumeni di notevole spessore artistico, era stata inserita nella sezione degli archi dell’importante filarmonica cittadina.

Era conosciuta e stimata in città anche come insegnante privata di violino.

Le efficienti unità del Nucleo Radio Mobile di Cagliari, coordinate dal procuratore aggiunto dott. Bartolomeo Gessa, avevano chiuso le indagini a tempo di record, risolvendo brillantemente il caso, assicurando alla giustizia l’assassino.

Si trattava di una vecchia conoscenza della procura, condannato per rapina a mano armata alla fine degli anni ottanta. La rapida soluzione del caso, oltre che alle grandi abilità investigative del procuratore aggiunto, era merito della prodigiosa memoria fotografica  del maresciallo Camboni  del Nucleo Radio Mobile che, intervenuto sul luogo del delitto,  aveva riconosciuto, mentre fingeva di passeggiare in spiaggia col suo cane, una sua vecchia conoscenza, un  pregiudicato da lui assicurato alla giustizia molti anni prima,  quando  era stato condannato per rapina proprio grazie alla testimonianza della vittima. Il neo omicida era stato smascherato proprio dalla povera violinista, in occasione della rapina che aveva commesso ai danni del botteghino del Teatro dell’Opera. Ed ora, dopo essere stato scarcerato per buona condotta, dopo un periodo di riabilitazione, aveva potuto consumare finalmente la sua vendetta.

Tra le righe, anche se non c’era scritto, il commissario lesse la critica dell’articolista alla giustizia riabilitativa, troppo tenera con certi delinquenti, irrimediabilmente votati a delinquere. E ancora una volta, a pagare, era stata una vittima inerme e incolpevole. 

Il popolo delle torri - 3

 




Le capanne occupate dai sacerdoti si estendevano tutt’attorno al pozzo sacro, come per proteggere il regno degli dei delle acque. Lì era stato sistemato il fido amico Elki. Chissà come aveva trascorso la notte, l’uomo che gli aveva salvato la vita. Sua moglie era certo che quel gesto di protezione era stato premeditato dal grande sacerdote. Non aveva saputo o voluto predisporre alcun’altra difesa contro quel parricidio annunciato; per paura che allertando le guardie coinvolte nel complotto, i traditori potessero essere messi sul chi vive e magari decidere una modalità più complessa per il loro sanguinario piano. Elki aveva valutato e voluto il vantaggio della sorpresa che i suoi dei gli avevano offerto; e l’aveva sfruttato, a rischio però della sua stessa vita. In cuor suo fu grato all’amico e al sacerdote che aveva rischiato la sua vita per lui. «Gli dei danno e gli dei prendono», pensò ancora. Per un uomo che lo voleva morto, c’e n’era stato un altro che lo aveva salvato dalla morte. Solo che il primo era suo figlio! Quel pensiero sembrò afferrargli il cuore e strizzarlo sino ad espungervi tutto il sangue, in uno stillicidio infinito. Sarebbe mai guarito da quell’afflizione?

Ma adesso occorreva reagire! E subito!

Ci sarebbe stato tempo per piangere, dopo!

Adesso doveva stanare tutti i traditori che si celavano nel villaggio.Damasu non poteva aver agito da solo. Non era un pazzo. Gli venne in mente che in quel terribile istante, in cui lui lo aveva colto, subito dopo il gesto omicida, per una frazione di secondo suo figlio aveva indugiato con lo sguardo rivolto alla folla, come se si aspettasse un aiuto concreto, un sostegno, un intervento in suo favore. A chi aveva rivolto suo figlio Damasu quello sguardo che cercava soccorso? Evidentemente egli sapeva che in mezzo alla folla c’erano delle persone che stavano dalla sua parte; ma queste persone chi erano? E perché non erano intervenute in aiuto di Damasu?

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venerdì 6 ottobre 2023

Delitto al Quadrivio - 5

 


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Capitolo Secondo

Come ogni mattina, anche quel lunedì, il commissario Santiago De Candia, lungo il percorso che da casa sua, in via Monteverdi, lo conduceva alla Questura, fece una breve sosta all’edicola di Largo Gennari.

Checco gli allungò subito i due soliti quotidiani, piegati in quattro: La Stampa e L’Opinione.

Checco, come tanti cagliaritani, chiamava il quotidiano cittadino “l’Opignone”; il commissario, nonostante fosse nato in Sardegna, non aveva ancora  capito se si trattasse di un difetto  di pronuncia oppure di un vezzo.

La seconda sosta, più lunga, era quella al Bar di Tonio, il Caffè Intilimani, come recitava l’insegna, unendo in una sola locuzione il nome composto di un famoso gruppo musicale cileno degli anni ’70 da cui, verosimilmente, il fondatore del locale aveva preso ispirazione.

Seduto al suo solito tavolino, in fondo al locale, mentre provava a sorseggiare il suo cappuccino bollente e senza schiuma, aveva aperto l’Opinione. A prescindere dal nome, il quotidiano regionale si faceva apprezzare soltanto per la sua cronaca (per le opinioni, quelle vere, lui preferiva la Stampa di Torino, sulla quale si era orientato dopo tanti anni passati a formarsi sulla Repubblica).

A tutta pagina vi era la notizia dell’omicidio del Quadrivio. Santiago De Candia si immerse nella lettura del lungo articolo, dimenticando per un po’ il suo cappuccino.

continua...

giovedì 5 ottobre 2023

Delitto al quadrivio - 4

 


«Buongiorno avvocato» – disse il maresciallo Camboni stringendole la mano, dopo le presentazioni di rito.

La borsetta era stata posta sotto sequestro e il sospettato era già in viaggio per il carcere di Uta, per disposizione del procuratore aggiunto Gessa!

Il dottor Gessa, intanto, finita l’intervista, si stava avvicinando al quartetto.

Salutò con un largo sorriso, stringendo la mano all’avvocato e al medico legale. I due militari erano subito scattati sugli attenti, portando la mano destra alla visiera del loro cappello in segno di ossequioso saluto.

-        «Quando pensa ci sarà l’interrogatorio di garanzia?» chiese l’avvocato dopo i convenevoli.

-        «In settimana. Il giorno esatto dipenderà dagli impegni del Giudice per le Indagini Preliminari. Venga a trovarmi a Palazzo, così le faccio notificare anche l’incidente probatorio! Ce la fa per mercoledì ad eseguire l’autopsia, professore?»

 

 

 

 

 

 

 

 

– aggiunse di seguito il magistrato rivolgendosi al medico legale.

-        «Ce la faccio», rispose Monsalvo, sempre con quel suo tono asciutto.

-        «Allora ci vediamo domani alle nove!» disse il procuratore aggiunto rivolto ad entrambi.

-        «Alle nove io penso di essere ancora a Uta per conferire con il mio cliente» – interpose l’avvocato.

-        «Ah! Certo!» – fece il dott. Gessa – «Facciamo a mezzogiorno allora?»

-        «A domani a mezzogiorno!» – confermarono sia il medico, sia l’avvocato.

-        «Buonanotte allora!» – salutò il procuratore generale andando via, seguito dai due sottufficiali di polizia giudiziaria.

Anche l’avvocato Levi e il prof. Monsalvo si salutarono, aggiornandosi all’indomani mattina.

Recuperata la sua auto, l’avvocato si avviò verso casa. Aveva giusto bisogno di riposarsi e raccogliere un po’ le idee.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli serviva la versione del suo cliente, prima ancora di quella degli inquirenti, che comunque avrebbe appreso dai verbali.

I suoi pensieri si sarebbero schiariti al mattino, come le tenebre che ancora avvolgevano la città silenziosa si sarebbero schiarite al levarsi del sole.

 

 

 

 

 

 

 

sabato 30 settembre 2023

Il popolo delle Torri - 2




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Intanto, in preda a queste riflessioni, era giunto in vista al recinto dove Rumisu si apprestava a liberare  le sue greggi per condurle al pascolo. Lo vide, prima anche che sentirlo, raggruppare gli animali, con quei movimenti e quei richiami che un pastore ripete con la solennità che gli proviene dall’innato costume a dominare le greggi, ma senza violenza o malanimo, quasi con amore, come se animali e uomini fossero una sola entità, sacra e da rispettare. Al contrario del fratello,  Rumisu si era da subito dedicato alla cura delle greggi, con tutta l’anima e con tutto se stesso. Avevano sposato due sorelle e sua moglie gli  aveva già dato due figli, un maschio e una femmina.

«Bentornato, padre!» esclamò quando fu a portata di voce.

No, Rumisu non c’entrava per niente in quella brutta storia. Era rimasto sorpreso anche lui per il gesto del fratello. Gli aveva letto ancora  l’incredulità e la sorpresa nel viso, quando Damasu era fuggito via, e lui finalmente, passato quel drammatico istante, si era reso conto di tutto e si era guardato attorno, per vedere se il pericolo fosse cessato con la fuga del suo mancato assassino.

«Grazie figlio mio. Mi aiuti a scegliere due caprette da immolare agli dei delle acque per richiedere  la guarigione di Elki? Sceglile tra le mie, naturalmente.»

«Se permettete, padre, vorrei sceglierne due delle mie. Voglio offrirle io in sacrificio.»

«Sì, certo! Agli dei piaceranno doppiamente!» assentì con intimo giubilo Itzoccar. «Mandamele con uno dei servi alla residenza dei sacerdoti, giù al pozzo sacro! »

«Sarà fatto!»

«Vienimi a trovare coi tuoi figli quando sarai rientrato dai pascoli!»

«Va bene» rispose Rumisu salutando il padre, che subito si avviò in direzione del pozzo sacro.

continua...


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giovedì 10 agosto 2023

Il popolo delle torri - 1

 


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I Thirsenoisin

Romanzo d’amore e di guerra

di ignazio salvatore basile

Capitolo 1

 

«Tu devi sposare Arca Salmàn. Sei stata promessa a lui e lo sposerai!»

Il capo tribù Itzoccar voltò le spalle a sua figlia Aristea e si dedicò alla vestizione, aiutato da sua moglie Irisha. In giornata doveva dirimere delle controversie di ultima istanza e non aveva tempo da perdere. E poi, i suoi ordini non si discutevano. Nessuno osava metterli in discussione. Discutere un ordine di Itzoccar poteva costare la vita. Tutti lo sapevano. Era su questo che si reggeva, a memoria d’uomo, il regno di Kolossoi. Come osava sua figlia, poco più di una bambina, discutere una decisione già presa da lui?

Aristea queste cose le sapeva; dalla mamma aveva ereditato il candore e la bellezza ma anche l’intelligenza istintiva che le consentiva quasi di presagire, con fatalismo tutto femminile, quello che sarebbe accaduto e come doveva comportarsi.  Ma sapeva anche che  il suo cuore ribelle e il suo temperamento volitivo (in questo ne aveva preso da suo padre),  l’avevano spinta a chiedere udienza e a tentare di far prevalere,  sulla ragione di stato, le sue aspirazioni, i suoi sogni.

 Aveva appreso da tempo di essere stata promessa in sposa, già sette anni prima, al figlio del capo della tribù di Gisserri,  da sempre loro alleata. All’inizio, nel suo animo di bambina neppure decenne, quella notizia aveva avuto il sapore di un racconto fantastico, simile a quelle storie raccontate da sua nonna nelle notti d’inverno, sulle fate tessitrici, le caprette parlanti e le caverne piene d’oro e di tesori. Ma adesso, da donna, il suo cuore le aveva imposto di gridare la sua voglia di libertà, il suo diritto a sognare. Già da qualche tempo aveva preso a fantasticare sulle città che si stendevano sul mare, oltre gli ultimi villaggi nuragici. Era lì che volava la sua fantasia, era lì che voleva recarsi; era lì che voleva incontrare un uomo che la conducesse in mare, sulla sua nave grande, a visitare nuove città e nuovi mondi. Lei non voleva rinchiudersi in un villaggio, magari un po’ più grande del suo, come era Gisserri; ma pur sempre un villaggio.  Per ora non aveva potuto fare di più che scappare, piangendo, quando suo padre le aveva voltato le spalle in quel modo altero, freddo e indifferente.

«Lo odio, lo odio, lo odio!!!» aveva gridato singhiozzando, battendo il pugno sul letto, dove si era buttata disperata. L’impotenza che sentiva pervadere il suo animo, aumentava di più la sua rabbia e il suo dolore.

Suo fratello le si avvicinò e cercò di consolarla, accarezzandole i lunghi capelli castani.

«Coraggio, piccola! C’è un rimedio a tutto! Fatti coraggio!»

Aristea, sul momento, non si chiese come mai il suo fratello maggiore fosse accorso così prontamente. Certamente lui le voleva bene, era la sua sorella minore e aveva avuto sempre nei suoi confronti un senso di protezione. Ma era pur sempre l’erede al trono; e ci teneva a succedere al padre; di questo lui non aveva fatto mai mistero.  Li separavano dieci anni di età; lui, il primogenito, erede al trono, lei l’ultimo frutto dell’amore duraturo tra i suoi genitori; anche se degli altri figli nati in mezzo, solo Rumisu, il terzogenito, era sopravvissuto; tutti gli altri figli, chi per una ragione, chi per l’altra, erano morti nei primi anni di vita.

«Aiutami, Damasu! Io non voglio sposare Salmàn! Io voglio un altro uomo, scelto da me e non da mio padre!» disse abbracciandolo. Forse per lei c’era ancora una speranza di salvare i suoi sogni.

Damasu ordinò alla serva di andare a preparare un infuso caldo per calmare sua sorella.

«Lo so! So tutto, io!» la rincuorò Damasu, battendole la mano sulle spalle in modo affettuoso. «Ne parlerò con il saggio Mandis. Nessuno conosce le nostre leggi più di lui e mi saprà consigliare.»

«Perché? Perché veniamo obbligate a sposare un uomo che non amiamo?» gli chiese staccandosi da lui e fissandolo negli occhi.

«Sono le antiche leggi del nostro popolo. Ma vedrai che Mandis saprà trovare una via d’uscita» rispose in maniera sibillina Damasu accommiatandosi dalla sorella. E questo bastò per alleviarle momentaneamente il cuore che sentiva oscuro e pesante nel suo petto.

...continua...