lunedì 22 settembre 2025

Delitto al quadrivio

 

 


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Capitolo Terzo

 

Dopo avere recuperato un po’ del sonno perduto, una doccia refrigerante e una buona colazione l’avvocato Luisa Levi, vestita come si conviene a chi si accinga a simili visite, si trovava in viaggio sulla strada statale 130, diretta al nuovo Carcere Circondariale di Uta.

Anche se il  personale della Polizia Penitenziaria, che era lo stesso del vecchio carcere di Buon Cammino, ormai dismesso, la conosceva bene, dovette assoggettarsi  alla consueta routine cui erano sottoposti gli avvocati (ben più snella e meno estenuante di quella dei parenti): declinazione delle generalità del recluso  da assistere, consegna del badge di ammissione, cellulari e macchine fotografiche nel cassetto con chiave e consueta raccomandazione, ormai superflua, dopo anni di colloqui, di non lasciare penne o altri oggetti appuntiti ai carcerati (la penna, pur non essendo di per sé più pericolosa di tanti altri oggetti,  era però suscettibile di una banale dimenticanza rispetto ad altri oggetti pericolosi e di uso meno comune).

 

 

 

 

 

 

 

La sua attesa fu breve. Anche il suo cliente non doveva aver dormito a lungo, nella notte appena trascorsa.

Aveva infatti l’aria stanca di chi ha fatto le ore piccole e non ha avuto modo né di sbarbarsi né di cambiarsi d’abito.

Gino Garau era un uomo sui quarant’anni, di media statua e di complessione olivastra. Aveva ancora una folta e nera capigliatura riccia, dove si cominciava ad intravvedere  qualche spruzzatina di grigio. Teneva gli occhi bassi ma dava più l’impressione di un uomo rassegnato piuttosto che di un colpevole.

Prima di andare a letto, e dopo avere predisposto al computer il Modulo di Nomina, indispensabile per formalizzare la sua posizione di avvocato difensore di fiducia, l’avvocato Levi aveva fatto una ricerca negli archivi elettronici e sulle banche date a disposizione del suo studio e della rete, scoprendo che il suo assistito era stato condannato circa quindici anni prima a otto anni di reclusione per rapina a mano armata (ma ne aveva scontato soltanto sei , in ragione della sua ottima condotta) a danni della Biglietteria del Teatro dell’Opera Cagliaritano.

Obiettivo della rapina pareva essere stato l’incasso della Prima della Stagione Operistica.

 

 

 

 

 

 

Il Garau era stato inchiodato dalla testimonianza di una violinista che lo aveva riconosciuto nonostante il suo travisamento. A incastrarlo erano stati in particolare alcuni segni distintivi, confermati poi dall’ impiegata della  biglietteria, che la violinista aveva colto con insolita acutezza mentre, al momento dell’irruzione del malvivente, si trovava presso la biglietteria per ritirare due biglietti che aveva prenotato per certi suoi ospiti.

La violinista era stata colpita in particolare dal colore degli occhi del rapinatore, insolitamente diversi tra loro; uno  castano, l’altro verde, la malformazione del mignolo della mano sinistra e un tatuaggio sul polso della stessa mano, che si era evidenziato nel momento in cui il rapinatore aveva allungato la mano per prendere i soldi che la bigliettaia, con mano tremante, gli porgeva. In carcere Gino Garau aveva studiato e si era laureato in psicologia. Da molti anni lavorava come assistente nella Comunità “El Ziggurat”, un centro sociale che si occupava del recupero di tossicodipendenti, alcolisti ed ex carcerati. 

Il fondatore Don Costantino  Sanna, sacerdote e psicologo, era convinto che chiunque potesse essere restituito alla vita, anche se non tutti erano disposti a farsi recuperare.

 

 

 

 

 

 

Gino Garau era la dimostrazione lampante di come gli ideali di un prete sognatore potessero realizzarsi.

Dopo avere sottoscritto la sua nomina, trasformandola da difensore d’ufficio a difensore di fiducia, Gino Garau raccontò all’avvocato Levi la sua versione dei fatti. La sera prima si era recato al Poetto per la solita passeggiata notturna col suo cane, un pastore tedesco di nome Tex; a un certo punto si erano imbattuti in un cadavere, in un tratto di spiaggia a ridosso del vecchio Quadrivio, che lei sicuramente conosceva; aveva pensato che fosse il suo dovere chiamare il 112.

In seguito la sfortuna aveva voluto che ad accorrere per il sopralluogo fosse un certo maresciallo Camboni, lo stesso che una quindicina d’ anni prima, quando era ancora brigadiere, lo aveva arrestato per una vecchia storia, per la quale aveva già saldato il conto alla giustizia.

Lo stesso Camboni, riconosciutolo tra la folla di curiosi, lo aveva poi sottoposto a fermo, tramutatosi poi in arresto per volontà del procuratore della repubblica.

-        «Dottor Garau, mi dica la verità, senza offendersi per la domanda e considerando l’assoluto segreto professionale che mi vincola all’incarico che lei mi

 

 

 

 

 

 

 

-         ha appena conferito: è stato lei ad uccidere la signora Daniela Georgimirescu?»

-        « No, avvocato. Se lo avessi fatto non avrei mai chiamato la pula e meno che mai mi sarei trattenuto  in zona col mio cane.»

-        « Lei mi conferma quello che io ho già intuito. La ricostruzione fatta dalla Procura e dai Carabinieri non mi ha convinto molto sin dal primo momento e dopo aver parlato con lei mi convince anche meno!»

-        « La ringrazio avvocato. Comunque anche la ricostruzione fatta dal quotidiano ‘L’Opinione’ è alquanto fantasiosa.»

-        « Di quella non faccia alcun conto. Nel dibattimento, semmai ci arrivassimo, perché io conto di smontare anche prima questo castello di sabbia che hanno messo in piedi, gli articoli dell’Opinione contano quanto il due di picche, quando la briscola è a denari!»

Gino Garau si fece scappare un mezzo sorriso. Nessuno si aspettava che una donna conoscesse la briscola.

-         «Dov’è il suo cane adesso?» – gli chiese l’avvocato restando seria.

-        « Ho pregato i Carabinieri che lo portassero a Settimo San Pietro, nella Comunità ‘El Ziguratt’ e che lo affidassero a don Costantino. Io lavoro e vivo là da quando ho lasciato il carcere, l’altra volta».

L’avvocato notò una nota particolarmente dolente nella voce di Gino Garau.

 

 

 

 

 

 

 

-        «Contatti don Costantino appena possibile e si assicuri per favore che il mio Tex sia con lui. E lo rassicuri anche sulla mia buona fede e sulla mia innocenza. Lui e il mio cane sono tutto ciò mi rimane. In particolare don Costantino mi ha restituito la dignità, un lavoro e la voglia di vivere in un momento in cui ero davvero solo, senza più genitori, né affetti e senza più amici.»

-        «Non dubiti. Questo pomeriggio stesso, dopo che avrò finito i miei incombenti in Procura, mi recherò da lui. Ci rivedremo presto per l’interrogatorio di garanzia. Le suggerisco sin d’ora di avvalersi della facoltà di non rispondere, almeno sino a quando non si sarà svolta l’autopsia. Poi ne riparleremo e studieremo insieme la migliore strategia».

domenica 21 settembre 2025

Storia vera di un eroe garibaldino

 


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Capitolo Quarto

 

Luigia Stranio era la primogenita delle tre figlie che erano nate dal matrimonio di Sebastiano e Margherita Doria.

 

Forse non era la più bella ma sicuramente era la più intelligente, la più estroversa e la più pudica e osservante delle tre.

 

Ma non furono certo queste tre doti, che pur acquistarono un peso determinante in un secondo momento, a colpire di primo acchito Gaspare Nicolosi.

 

Il focoso e passionale siciliano, almeno inizialmente, era rimasto incantato dalla voce della ragazza, che aveva sentito cantare divinamente ad un ricevimento per i neo-promossi ufficiali del Regno, oltre che dalle sue forme rotonde e generose, che gli ricordavano tanto le donne della sua amata isola, pur nel contraltare del suo incarnato pallido e dei capelli biondi, che aggiungevano al suo fascino quel tocco di esostico nordismo a cui Gaspare Nicolosi, come qualsiasi altro siciliano, non seppe resistere.

 

Il resto lo fecero certamente quelle doti e complessivamente la personalità della più matura delle sorelle Stranio.

 

L’intelligenza di Luigia la portava ad ascoltare più che a chiacchierare; ed a Gaspare Nicolosi non dispiaceva affatto essere ascoltato, dato che essendo nato in una famiglia  numerosa, per di più cresciuta senza padre, tempo di ascoltarlo in casa sua non ce n’era mai stato abbastanza; la sua estroversione, d’altro canto, compensava il  carattere fondamentalmente introverso di Gaspare Nicolosi; e in quanto alla ferrea osservanza cattolica, che per Luigia Stranio non era un fatto di costume ma di autentica vocazione interiore, per Gaspare Nicolosi costituiva una sorta di recupero di quei valori che la sua prima educazione e soprattutto sua madre, gli avevano inculcato sin da piccolo, ma che lui, abbandonando la famiglia per seguire Garibaldi, aveva voluto deliberatamente e apertamente rinnegare.

 

Insomma i due giovani erano i classici opposti che però si attraevano a vicenda.

 

Ma Luigia, in particolare, non avrebbe mai scelto di accettare la corte del valoroso siciliano se le sue doti e le sue caratteristiche personali non le avessero ricordato la personalità di un cugino, Lionello, con il quale lei era cresciuto e che aveva voluto bene come ad un fratello; il quale cugino, unico dei tre figli di un suo zio paterno, aveva abbandonato carriera e agi borghesi, per seguire proprio Giuseppe Garibaldi sin dalle sue prime avventure libertarie e che Luigia, una volta venutogli a mancare, rivide nella personalità altrettanto avventurosa e leale del suo corteggiatore siciliano.

 

Anche se in effetti i due garibaldini non si incontrarono mai sui campi di battaglia e si conobbero soltanto in maniera superficiale quando Lionello aveva ormai i giorni contati.

 

Infatti mentre Gaspare Nicolosi si faceva onore nel modo che abbiamo già narrato, Lionello, nella stessa battaglia di Calatafimi, era stato ferito in modo serio, seppure apparentemente non gravissimo, e quindi insieme ad una trentina di altri feriti gravi aveva preso la via del rientro a casa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

venerdì 19 settembre 2025

Memorie di scuola




Terza Elementare

Anno Scolastico 1962-63



Dopo l’esperienza di Giorgino tornai al mio paese, dove mi aspettava il fiocco giallo della terza elementare.

Le nuove scuole elementari di via Matta non erano state ancora ultimate, per cui il Comune comunicò ai genitori che i propri figli avrebbero continuato a frequentare le scuole elementari nel vecchio Convento dei Cappuccini.

Tornai così nell’antico edificio seicentesco, secolarizzato con la legge del 29 maggio 1855, la prima di una serie di leggi con cui il Regno di Sardegna prima, e il Regno d’Italia poi, acquisirono l’ingente patrimonio ecclesiastico al patrimonio statale, nell’ambito di quel movimento politico ed economico teso a combattere la c.d. “manomorta”, ovvero l’accumulo delle proprietà immobiliari nelle mani degli ordini religiosi.

Il Convento era stato assegnato al Comune nel 1866, con l’obiettivo di adibirlo a scopi di natura pubblica.

Ci avrebbe pensato poi Mussolini, nel 1929, coi Patti Lateranensi, a risarcire la Chiesa per quelle espropriazioni, contribuendo così a costituire il primo nucleo di quella gestione finanziaria che grazie a uomini onesti e capaci come l’ing. Bernardino Nogara e ad ecclesiastici, non meno capaci, ma sicuramente meno onesti, come il cardinale Marcinkus, ha portato il Vaticano, ed il suo braccio finanziario, lo IOR, al vertice delle potenze finanziarie off shore, o paradisi fiscali che chiamar li si voglia, del mondo globalizzato.

Ma a quel tempo certe cose non si sapevano; e se qualcuno le sapeva non veniva certo a dirle a noi.

Insomma queste scuole si trovavano in uno dei quartieri storici del mio paese: su Guventu, che comprendeva, oltre alle strade attorno al vecchio convento dei Cappuccini, anche la via Cimitero, che univa il camposanto e la Piazza Chiesa, attraverso la via Roma.

L’altro quartiere storico era quello che si snodava attorno alle vie Siviller e alla via Baronale costruite attorno al Castello quattrocentesco dei Marchesi di Alagon e di Siviller, antichi feudatari del re Aragonese Martino, fiero avversario della giudicessa Eleonora d’Arborea, poi decaduti in epoca sabauda.

Infine c’era il mio quartiere, relativamente nuovo, ricompreso tra la Piazza del Municipio, la stazione ferroviaria e lo Zuccherificio (che allora produceva alla grande, dando lavoro a un sacco di gente, direttamente e indirettamente, con l’indotto, come si usa dire oggi).

Ognuno di questi quartieri aveva la sua banda di ragazzini. Quella de su Guventu era capeggiata da Mariano, un tipetto dalla fama da duro, che non permetteva ai ragazzini degli altri quartieri di entrare nel suo, senza buscarle di santa ragione.

Ricordo una sfida epica con lui e la sua banda, fatta di lanci di pietre (a mano libera e con la fionda, “su tirallasticu”, che noi stesso realizzavamo con una forcella di legno di fico a “Y”, due strisce di camera d’aria in disuso e una pezzetta di cuoio forata ai lati).

In testa porto ancora il ricordo di quella e di altre sfide: “is staffeddasa”, ovvero dei tagli visibili sulla cute, dovute all’impatto con i sassi taglienti.

A me toccava di stare in prima fila.

L’obbligo mi discendeva dal fatto che io ero stato prescelto come capo-banda. Non tutti, però, erano stati concordi nella scelta del capo; mi ricordo in particolare un caro amico di quei tempi andati: Rodolfo.

Avevamo la stessa età ma lui era più alto e robusto di me; quindi rivendicò per sé, non so dietro a quale altro pretesto, la leadership; mi sfidò apertamente un pomeriggio d’estate, levandosi la maglietta e mostrando la corazza di cuoio che gli copriva tutto il busto e che, a suo dire, lo rendeva invincibile e degno del comando. Più tardi mi confessò che si trattava di un busto ortopedico che gli era stato prescritto per risistemare non so bene quale sporgenza ossea; ma in quel momento credetti soltanto che si trattasse di un escamotage inventato per togliermi il bastone del comando faticosamente conquistato. Alla vista di quella corazza, che Rodolfo scoprì con un urlo di minacciosa sfida, tutti i componenti della banda ammutolirono di colpo; ma quando capirono che non intendevo cedere il comando senza lottare si disposero in cerchio attorno a noi; ci studiammo a lungo, con finte e occhiatacce di sfida.

...continua...

venerdì 5 settembre 2025

Il manuale del perfetto orologiaio

 



Capitolo Sesto

Don Pedro Domingo Mendoza Martinez era un vero e proprio hidalgo, intransigente e irreprensibile. Discendente dei Conquistadores che nel secolo precedente avevano assicurato alla fede cattolica la parte centrale e buona parte di quella meridionale del continente americano, nutriva la stessa cieca convinzione sulla infallibilità della dottrina e della fede cattolica, che aveva spinto i suoi antenati alla conquista di nuove terre oltreoceano, anche se, per uno strano gioco del destino, o forse perché la sete di oro del suo casato era stata già appagata, al contrario dei suoi illustri e avventurosi ascendenti, egli non nascondeva altri retro pensieri, dietro al suo fanatismo religioso, all’infuori della sua patria e del suo re.

Odiava tanto i mestizos ed i conversos, quanto i riformisti e gli eretici di ogni sorta. Per contro amava il suo sovrano e i principii della fede cattolica. Ed era disposto a dare la sua vita pur di difendere la purezza della religione contro chiunque ne avesse messo in discussione l’assoluta preminenza. Per questo aveva accettato di entrare al servizio della Congregazione in difesa della Fede Cattolica. Ed era stato immesso direttamente dal re di Spagna nei ranghi dell’Inquisizione.

Nei primi anni, ancora giovanissimo, era stato istruito sulle tecniche investigative e su quelle dell’interrogatorio, che spesso sfociavano nella tortura, ogniqualvolta l’inquisito si rifiutava di confessare le sue eresie e di pentirsi, promettendo di seguire ciecamente gli insegnamenti di Madre Chiesa.

Poi, col tempo, era stato utilizzato come agente operativo, nei territori dell’immenso impero ispanico, coperto dall’immunità diplomatica ma ancora inquadrato nei ranghi della temibile e potente inquisizione spagnola.

Tenoch Tixtlancruz era il nome cristianizzato dell’impronunciabile appellativo patronimico di un discendente diretto di un guerriero Azteco, sbarcato con Colombo a Cadice, al termine del suo secondo viaggio nelle Indie (o quelle che lui credeva tali ma che poi si rivelarono essere le Americhe).

Attraverso vari incroci con la stirpe iberica, ne era venuto fuori un gigante alto quasi due metri, con il naso schiacciato, le labbra prominenti e una testa enorme che i capelli corvini, tagliati corti, rendevano ancora più grande. Agli orecchi portava due orecchini di foggia azteca e gli occhi grossi e neri cerchiati di sangue suscitavano terrore solo al vederli. Don Pedro lo chiamava semplicemente Tenoch ed era praticamente il suo braccio armato. Era lui che provvedeva, invero assai volentieri, agli esercizi della tortura cui erano sottoposti gli eretici prima di confessare o di morire colpevoli e dannati (la non confessione non era contemplata nel dizionario del truce torturatore). Seppure orami convertito al cattolicesimo, aveva conservato della sua stirpe originaria, e della classe dei guerrieri a cui suo bisnonno si vantò sino alla morte di essere appartenuto, l’animo truculento, lo spirito di abnegazione e di sacrificio per il suo credo, una forza erculea e una fiducia incrollabile nel potere costituito, di natura civile o religioso che esso fosse.

Nella sua mente, il racconto della Creazione del libro della Genesi con cui era iniziata la sua educazione cattolica, sostituiva in maniera impeccabile e perfetta, le avite credenze sulla potenza del sole e delle stelle. Si convinse da subito che quel Dio Onnipotente e Sempiterno era lo stesso Sole che avevano adorato i suoi avi o, quantomeno, un parente assai prossimo, se non proprio il padre, il Creatore, per l’appunto.

Portava con sé, ovunque andasse, un baule di legno dentro il quale custodiva le sue pinze strappa seni (che non disdegnava di utilizzare anche per schiacciare i testicoli dei prigionieri più riottosi), un imbuto di metallo, un otre della capacità di tre litri (con cui somministrava agli eretici l’acqua in dosi, sino al numero di sei) e una serie di funi e carrucole per lo stiramento delle ossa dei poveri malcapitati nella stanza delle torture dell’Inquisizione.

Completava il terzetto ispanico, come già detto, Padre Alonso Ramirez de Barranquilla, un gesuita che aveva in comune con i due compagni di viaggio soltanto la fede nello stesso Dio (anche se a volte lui stesso dubitava che si trattasse davvero del medesimo Dio). Anzi, forse la sua presenza nel trio si giustificava proprio per la sua diversità che, in qualche misura, fungeva da calmiere della passionale intemperanza dei suoi compagni di viaggio.

In effetti lui era con loro per consolare e per confessare i prigionieri; e per convincerli che sarebbe stato inutile resistere e che era meglio pentirsi e riconciliarsi con Dio.

Davanti ad una confessione piena e incondizionata le torture non avevano più senso di esistere e dovevano cessare immediatamente. E lui, con la sua autorevolezza, otteneva che cessassero.

Di fronte al pentimento e al ravvedimento il prigioniero non era più un reietto da punire, una carne da macellare, una potenza demoniaca da dissolvere nei tormenti dell’espiazione; al contrario, il torturato si tramutava, per grazia evangelica, in un figliol prodigo, tornato alla casa del padre a capo chino, desideroso solo di essere riaccolto e perdonato.

E se l’atto di riconciliazione, sancito dall’assoluzione che Padre Ramirez non disdegnava di elargire con ampi gesti della mano e con la formula solenne in latino e che il Servo di Gesù comunicava raggiante ai due torturatori, non esonerava il povero disgraziato dalla punizione umana, il perdono divino, pur tuttavia, lo riabilitava nella sua dignità umana, riscattandolo da quei recessi di ignominia e degrado in cui era precipitato con il peccato, restituendolo al consorzio cristiano, ridandogli lo status di figlio di Dio e come tale, inviolabile nella sua sacralità filiale.

Ed ogni volta che questo accadeva (praticamente sempre, o quasi sempre) il buon gesuita sentiva che le sue sofferenze, il suo disagio, la ripugnanza stessa che quelle torture e quei torturatori procuravano alla sua anima sensibile e pia, trovava un’equa compensazione nel riscatto di quell’anima recuperata alla salvezza eterna.

E poco importava, a quel punto, se gli infelici malcapitati fossero stati, all’origine, innocenti o colpevoli.