https://www.amazon.it/dp/B0BRJR79C7Capitolo
4
Intanto, nel villaggio di
Gisserri, a nord di Kolossoi, alle pendici settentrionali dell’altipiano della
Giara, tre grandi eventi animavano tutto il villaggio: il raduno settennale
delle nove tribù nuragiche federate; il viaggio iniziatico di Salmàn e il rito
propiziatorio della sacerdotessa Gula.
Il consiglio degli
anziani, in realtà, aveva delegato il gran sacerdote, Anù, per organizzare il
rito propiziatorio, atto ad ingraziarsi il favore degli dei delle acque, mentre
aveva preso atto che Salmàn, il figlio del capo tribù, era in età per
l’intrapresa del viaggio che lo avrebbe immesso nella vita adulta.
Trattandosi di un futuro
capo, il consiglio aveva stabilito che Salmàn dovesse stare fuori per almeno
sette giorni, con arco, frecce e coltello; partendo a piedi, sarebbe dovuto
rientrare con tre cavalli: a dorso di uno dei cavalli ci sarebbe dovuto essere
proprio lui, mentre gli altri due cavalli avrebbero dovuto trasportare un cervo
maschio e un cinghiale femmina.
Il Consiglio degli
Anziani si intrattenne assai più lungamente sul raduno federale che sarebbe
iniziato di lì a qualche giorno. Ogni sette anni, da tempo immemore,
all’equinozio di primavera, il villaggio di Gisserri aveva l’onore di ospitare
il raduno delle tribù nuragiche federate.
Com’era costume fu
Hannibaàl, in qualità di capo tribù, a
introdurre e a chiudere i lavori. Tutti i membri presero la parola per
esprimere il loro punto di vista sul tema che Hannibaàl aveva posto all’ordine
del giorno. Il tema era sempre lo stesso da molti anni, al punto che neppure il
più vecchio dei membri del Consiglio, ne ricordava un altro più importante, da
discutere in preparazione alle adunanze federali; era così ormai da molto tempo, da
quando gli Shardana si erano insediati nelle coste dell’isola: prima avevano
fondato Karalis, poi Nora, Cornus, e Solki; poi, via, via, ne erano
sorte altre ancora: se ne contavano ormai ben tredici, dalla più meridionale,
Karalis, alla più settentrionale, Solki, passando per Tarros, Turris, Feronia,
Bithia e Nabui. E piano, piano queste città, composte da provetti navigatori,
forti guerrieri e abili commercianti, cercavano nuovo spazio verso l’interno,
erodendo sempre più terreno all’influenza dei villaggi nuragici e introducendo
le loro merci, la loro cultura e le loro usanze. La presenza dei nuovi venuti,
se non altro, aveva fatto diminuire le guerre tra le tribù nuragiche, che
potevano vantare, da molto tempo, un periodo di relativa pace. Ma la sindrome
dell’accerchiamento eraandato crescendo di pari passo tra le popolazioni
nuragiche.
Il problema che si era
posto sin dall’inizio per i bellicosi e fieri nuragici era dunque quello
dell’atteggiamento corretto da assumere nei confronti dei Shardana.
Da sempre si erano
formati due schieramenti: quelli che volevano la guerra e quelli che invece
invitavano a trovare un modo di vivere insieme; ma possibilmente ognuno a casa
sua, chiosavano anche i consiglieri più mansueti.
La casta dei guerrieri, secondo le storie che
si tramandavano oralmente da padre in figlio, all’inizio aveva prevalso.
C’erano stati numerosi scontri, con alterne fortune. Ma i Shardana avevano
presto lasciato intendere che il loro obiettivo non era quello di conquistare i
territori delle tribù nuragiche, strappando loro la sovranità sul popolo e sulle loro terre; il loro scopo era quello di
convivere pacificamente, commercializzando i loro prodotti, scambiando le loro
merci e incontrandosi pacificamente per fare affari. Gli abili artigiani del bronzo e della
ceramica erano stati in un certo senso
l’ago della bilancia all’interno dei villaggi nuragici; infatti, se da un lato
i guerrieri propugnavano la guerra totale contro i Shardana, sino
all’annientamento finale; e se i sacerdoti, dall’altro, privilegiavano invece il dialogo e la
convivenza pacifica con i popoli del mare, gli artigiani scoprirono presto i
vantaggi di un mercato aperto; i loro prodotti, oltretutto, piacevano molto ai
commercianti delle città stato che, probabilmente, riuscivano a venderli oltre
mare, nei ricchi mercati, da un capo all’atro del mare mediterraneo, verso
l’Africa, verso la Francia e la Spagna, e perfino oltre il vicino oriente, sino
alla Persia e all’India. Tanto più che gli artigiani del bronzo, i maggiori
contribuenti dei tributi versati alla comunità,
avevano scoperto che i
commercianti Shardana gli procuravano, più celermente e in maniera più
vantaggiosa, lo stagno, indispensabile per ottenere con il rame, la materia
prima dei loro manufatti; essi ricavavano il rame in gran copia dalle loro miniere,
insieme al piombo e al ferro.
L’abbondanza nei mercati di stagno, dovuta
all’intraprendenza dei commercianti Shardana, aveva inoltre fatto abbassare i costi
della loro produzione.
Tutti gli altri artigiani
avevano seguito l’esempio degli artigiani del bronzo e si erano schierati per
la pace e per la convivenza coi vicini Shardana.
Pur non avendo un
riconoscimento ufficiale nel Consiglio degli Anziani, gestito in pratica dai
sacerdoti e dai guerrieri, il loro peso era stato decisivo nel mantenere la
pace. Anche quell’anno, Hannibaàl ne aveva sentore, le tribù non avrebbero
dichiarato la guerra, ma gli altri capi tribù, ne era altrettanto certo,
avrebbero deliberato di resistere quanto più possibile a quella penetrazione
culturale e commerciale, limitando al massimo le aperture e difendendo le
antiche tradizioni nuragiche. Nessuno si aspettava che il Consiglio assumesse
posizioni progressiste, essendo piuttosto un organo di governo tradizionalmente
conservatore.
Il gran sacerdote Anù, responsabile anche
degli approvvigionamenti, sovrintendendo una sorta di annona per le scorte di
cibo e di materie prime, che provvedeva ad accumulare in appositi e capaci
depositi, aveva portato in
Consiglio le istanze
degli artigiani e di certi allevatori che gli si erano raccomandati per far sì
che, da un lato si mantenesse la pace, apportatrice di prosperità economica,
dall’altro che si provvedesse comunque a difendere i confini territoriali e le greggi dalle incursioni
(anche se non era certo che quelle incursioni in territorio nuragico le facessero davvero i guerrieri Shardana). La casta dei sacerdoti, inoltre, aveva tutto
da guadagnare, in termini economici, dagli scambi commerciali con i Shardana.
Essa infatti era tributaria delle decime relative all’estrazione, alla
produzione e al commercio dei minerali, anche nella forma redditizia dei
bronzetti votivi. E ciò sulla base del fatto che la casta sacerdotale esplicava
le sue competenze, anche relativamente alla riscossione dei tributi, su tutto
ciò che gli dei avevano posto al di sotto e al di sopra del suolo (metalli,
minerali e acque sorgive e piovane), mentre le decime su tutto il resto della
produzione (soprattutto gli sterminati armenti e le ricche produzioni agricole,
coi loro derivati) venivano incamerate dal re pastore, il capo della tribù
nuragica.
L’intensificarsi degli scambi commerciali tra
i due popoli, aveva finito per far cadere molte delle barriere di ostilità e
diffidenza che all’inizio erano sorte tra di loro, anche se un retaggio di
quella originaria inimicizia, era comunque rimasto a fermentare, sotto la
superficie di quell’apparente concordia; e ciascuno si era aggrappato alle
proprie origini, anche se non erano mancati i matrimoni misti e le
contaminazioni reciproche di usi, costumi e idiomi.
Anù, a dire il vero, i
suoi pensieri più profondi e le sue energie più importanti le riservava da
sempre alle sue funzioni religiose. L’anziano sacerdote capiva bene
l’importanza del ruolo che svolgeva la casta di cui egli era il capo.
Se infatti la casta dei
guerrieri, capeggiata dal capo tribù, dava al popolo la sicurezza di un ordine
ben costituito e di un apparato ben strutturato per la difesa del popoloso
villaggio che sorgeva tutt’attorno alla reggia nuragica, la casta dei sacerdoti
contribuiva a garantire ad ogni singolo
individuo del gruppo il favore che gli astri celesti e gli dei delle acque assicuravano
al popolo nuragico, salvaguardando i raccolti, propiziando le piogge,
assistendo le donne nelle nascite, guidando i vecchi nell’ultimo tratto di
strada, quello che conduceva all’eterno viaggio nell’al di là.
Anù era responsabile
anche della scuola dei futuri sacerdoti.
Aveva una memoria
prodigiosa; ricordava a memoria tutti i
capi tribù che avevano preceduto Hannibaàl e i grandi sacerdoti che lo
avevano preceduto; si trattava di quasi duecento nomi, gli antenati più
illustri; di loro sapeva narrare e ricordava anche le gesta, le battaglie vinte
e quelle perse, i risultati raggiunti, le innovazioni introdotte e le leggi
emanate. Ricordava inoltre gli antenati di ogni stirpe rappresentata nel Gran
Consiglio degli Anziani. Alle cerimonie funebri che celebrava personalmente era
capace di ricordarli tutti, dal primo sino all’ultimo.
Conosceva inoltre le erbe
e i principi curativi che possedevano. Insomma, lo si poteva considerare
un’enciclopedia vivente e parlante. Trasmetteva queste cose ai suoi allievi. Li
studiava tutti, uno per uno. Doveva scegliere il suo successore, come il suo
predecessore aveva fatto con lui. Non era un compito facile. Oltre che una memoria di ferro, occorrevano
altre qualità per divenire grande sacerdote. Lui si affidava anche ai segni del
cielo. Sapeva leggere le stelle e interpretare i segni più diversi: dagli
uccelli in volo, ai fischi del vento, ai sussurri del fiume; ma questi non li
poteva né spiegare, né trasmettere; poteva solo immaginarli in capo ai suoi
discenti, come un dono innato che, tutt’al più, poteva svilupparsi col tempo e
con la pratica.
Portava con sé i suoi allievi a raccogliere le
erbe e in tante occasioni li interrogava, dopo avergliene spiegato le qualità
curative, sul loro utilizzo a fini terapeutici. Coglieva anche altre erbe,
quelle magiche, proibite, dai poteri psicotropi, che potevano mettere in
contatto con le forze sopranaturali, quelle che dominano nell’oltretomba, dove
risiedono gli antenati che le sue sacerdotesse, sotto la sua direzione,
consultavano periodicamente, quando delle decisioni importanti attendevano il
Gran Consiglio e grandi eventi investivano la vita del villaggio. Con quelle erbe occorreva stare attenti: un
giovane poteva facilmente rovinarsi la vita, ingerendole. Davano un delirio di
onnipotenza, se non venivano utilizzate correttamente, e potevano facilmente
condurre alla follia.
Poiché esse erano una
finestra aperta sull’altro mondo, quello dei morti. Qualcuno non era mai
tornato da quei viaggi. Il suo maestro gliele aveva fatte provare e lui stesso
ne era rimasto impressionato. Non gli piacevano quelle erbe; e neanche certi
funghi che ne costituivano un necessario complemento, come mezzo per entrare in
contatto con i giganti dormienti nelle tombe degli avi.
Erano troppo pericolosi e
avevano una proprietà che a lui non piaceva per niente: tendevano a dominare
sull’uomo, a prenderne il sopravvento, proprio per quella sensazione di
onnipotenza che essi trasmettevano. Il suo maestro gli aveva detto che sulle donne
avevano le stesse proprietà psicotrope ma non gli davano quella sensazione di
potere; in un certo senso, quei funghi e quelle erbe, si ritraevano nei
confronti delle donne e ne venivano, a loro volta, dominati. Era uno dei tanti
misteri inspiegabili della Natura e degli dei che la dominavano, gli aveva
detto il suo maestro. E lui non l’aveva mai dimenticato.
La sera prima, l’ultima
di luna piena precedente il grande raduno settennale, quando la sacerdotessa
prescelta si sarebbe dovuta sottoporre al rito dell’incubazione, andò da solo a
cercare il fungo Amanita che cresce in simbiosi con la pianta della Belladonna.
Non tutti i funghi che potevano trovarsi alla base dell’arbusto erbaceo andavano
raccolti per quell’occasione; Anù prediligeva gli Amanita della varietà pantherina,
anche se sapeva bene che certi sciamani conoscevano come trattare le altre
varietà di fungo.
Gula, la sacerdotessa con
cui aveva stabilito di celebrare il rito dei quattro occhi, di quelli che
consentono uno sguardo nell’altro mondo, da cui essa avrebbe dovuto riportare
degli auspici, aveva bisogno di un fungo amanita che fosse stato in simbiosi
con quelle piante e che avesse ricevuto, ma anche trasmesso, particolari
sostanze alle bacche a forma di ciliegia; inoltre i funghi e le bacche andavano
raccolti in una particolare zona dove, come gli aveva spiegato un giorno il suo
maestro, correva una vena acquifera sotterranea con particolari composizioni
favorevoli al processo simbiotico che i due vegetali si scambiavano.
La sacerdotessa prescelta
da Anù avrebbe dovuto stare incubata, forse per tutti i cinque giorni del
raduno e, pertanto, l’effetto psicotropo doveva essere congiunto alle
necessarie linfe di sostentamento, che solo certi funghi e certe bacche
possedevano. Anù li chiamava sos micorizzas (o cerexas malaittas).
Sminuzzati il cappello del fungo e le
radici delle Belladonna, Anù li avrebbe messi a macerare nel vino e nel succo
ricavato dalle bacche della pianta per dodici ore. Dopo una ebollizione lenta e
continua per altre dodici ore il decotto, filtrato e lasciato freddare a
dovere, sarebbe stato pronto per la somministrazione. Oltre agli effetti euforici ed eccitanti, il decotto, produceva anche
certi effetti nutritivi e calmanti. Lui glielo avrebbe somministrato con il massimo dell’attenzione e gradatamente,
durante tutto il tempo dell’incubazione, a intervalli regolari, e
opportunamente trattati.
Avrebbe così potuto
sorvegliarne e monitorarne gli effetti e, se del caso, avrebbe potuto perfino
interrompere il rito. Gula era più di una semplice sacerdotessa per Anù. La
ragazza, di quindici anni più giovane, non aveva parlato sino ai ventuno anni. Al villaggio dicevano che avesse ricevuto il
malocchio da una vicina di casa, sterile, ingelositasi per le numerose
gravidanze che sua madre aveva portato avanti felicemente.
Spesso le venivano delle
convulsioni e una volta aveva perfino rischiato di morire perché era caduta nel
fuoco, ustionandosi con l’acqua bollente. L’incidente le aveva deturpato il
viso e una parte del corpo. Anù aveva
notato la ragazza seduta su una pietra, con lo sguardo assente, un giorno che
si era recato al villaggio per certe incombenze legate al suo ufficio di gran
sacerdote. Quella pietra non era una qualsiasi pietra, ma costituiva uno dei
punti dell’itinerario che il sole percorreva durante il solstizio di primavera.
Rimasto vedovo aveva chiesto a sua mamma se la ragazza fosse stata disponibile
a trasferirsi da lui per cucinare e tenergli la casa in ordine. Alla mamma non
era sembrato vero di liberarsi di quella figlia, spesso con la testa tra le
nuvole, muta da sembrare quasi scema e che nessuno aveva chiesto in sposa e mai
l’avrebbe chiesta più, dato che aveva già compiuto ventuno anni.
Anù aveva preso a curarla
con certi infusi di erbe e di strane polverine che solo lui conosceva. Le
convulsioni si erano andate diradando progressivamente e un bel giorno Gula aveva
pronunciato, senza preavviso, le sue prime parole.
Rivolgendosi ad Anù aveva
detto: «Da oggi in poi parlerò per te!» Da
quel giorno le convulsioni non si manifestarono più. In realtà né Anù, né Gula,
amavano molto parlare. Anù meditava spesso sul significato da dare alle prime
parole pronunciate dalla sua schiava. In una notte tempestosa accadde che Gula,
presa dal terrore, si infilasse nel giaciglio di Anù in cerca di protezione. La
ragazza si strinse a lui e la ricerca di protezione divenne qualcos’altro. Anù,
che dopo la morte di sua moglie, avvenuta esattamente un anno prima, non aveva
più pensato ad altre donne, troppo assorbito nel suo dolore e nei suoi mille
incombenti, non si oppose. Fece tutto la ragazza con una naturalezza che sorprese
il riflessivo Anù. Dopo averlo eccitato gli montò sopra, si fece penetrare, e
si mosse con maestria, come se nella sua vita non avesse fatto altro. Anù non
era più un giovincello e gli parve giusto regolarizzare la condizione della
ragazza. Se lui fosse morto, la ragazza sarebbe rimasta nel suo status di
schiava, ma se lui avesse ufficializzato la loro unione, essa sarebbe stata la
vedova del gran sacerdote per sempre. La cerimonia, semplice e particolare come
si conveniva all’unione tra un vedovo e una ragazza matura, non più vergine, fu
celebrata da lui stesso al pozzo sacro, alla presenza di pochi invitati.
Da quel giorno Gula era
divenuta la sua assistente, ma non volle che lui assumesse un’altra schiava per
curare la casa e per cucinare; forse era gelosa e non voleva dividere la sua
intimità con nessuno.
Quando lui la informò che
cercava una ragazza per celebrare il rito propiziatorio dell’incubazione, in
previsione del raduno settennale dei capitribù nuragici dei villaggi federati,
lei ripeté quelle stesse, identiche, prime parole: «Da oggi in poi parlerò per
te!»