domenica 24 aprile 2022

Le indagini del commissario Santiago De Candia -1

 Capitolo primo

Come ogni mattina, anche quel lunedì, il commissario Santiago De Candia fece una breve sosta all’edicola di Largo Gennari, che da casa sua, in via Monteverdi, lo conduceva in Questura.

Checco gli allungò subito i due soliti quotidiani, piegati in due. La Stampa e L’Opinione.

Come tanti cagliaritani, Checco chiamava il quotidiano cittadino ‘l’Opignone’. Il commissario, nonostante fosse nato in Sardegna, non aveva ancora capito se si trattasse di un difetto di pronuncia oppure di un vezzo.

La seconda sosta, più lunga, era quella al Bar di Tonio, il Caffè Intilimani, come recitava l’insegna. Era stato coniato un unico vocabolo composto dal nome di un famoso gruppo musicale cileno degli anni ’70 da cui, verosimilmente, il fondatore del locale aveva preso ispirazione.

Il commissario De Candia salutò con un cenno il barista. Era sufficiente. Il barista sarebbe subito arrivato con la sua colazione. Ci teneva a servirlo personalmente.

Seduto al solito tavolino, in fondo al locale, mentre aspettava il suo cappuccino e il suo croissant alla crema, aveva aperto l’Opinione. A prescindere dal nome, il quotidiano regionale si faceva apprezzare soltanto per la cronaca. Per le altre notizie,  lui preferiva la Stampa di Torino, sulla quale si era orientato dopo tanti anni passati a formarsi su La Repubblica.

«Ha letto dell’assassino preso con il coltello in mano?» gli disse Tonio poggiando il vassoio. «I miei clienti non parlano d’altro oggi!» riprese con un tono di rassegnazione di chi  non si aspettasse alcuna risposta.

Il commissario De Candia non amava molto le chiacchiere. Dopo anni che frequentava il suo bar, Tonio aveva imparato a rispettare la  riservatezza di quell’uomo che comunicava l’essenziale con gli occhi e che evitava ogni parola superflua.

L’articolo di spalla rimandava la notizia alle pagine interne della cronaca dove ampio spazio era dedicato all’assassino con il coltello in mano, come il giornale aveva definito l’omicidio che il barista gli aveva segnalato.

C’era una foto della vittima. Una certa Emma Pirastu, di anni ottantaquattro. Una bella signora, osservò De Candia. Distinta, dal viso intelligente, forse un’insegnante in pensione oppure un’impiegata. 

Era stata uccisa, in un quartiere residenziale di Cagliari, dal nipote, un quasi trentenne, di cui si riportavano soltanto le iniziali.

L’assassino era stato colto in flagranza di reato con il coltello ancora in mano, grondante del sangue della zia, che giaceva esanime ai suoi piedi in cucina. I Carabinieri della Polizia Giudiziaria, coordinati dal procuratore capo Bartolomeo Gessa, intervenuti prontamente sul posto dietro segnalazione di una dirimpettaia, allarmata dalle urla disumane della povera vittima,  avevano  risolto a tempo di record il caso, assicurando l’assassino  alla giustizia, commentava la capo redattrice della cronaca nera, Maria Carla Coseno. 

Il commissario si sentì prudere il naso. Aveva sempre sentito dire che il prurito al naso poteva significare due cose alternativamente, soldi in arrivo oppure colpi. Ma il suo era un naso da sbirro e spesso gli prudeva quando leggeva qualcosa che non quadrasse. Oppure quando stava per imbattersi in qualcosa di importante e di risolutivo. Gli succedeva talmente spesso che ormai non ci faceva quasi più caso. In quell’occasione poteva perfino trattarsi di un po’ di zucchero a velo, finito dal croissant sul suo naso. Ci strofinò sopra un tovagliolo, mentre si detergeva le labbra da eventuali segni della colazione e si alzò in piedi.

Mentre pagava alla cassa colse distintamente alcuni commenti dei clienti di Tonio.

«Ma cosa aspettano a reintrodurre la pena di morte?»

Ancora senza vedere in viso chi parlasse, udì i commenti che seguirono.

 «Magari! Invece lo dovremo mantenere per chissà quanti anni in carcere, servito e riverito!»

«Non ti preoccupare! Con un bravo avvocato, nel giro di cinque, massimo sette anni, sarà già fuori pronto ad ammazzare qualcun altro!» disse una terza voce.

«Non esageriamo! L’hanno preso con il coltello in mano! Non so se realizzi?» replicò la prima voce.

«È come se l’avessero preso con la Colt fumante!» esclamò la seconda voce.

«Sapete cosa vi dico? Un bravo avvocato sarebbe perfino capace di farlo assolvere!» disse la terza voce che non sembrava volere retrocedere. Anzi, intendeva spingersi ancora più avanti nella sua tesi.

«Boom! Mo’ gli danno pure una medaglia a ‘st’assassino con il coltello in mano!» esplose una quarta voce che forse apparteneva a un romano, o a un forestiero.

Grato che nessuno gli avesse chiesto un parere, il commissario, dopo aver pagato, uscì e si accese una sigaretta.

Non c’era niente di più stressante che un processo sommario, fatto fuori dalle aule di un tribunale, pensò il commissario avviandosi verso la sede della Questura. Come certi programmi televisivi che andavano di moda, infarciti di sedicenti esperti e improvvisati criminologi, dove si ricostruivano i processi più eclatanti e recenti che, a prescindere dalla loro evidente e oggettiva complessità, non sembravano trattenere il pubblico da giudizi tanto sommari e superficiali, quanto azzardati e fuori luogo.  

Neanche il tempo di finire la sigaretta ed era arrivato in Questura. L’edificio che la ospitava si trovava proprio dietro il Palazzo di Giustizia, come se i tecnici del Piano Urbanistico avessero voluto farne un presidio di protezione e retroguardia.

Il commissario spense la sigaretta sotto la scarpa prima di imboccare la scalinata in travertino che portava all’interno della Questura. 

Il piantone lo accolse accennando un saluto militare.

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