domenica 29 giugno 2025

El nuevo Cancionero




 "Il Nuovo Cancionero è diviso in due parti; nella prima si trovano ventidue poesie in due diverse lingue: castigliano e sardo. Le poesie sono state composte in un periodo di tempo che va dagli anni settanta del secolo scorso fino ai giorni nostri. La seconda parte è una commedia musicale intitolata "Afuera los Sardos" che è stata rappresentata a Madrid e a Cagliari nel 2011 con grande successo. È la storia di un amore contrastato tra Rosina, una sarta di umili origini e Felipe, figlio del viceré spagnolo, che si stabili' a Cagliari nel XVII secolo al posto del Re di Spagna (che all'epoca possedeva mezzo mondo, Sardegna compresa). Rosina lavora nel palazzo del viceré, come sarta della madre di Felipe, Marguerita de Sette Fuentes, una nobile sarda sposata con il viceré Sangermano. Il padre di Rosina, Lazzarino, vuole espellere gli spagnoli dal Castello di Cagliari, dove al tramonto, sono gli spagnoli che espellono i sardi, per paura che, durante la notte, scoppieranno disordini ai danni degli spagnoli, come è successo qualche anno prima con il predecessore di Sangermano, ucciso da un sardo di nome Brundu. È per questo motivo che all'inizio della commedia si sente un clacson che annuncia "La chiusa delle porte" e i sardi si obbligano ad uscire dal castello con il grido "Fuori i sardi"...

Ma quando Lazzarino e il suo complice Boricu, leader dei rompiballe sardi, chiedono aiuto a Rosina per rapire Filippo, Rosina si rifiuta e rivela il suo sentimento per il figlio del viceré. Alla fine la rivolta fallisce miseramente e sarà Lazzarino a scegliere di morire, a pagare le conseguenze dei fatti. Tuttavia benedirà l'unione di sua figlia Rosina con il figlio del viceré. I due innamorati, aiutati dalla madre di Felipe, si sposeranno e coroneranno la loro storia d'amore.
------------------------------------------------
EDITRICE RIGOROSAMENTE NOEAP
DISTRIBUTORE ESCLUSIVO LIBRO CO. ITALIA -Firenze-.

giovedì 12 giugno 2025

Memorie di scuola

 

https://www.amazon.it/dp/B0D7TGK2TJ



Il mio maestro mi apprezzava molto; me lo dimostrava quando, a fine mattinata, mi assegnava la tessera del refettorio scolastico comunale di qualche bambino titolare che fosse risultato assente a scuola. Allora, anziché rientrare a casa, me ne andavo alla mensa comunale: con quella tessera mi spettava un pasto completo: la pastasciutta la saltavo perché sembrava un impasto di colla; se c’era la minestra di riso oppure il minestrone, invece, lo mangiavo volentieri; scartavo anche la fettina, che assomigliava spesso ad una suola di scarpa e le uova sode, che all’interno si presentavano con un colore verde-giallo poco rassicurante; neanche il formaggino, a volte striato di verde sotto la confezione, mi attirava. Ciò che mi attirava di più erano certi panetti di marmellata di una nota casa svizzera: delle vere leccornie!!! Quella confezione da sola valeva il mio viaggio alla mensa scolastica.

Quando mi vedeva in piazza, il mio maestro, mi mandava al tabacchino a compragli le sigarette. Fumava le Alfa; sul pacchetto bianco spiccava infatti una lettera Alfa dell’alfabeto greco dal colore rosso. Da grande ho scoperto che quelle sigarette facevano letteralmente schifo, peggio anche delle Nazionali senza filtro; o forse ero solo viziato dalle Esportazioni con filtro e dalle Diana che scroccavo, di nascosto, a mio padre e ai miei fratelli. Mi dava centocinquanta lire e mi regalava le venti lire di resto. Era il suo modo per dimostrarmi la sua simpatia ed il suo apprezzamento per l’impegno scolastico. Quel ventino dal colore di bronzo mi rendeva felice e correvo subito a comprarmi delle caramelle e un cono di zucchero da dieci lire. Ma se si era a Carnevale allora mi compravo una maschera da cow-boy con l’elastico ai lati (la seconda scelta era la maschera da indiano Sioux) e un pacchetto di coriandoli.

Quando pioveva, la strada per raggiungere la scuola diventava una pozzanghera. I marciapiedi non esistevano ancora al mio paese e le strade, per la maggior parte, non erano asfaltate. Mio padre mi regalò un paio di stivali di gomma affinché non restassi con i piedi bagnati tutta la mattina e non rovinassi le scarpe (che comunque non erano certo le scarpe da passeggio che si usano oggidì).

Ricordo che il Comune distribuiva alle famiglie dei bisognosi delle scarpe. Io mi ritenevo fortunato: la mia famiglia, pur essendo assai numerosa, era considerata benestante. Anche se mio padre ripeteva che i veri ricchi erano i proprietari terrieri che risultavano sconosciuti al Fisco e non presentavano neppure la dichiarazione dei redditi. Mio padre era un commerciante; uno di quei grandi uomini che, nel loro piccolo, con inenarrabili sacrifici e tanto lavoro, hanno contribuito a ricostruire l’Italia distrutta dalla guerra. Lui però rimpiangeva la vita militare e i gradi di maresciallo che aveva abbandonato, con stipendio sicuro, malattia e ferie pagate. Malediceva sempre il governo che, non ho mai capito con quale diabolico stratagemma, lo aveva convinto a cancellarsi dagli albi degli artigiani (lui che aveva le mani d’oro di orologiaio) per convincerlo a divenire un commerciante.

Col senno di poi, capisco però che con quel capitale che aveva immobilizzato nel negozio (tra oreficeria, gioielleria, articoli da regalo, sveglie e orologi) a quei tempi, quando i titoli di stato spuntavano un tasso annuale del 15%, avremmo potuto vivere di rendita. Ma la generazione di mio padre (ed il suo carattere fondamentalmente onesto, unito alla mentalità biblica del piacere-dovere di guadagnarsi il pane col sudore della fronte) era fatta di una tempra dura, tutta casa e lavoro. Sarebbe stato impensabile mangiare senza lavorare.

Ma il boom covava sotto le ceneri dell’Italia distrutta dalla guerra. L’Italia, in quegli anni, gettava le basi per la crescita enorme che sarebbe passata alla storia con il nome di “boom economico”.