Capitolo quattordicesimo
Anno scolastico 2000-2001
Alcuni vecchi docenti come me, che hanno insegnato a lungo, a cavallo dei due secoli ventesimo e ventunesimo, sogliono distinguere il prima e il dopo rispetto alla introduzione dell’autonomia scolastica.
A distanza di oltre venti anni dalla sua introduzione (l’autonomia scolastica è in realtà entrata in vigore formalmente il 1 settembre del 2000, ma in precedenza c’era stato un biennio di sperimentazione) io ancora non riesco a spiegarmi il senso di questa riforma che il centro sinistra (col ministro Luigi Berlinguer) ha voluto calare dall’alto, nonostante le opposizioni nette dei sindacati e dei docenti.
A me questa riforma dell’autonomia scolastica (ripresa con esiti ancor più disastrosi dal governo Renzi con la legge 107 del 2015) ha dato sempre l’impressione di quel matrimonio, preannunciato con squilli di tromba e grande enfasi, che poi venne però festeggiato con i fichi secchi.
Si iniziò con la legge n. 59/1997, (riforma Bassanini), che all’art. art.21 pose la prima pietra dell’autonomia scolastica conferendo al Governo il potere di riorganizzare il “Servizio istruzione” mediante il potenziamento dell’autonomia intestata alle istituzioni scolastiche ed educative.
Venne poi realizzata dal DPR 275/1999, che la sbandierava come “garanzia di pluralismo culturale che si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti” .
Al tutto venne infine conferito persino rango costituzionale (sempre da questa incomprensibile sinistra revisionista) con la Legge 3/2001 del 18 ottobre che all’art. 117, che ha modificato il titolo V, della parte seconda della Costituzione.
Per chi ha vissuto la riforma dall’interno, come docente, il tutto è risultato essere una grande operazione propagandistica, fatta da ministri affetti da megalomania che forse sognavano di iscrivere il loro nome nella storia della scuola (paradossalmente, nel secolo scorso, ci è riuscito soltanto il ministro Giovanni Gentile, cioè un ministro dell’epoca fascista).
In pillole, la riforma ha attribuito a ogni scuola una personalità giuridica, ha cambiato il nome del preside in Dirigente Scolastico, ha introdotto per ogni scuola l’obbligo di differenziare l’offerta formativa con l’adozione di un POF (piano dell’offerta formativa).
A ben vedere la riforma è stato un cambio di facciata, un’operazione malfatta di maquillage che ha aumentato soltanto il disorientamento dei docenti e la confusione nell’organizzazione.
Del resto basta leggere la cronaca per capire che cosa sia diventata la scuola.
Al di là delle formule burocratiche e pompose, quali quella tesa a “migliorare il processo di insegnamento e di apprendimento” o quella che avrebbe per fine “ di garantire ai soggetti coinvolti il successo formativo, mediante l'impiego delle indispensabili risorse umane, finanziarie e strutturali” e “l’ambizione di realizzare l’integrazione e il miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, anche attraverso l’introduzione e la diffusione di tecnologie innovative”, l’autonomia scolastica è un vero e proprio sacco vuoto.
E leggiamola questa cronaca, per capire quanto poco abbia funzionato questa strombazzata riforma scolastica.
Punto primo: gli edifici scolastici stanno cadendo a pezzi.
La riforma avrebbe dovuto cominciare invece da lì. Si sarebbe dovuto innanzitutto provvedere a mutare radicalmente la stessa architettura scolastica, rinnovando la concezione architettonica della scuola, prevedendo in ogni edificio scolastico una mensa, un teatro, una palestra, degli spazi appositi per i laboratori informatici.
Quella sì che sarebbe una vera rivoluzione. Prima di sbandierare riforme megagalattiche a nessuno di questi soloni della sinistra revisionista (non parliamo, per carità di patria, dei ministri della destra, con Moratti e Gelmini in testa, che alla scuola pubblica hanno suonato il de profundis, per rilanciare le scuole private dei loro sodali e per punire i docenti, colpevoli di essere, ai loro occhi e dei colleghi ministricchi, della serie Brunetta e Tremonti, per intenderci, dei marxisti leninisti, affetti da fannullismo cronico, terroristi mancati e figli spuri della rivoluzione del sessantotto), è venuto in mente di rinnovare la scuola partendo dagli edifici destinati a ospitare le classi e i docenti?
A che cosa sono servite queste riforme se gli edifici scolastici son rimasti gli stessi di cinquant’anni fa? Ma davvero si può pensare di fare una riforma così ambiziosa senza prevedere una ricostruzione e un ripensamento degli spazi a disposizione di studenti e docenti per svolgere la vita scolastica? Ma qualcuno di questi riformatori mancati è mai stato all’estero, almeno per capire come va concepito una spazio scolastico decente?
Io ho avuto l’impressione che tutti i ministri che si sono succeduti nel secondo dopoguerra, non abbiano capito niente della scuola (soprattutto quelli dalla Falcucci in poi).
Non c’è bisogno di scomodare Keynes per capire che un piano di ricostruzione di tutti gli edifici scolastici avrebbe costituito un volano economico e culturale davvero rivoluzionario.
Invece i nostri ministricchi sentenziavano che con la cultura non si mangia e hanno continuato, inesorabilmente, a tagliare le risorse scolastiche.
Punto secondo: è mancato totalmente il rilancio della figura del docente.
Trattando i docenti da fannulloni, riducendo i loro stipendi a salari di sopravvivenza i nostri ministricchi non hanno fatto altro che screditare i docenti agli occhi di un’opinione pubblica sempre più arrabbiata e sempre più confusa e impreparata (che altro aspettarsi, d’altronde, se i nostri ministri e parlamentari, per primi, hanno messo la scuola all’ultimo posto dei loro pensieri?).
Risultato di questa politica di screditamento: gli studenti hanno cominciato a vedere i loro docenti come degli sfigati, senza arte né parte, bistrattati, malpagati e tecnologicamente arretrati; i familiari sono arrivati persino ad allungare le mani su di loro (e non è mancato neppure qualche studente che lo ha fatto, postando poi su Internet la malefatta).
Ma come si è potuto pensare a una riforma che non prevedesse il rilancio della figura più importante della scuola?
Terzo punto: si è tanto discettato di autonomia ma i programmi sono rimasti quelli di mezzo secolo fa, appannaggio esclusivo dei ministri e dei loro apparati. E qui la domanda sorge spontanea: ma allora di quale autonomia si è parlato in questo ventennio?
Risposta semplice e ovvia: dell’autonomia relativa ai programmi aggiuntivi, quelli extracurricolari, da svolgersi nel pomeriggio. Insomma, a dei veri e propri riempitivi, per non chiamarli optional.
Peccato che nessuno abbia previsto che questi programmi aggiuntivi, tesi magari lodevolmente a colmare le lacune manifestate dai discenti durante l’anno scolastico, andassero svolti al pomeriggio, e che quindi gli edifici scolastici abbisognassero di una mensa scolastica, una cucina , dei luoghi di ritrovo per studenti e docenti!
E qui mi fermo. Non senza aver posto un’ ultima domanda: ma si può seriamente pensare di costruire una scuola di livello europeo, lasciando gli stipendi dei docenti a un livello tra i più bassi d’Europa?
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