domenica 9 febbraio 2025

Giornata del Ricordo

 


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L’APPELLO DELL’INFOIBATO

Primo Premio Terzo Gruppo - Sezione G

Concorso Letterario Internazionale

 “L’Esodo Istriano-Fiumano-Dalmata”

 

Se trovate in un burrone profondo

uno scheletro legato con il fil di ferro

a un altro scheletro,

legato a un altro scheletro

e a un altro ancora,

quello sono io.

 

Non cercatemi in un fosso qualunque!

Io giaccio in quei recessi contorti

che si chiamano foibe.

Avvolgetemi, ve ne prego,

in un drappo bianco

E restituitemi ai miei cari,

alla mia Patria e alle cose di Dio.

Non odio nessuno e perdono tutti.

Solo un’ultima cosa vi chiedo:

aprite gli occhi dei vostri figli

sulla verità!

 

I Thirsenoisin

 


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Capitolo 4

 

Intanto, nel villaggio di Gisserri, a nord di Kolossoi, alle pendici settentrionali dell’altipiano della Giara, tre grandi eventi animavano tutto il villaggio: il raduno settennale delle nove tribù nuragiche federate; il viaggio iniziatico di Salmàn e il rito propiziatorio della sacerdotessa Gula.

Il consiglio degli anziani, in realtà, aveva delegato il gran sacerdote, Anù, per organizzare il rito propiziatorio, atto ad ingraziarsi il favore degli dei delle acque, mentre aveva preso atto che Salmàn, il figlio del capo tribù, era in età per l’intrapresa del viaggio che lo avrebbe immesso nella vita adulta.

Trattandosi di un futuro capo, il consiglio aveva stabilito che Salmàn dovesse stare fuori per almeno sette giorni, con arco, frecce e coltello; partendo a piedi, sarebbe dovuto rientrare con tre cavalli: a dorso di uno dei cavalli ci sarebbe dovuto essere proprio lui, mentre gli altri due cavalli avrebbero dovuto trasportare un cervo maschio e un cinghiale femmina.

Il Consiglio degli Anziani si intrattenne assai più lungamente sul raduno federale che sarebbe iniziato di lì a qualche giorno. Ogni sette anni, da tempo immemore, all’equinozio di primavera, il villaggio di Gisserri aveva l’onore di ospitare il raduno delle tribù nuragiche federate.

 

 

 

 

Com’era costume fu Hannibaàl, in qualità di capo tribù,  a introdurre e a chiudere i lavori. Tutti i membri presero la parola per esprimere il loro punto di vista sul tema che Hannibaàl aveva posto all’ordine del giorno. Il tema era sempre lo stesso da molti anni, al punto che neppure il più vecchio dei membri del Consiglio, ne ricordava un altro più importante, da discutere in preparazione  alle adunanze  federali; era così ormai da molto tempo, da quando gli Shardana si erano insediati nelle coste dell’isola: prima avevano fondato Karalis, poi  Nora,  Cornus, e Solki; poi, via, via, ne erano sorte altre ancora: se ne contavano ormai ben tredici, dalla più meridionale, Karalis, alla più settentrionale, Solki, passando per Tarros, Turris, Feronia, Bithia e Nabui. E piano, piano queste città, composte da provetti navigatori, forti guerrieri e abili commercianti, cercavano nuovo spazio verso l’interno, erodendo sempre più terreno all’influenza dei villaggi nuragici e introducendo le loro merci, la loro cultura e le loro usanze. La presenza dei nuovi venuti, se non altro, aveva fatto diminuire le guerre tra le tribù nuragiche, che potevano vantare, da molto tempo, un periodo di relativa pace. Ma la sindrome dell’accerchiamento eraandato crescendo di pari passo tra le popolazioni nuragiche.

Il problema che si era posto sin dall’inizio per i bellicosi e fieri nuragici era dunque quello dell’atteggiamento corretto da assumere nei confronti dei Shardana.  

 

 

 

 

 

Da sempre si erano formati due schieramenti: quelli che volevano la guerra e quelli che invece invitavano a trovare un modo di vivere insieme; ma possibilmente ognuno a casa sua, chiosavano anche i consiglieri più mansueti.

 La casta dei guerrieri, secondo le storie che si tramandavano oralmente da padre in figlio, all’inizio aveva prevalso. C’erano stati numerosi scontri, con alterne fortune. Ma i Shardana avevano presto lasciato intendere che il loro obiettivo non era quello di conquistare i territori delle tribù nuragiche, strappando loro la sovranità sul popolo e  sulle loro terre; il loro scopo era quello di convivere pacificamente, commercializzando i loro prodotti, scambiando le loro merci e incontrandosi pacificamente per fare affari. Gli  abili artigiani del bronzo e della ceramica  erano stati in un certo senso l’ago della bilancia all’interno dei villaggi nuragici; infatti, se da un lato i guerrieri propugnavano la guerra totale contro i Shardana, sino all’annientamento finale; e se i sacerdoti, dall’altro,  privilegiavano invece il dialogo e la convivenza pacifica con i popoli del mare, gli artigiani scoprirono presto i vantaggi di un mercato aperto; i loro prodotti, oltretutto, piacevano molto ai commercianti delle città stato che, probabilmente, riuscivano a venderli oltre mare, nei ricchi mercati, da un capo all’atro del mare mediterraneo, verso l’Africa, verso la Francia e la Spagna, e perfino oltre il vicino oriente, sino alla Persia e all’India. Tanto più che gli artigiani del bronzo, i maggiori contribuenti dei tributi versati alla comunità,

 

 

 

 

avevano scoperto che i commercianti Shardana gli procuravano, più celermente e in maniera più vantaggiosa, lo stagno, indispensabile per ottenere con il rame, la materia prima dei loro manufatti; essi ricavavano il rame in gran copia dalle loro miniere, insieme al piombo e al ferro.

 L’abbondanza nei mercati di stagno, dovuta all’intraprendenza dei commercianti Shardana, aveva inoltre fatto abbassare i costi della loro produzione.

Tutti gli altri artigiani avevano seguito l’esempio degli artigiani del bronzo e si erano schierati per la pace e per la convivenza coi vicini Shardana.

Pur non avendo un riconoscimento ufficiale nel Consiglio degli Anziani, gestito in pratica dai sacerdoti e dai guerrieri, il loro peso era stato decisivo nel mantenere la pace. Anche quell’anno, Hannibaàl ne aveva sentore, le tribù non avrebbero dichiarato la guerra, ma gli altri capi tribù, ne era altrettanto certo, avrebbero deliberato di resistere quanto più possibile a quella penetrazione culturale e commerciale, limitando al massimo le aperture e difendendo le antiche tradizioni nuragiche. Nessuno si aspettava che il Consiglio assumesse posizioni progressiste, essendo piuttosto un organo di governo tradizionalmente conservatore.

 Il gran sacerdote Anù, responsabile anche degli approvvigionamenti, sovrintendendo una sorta di annona per le scorte di cibo e di materie prime, che provvedeva ad accumulare in appositi e capaci depositi, aveva portato in

 

 

 

 

Consiglio le istanze degli artigiani e di certi allevatori che gli si erano raccomandati per far sì che, da un lato si mantenesse la pace, apportatrice di prosperità economica, dall’altro che si provvedesse comunque a difendere i confini  territoriali e le greggi dalle incursioni (anche se non era certo che quelle incursioni in territorio nuragico  le facessero davvero  i guerrieri Shardana).  La casta dei sacerdoti, inoltre, aveva tutto da guadagnare, in termini economici, dagli scambi commerciali con i Shardana. Essa infatti era tributaria delle decime relative all’estrazione, alla produzione e al commercio dei minerali, anche nella forma redditizia dei bronzetti votivi. E ciò sulla base del fatto che la casta sacerdotale esplicava le sue competenze, anche relativamente alla riscossione dei tributi, su tutto ciò che gli dei avevano posto al di sotto e al di sopra del suolo (metalli, minerali e acque sorgive e piovane), mentre le decime su tutto il resto della produzione (soprattutto gli sterminati armenti e le ricche produzioni agricole, coi loro derivati) venivano incamerate dal re pastore, il capo della tribù nuragica.

 L’intensificarsi degli scambi commerciali tra i due popoli, aveva finito per far cadere molte delle barriere di ostilità e diffidenza che all’inizio erano sorte tra di loro, anche se un retaggio di quella originaria inimicizia, era comunque rimasto a fermentare, sotto la superficie di quell’apparente concordia; e ciascuno si era aggrappato alle proprie origini, anche se non erano mancati i matrimoni misti e le contaminazioni reciproche di usi, costumi e idiomi.

 

 

 

 

Anù, a dire il vero, i suoi pensieri più profondi e le sue energie più importanti le riservava da sempre alle sue funzioni religiose. L’anziano sacerdote capiva bene l’importanza del ruolo che svolgeva la casta di cui egli era il capo.

Se infatti la casta dei guerrieri, capeggiata dal capo tribù, dava al popolo la sicurezza di un ordine ben costituito e di un apparato ben strutturato per la difesa del popoloso villaggio che sorgeva tutt’attorno alla reggia nuragica, la casta dei sacerdoti contribuiva a garantire ad  ogni singolo individuo del gruppo il favore che gli astri celesti e gli dei delle acque assicuravano al popolo nuragico, salvaguardando i raccolti, propiziando le piogge, assistendo le donne nelle nascite, guidando i vecchi nell’ultimo tratto di strada, quello che conduceva all’eterno viaggio nell’al di là.

Anù era responsabile anche della scuola dei futuri sacerdoti.

Aveva una memoria prodigiosa; ricordava a memoria tutti i  capi tribù che avevano preceduto Hannibaàl e i grandi sacerdoti che lo avevano preceduto; si trattava di quasi duecento nomi, gli antenati più illustri; di loro sapeva narrare e ricordava anche le gesta, le battaglie vinte e quelle perse, i risultati raggiunti, le innovazioni introdotte e le leggi emanate. Ricordava inoltre gli antenati di ogni stirpe rappresentata nel Gran Consiglio degli Anziani. Alle cerimonie funebri che celebrava personalmente era capace di ricordarli tutti, dal primo sino all’ultimo.

 

 

 

 

Conosceva inoltre le erbe e i principi curativi che possedevano. Insomma, lo si poteva considerare un’enciclopedia vivente e parlante. Trasmetteva queste cose ai suoi allievi. Li studiava tutti, uno per uno. Doveva scegliere il suo successore, come il suo predecessore aveva fatto con lui. Non era un compito facile.  Oltre che una memoria di ferro, occorrevano altre qualità per divenire grande sacerdote. Lui si affidava anche ai segni del cielo. Sapeva leggere le stelle e interpretare i segni più diversi: dagli uccelli in volo, ai fischi del vento, ai sussurri del fiume; ma questi non li poteva né spiegare, né trasmettere; poteva solo immaginarli in capo ai suoi discenti, come un dono innato che, tutt’al più, poteva svilupparsi col tempo e con la pratica. 

 Portava con sé i suoi allievi a raccogliere le erbe e in tante occasioni li interrogava, dopo avergliene spiegato le qualità curative, sul loro utilizzo a fini terapeutici. Coglieva anche altre erbe, quelle magiche, proibite, dai poteri psicotropi, che potevano mettere in contatto con le forze sopranaturali, quelle che dominano nell’oltretomba, dove risiedono gli antenati che le sue sacerdotesse, sotto la sua direzione, consultavano periodicamente, quando delle decisioni importanti attendevano il Gran Consiglio e grandi eventi investivano la vita del villaggio.  Con quelle erbe occorreva stare attenti: un giovane poteva facilmente rovinarsi la vita, ingerendole. Davano un delirio di onnipotenza, se non venivano utilizzate correttamente, e potevano facilmente condurre alla follia.

 

 

 

 

Poiché esse erano una finestra aperta sull’altro mondo, quello dei morti. Qualcuno non era mai tornato da quei viaggi. Il suo maestro gliele aveva fatte provare e lui stesso ne era rimasto impressionato. Non gli piacevano quelle erbe; e neanche certi funghi che ne costituivano un necessario complemento, come mezzo per entrare in contatto con i giganti dormienti nelle tombe degli avi.

Erano troppo pericolosi e avevano una proprietà che a lui non piaceva per niente: tendevano a dominare sull’uomo, a prenderne il sopravvento, proprio per quella sensazione di onnipotenza che essi trasmettevano. Il suo maestro gli aveva detto che sulle donne avevano le stesse proprietà psicotrope ma non gli davano quella sensazione di potere; in un certo senso, quei funghi e quelle erbe, si ritraevano nei confronti delle donne e ne venivano, a loro volta, dominati. Era uno dei tanti misteri inspiegabili della Natura e degli dei che la dominavano, gli aveva detto il suo maestro. E lui non l’aveva mai dimenticato.

La sera prima, l’ultima di luna piena precedente il grande raduno settennale, quando la sacerdotessa prescelta si sarebbe dovuta sottoporre al rito dell’incubazione, andò da solo a cercare il fungo Amanita che cresce in simbiosi con la pianta della Belladonna. Non tutti i funghi che potevano trovarsi alla base dell’arbusto erbaceo andavano raccolti per quell’occasione; Anù prediligeva gli Amanita della varietà pantherina, anche se sapeva bene che certi sciamani conoscevano come trattare le altre varietà di fungo.

 

 

 

 

Gula, la sacerdotessa con cui aveva stabilito di celebrare il rito dei quattro occhi, di quelli che consentono uno sguardo nell’altro mondo, da cui essa avrebbe dovuto riportare degli auspici, aveva bisogno di un fungo amanita che fosse stato in simbiosi con quelle piante e che avesse ricevuto, ma anche trasmesso, particolari sostanze alle bacche a forma di ciliegia; inoltre i funghi e le bacche andavano raccolti in una particolare zona dove, come gli aveva spiegato un giorno il suo maestro, correva una vena acquifera sotterranea con particolari composizioni favorevoli al processo simbiotico che i due vegetali si scambiavano.

La sacerdotessa prescelta da Anù avrebbe dovuto stare incubata, forse per tutti i cinque giorni del raduno e, pertanto, l’effetto psicotropo doveva essere congiunto alle necessarie linfe di sostentamento, che solo certi funghi e certe bacche possedevano. Anù li chiamava sos micorizzas (o cerexas malaittas). Sminuzzati  il cappello del fungo e le radici delle Belladonna, Anù li avrebbe messi a macerare nel vino e nel succo ricavato dalle bacche della pianta per dodici ore. Dopo una ebollizione lenta e continua per altre dodici ore il decotto, filtrato e lasciato freddare a dovere, sarebbe stato pronto per la somministrazione. Oltre agli  effetti euforici ed eccitanti, il  decotto, produceva    anche certi effetti nutritivi e calmanti. Lui glielo avrebbe somministrato  con il massimo dell’attenzione e gradatamente, durante tutto il tempo dell’incubazione, a intervalli regolari, e opportunamente trattati.

 

 

 

 

Avrebbe così potuto sorvegliarne e monitorarne gli effetti e, se del caso, avrebbe potuto perfino interrompere il rito. Gula era più di una semplice sacerdotessa per Anù. La ragazza, di quindici anni più giovane, non aveva parlato sino ai ventuno anni.  Al villaggio dicevano che avesse ricevuto il malocchio da una vicina di casa, sterile, ingelositasi per le numerose gravidanze che sua madre aveva portato avanti felicemente.

Spesso le venivano delle convulsioni e una volta aveva perfino rischiato di morire perché era caduta nel fuoco, ustionandosi con l’acqua bollente. L’incidente le aveva deturpato il viso e una parte del corpo.  Anù aveva notato la ragazza seduta su una pietra, con lo sguardo assente, un giorno che si era recato al villaggio per certe incombenze legate al suo ufficio di gran sacerdote. Quella pietra non era una qualsiasi pietra, ma costituiva uno dei punti dell’itinerario che il sole percorreva durante il solstizio di primavera. Rimasto vedovo aveva chiesto a sua mamma se la ragazza fosse stata disponibile a trasferirsi da lui per cucinare e tenergli la casa in ordine. Alla mamma non era sembrato vero di liberarsi di quella figlia, spesso con la testa tra le nuvole, muta da sembrare quasi scema e che nessuno aveva chiesto in sposa e mai l’avrebbe chiesta più, dato che aveva già compiuto ventuno anni.

Anù aveva preso a curarla con certi infusi di erbe e di strane polverine che solo lui conosceva. Le convulsioni si erano andate diradando progressivamente e un bel giorno Gula aveva pronunciato, senza preavviso, le sue prime parole.

 

 

 

 

Rivolgendosi ad Anù aveva detto: «Da oggi in poi parlerò per te!»  Da quel giorno le convulsioni non si manifestarono più. In realtà né Anù, né Gula, amavano molto parlare. Anù meditava spesso sul significato da dare alle prime parole pronunciate dalla sua schiava. In una notte tempestosa accadde che Gula, presa dal terrore, si infilasse nel giaciglio di Anù in cerca di protezione. La ragazza si strinse a lui e la ricerca di protezione divenne qualcos’altro. Anù, che dopo la morte di sua moglie, avvenuta esattamente un anno prima, non aveva più pensato ad altre donne, troppo assorbito nel suo dolore e nei suoi mille incombenti, non si oppose. Fece tutto la ragazza con una naturalezza che sorprese il riflessivo Anù. Dopo averlo eccitato gli montò sopra, si fece penetrare, e si mosse con maestria, come se nella sua vita non avesse fatto altro. Anù non era più un giovincello e gli parve giusto regolarizzare la condizione della ragazza. Se lui fosse morto, la ragazza sarebbe rimasta nel suo status di schiava, ma se lui avesse ufficializzato la loro unione, essa sarebbe stata la vedova del gran sacerdote per sempre. La cerimonia, semplice e particolare come si conveniva all’unione tra un vedovo e una ragazza matura, non più vergine, fu celebrata da lui stesso al pozzo sacro, alla presenza di pochi invitati.

Da quel giorno Gula era divenuta la sua assistente, ma non volle che lui assumesse un’altra schiava per curare la casa e per cucinare; forse era gelosa e non voleva dividere la sua intimità con nessuno. 

 

 

 

 

 

Quando lui la informò che cercava una ragazza per celebrare il rito propiziatorio dell’incubazione, in previsione del raduno settennale dei capitribù nuragici dei villaggi federati, lei ripeté quelle stesse, identiche, prime parole: «Da oggi in poi parlerò per te!»