domenica 29 giugno 2025

El nuevo Cancionero




 "Il Nuovo Cancionero è diviso in due parti; nella prima si trovano ventidue poesie in due diverse lingue: castigliano e sardo. Le poesie sono state composte in un periodo di tempo che va dagli anni settanta del secolo scorso fino ai giorni nostri. La seconda parte è una commedia musicale intitolata "Afuera los Sardos" che è stata rappresentata a Madrid e a Cagliari nel 2011 con grande successo. È la storia di un amore contrastato tra Rosina, una sarta di umili origini e Felipe, figlio del viceré spagnolo, che si stabili' a Cagliari nel XVII secolo al posto del Re di Spagna (che all'epoca possedeva mezzo mondo, Sardegna compresa). Rosina lavora nel palazzo del viceré, come sarta della madre di Felipe, Marguerita de Sette Fuentes, una nobile sarda sposata con il viceré Sangermano. Il padre di Rosina, Lazzarino, vuole espellere gli spagnoli dal Castello di Cagliari, dove al tramonto, sono gli spagnoli che espellono i sardi, per paura che, durante la notte, scoppieranno disordini ai danni degli spagnoli, come è successo qualche anno prima con il predecessore di Sangermano, ucciso da un sardo di nome Brundu. È per questo motivo che all'inizio della commedia si sente un clacson che annuncia "La chiusa delle porte" e i sardi si obbligano ad uscire dal castello con il grido "Fuori i sardi"...

Ma quando Lazzarino e il suo complice Boricu, leader dei rompiballe sardi, chiedono aiuto a Rosina per rapire Filippo, Rosina si rifiuta e rivela il suo sentimento per il figlio del viceré. Alla fine la rivolta fallisce miseramente e sarà Lazzarino a scegliere di morire, a pagare le conseguenze dei fatti. Tuttavia benedirà l'unione di sua figlia Rosina con il figlio del viceré. I due innamorati, aiutati dalla madre di Felipe, si sposeranno e coroneranno la loro storia d'amore.
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EDITRICE RIGOROSAMENTE NOEAP
DISTRIBUTORE ESCLUSIVO LIBRO CO. ITALIA -Firenze-.

giovedì 12 giugno 2025

Memorie di scuola

 

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Il mio maestro mi apprezzava molto; me lo dimostrava quando, a fine mattinata, mi assegnava la tessera del refettorio scolastico comunale di qualche bambino titolare che fosse risultato assente a scuola. Allora, anziché rientrare a casa, me ne andavo alla mensa comunale: con quella tessera mi spettava un pasto completo: la pastasciutta la saltavo perché sembrava un impasto di colla; se c’era la minestra di riso oppure il minestrone, invece, lo mangiavo volentieri; scartavo anche la fettina, che assomigliava spesso ad una suola di scarpa e le uova sode, che all’interno si presentavano con un colore verde-giallo poco rassicurante; neanche il formaggino, a volte striato di verde sotto la confezione, mi attirava. Ciò che mi attirava di più erano certi panetti di marmellata di una nota casa svizzera: delle vere leccornie!!! Quella confezione da sola valeva il mio viaggio alla mensa scolastica.

Quando mi vedeva in piazza, il mio maestro, mi mandava al tabacchino a compragli le sigarette. Fumava le Alfa; sul pacchetto bianco spiccava infatti una lettera Alfa dell’alfabeto greco dal colore rosso. Da grande ho scoperto che quelle sigarette facevano letteralmente schifo, peggio anche delle Nazionali senza filtro; o forse ero solo viziato dalle Esportazioni con filtro e dalle Diana che scroccavo, di nascosto, a mio padre e ai miei fratelli. Mi dava centocinquanta lire e mi regalava le venti lire di resto. Era il suo modo per dimostrarmi la sua simpatia ed il suo apprezzamento per l’impegno scolastico. Quel ventino dal colore di bronzo mi rendeva felice e correvo subito a comprarmi delle caramelle e un cono di zucchero da dieci lire. Ma se si era a Carnevale allora mi compravo una maschera da cow-boy con l’elastico ai lati (la seconda scelta era la maschera da indiano Sioux) e un pacchetto di coriandoli.

Quando pioveva, la strada per raggiungere la scuola diventava una pozzanghera. I marciapiedi non esistevano ancora al mio paese e le strade, per la maggior parte, non erano asfaltate. Mio padre mi regalò un paio di stivali di gomma affinché non restassi con i piedi bagnati tutta la mattina e non rovinassi le scarpe (che comunque non erano certo le scarpe da passeggio che si usano oggidì).

Ricordo che il Comune distribuiva alle famiglie dei bisognosi delle scarpe. Io mi ritenevo fortunato: la mia famiglia, pur essendo assai numerosa, era considerata benestante. Anche se mio padre ripeteva che i veri ricchi erano i proprietari terrieri che risultavano sconosciuti al Fisco e non presentavano neppure la dichiarazione dei redditi. Mio padre era un commerciante; uno di quei grandi uomini che, nel loro piccolo, con inenarrabili sacrifici e tanto lavoro, hanno contribuito a ricostruire l’Italia distrutta dalla guerra. Lui però rimpiangeva la vita militare e i gradi di maresciallo che aveva abbandonato, con stipendio sicuro, malattia e ferie pagate. Malediceva sempre il governo che, non ho mai capito con quale diabolico stratagemma, lo aveva convinto a cancellarsi dagli albi degli artigiani (lui che aveva le mani d’oro di orologiaio) per convincerlo a divenire un commerciante.

Col senno di poi, capisco però che con quel capitale che aveva immobilizzato nel negozio (tra oreficeria, gioielleria, articoli da regalo, sveglie e orologi) a quei tempi, quando i titoli di stato spuntavano un tasso annuale del 15%, avremmo potuto vivere di rendita. Ma la generazione di mio padre (ed il suo carattere fondamentalmente onesto, unito alla mentalità biblica del piacere-dovere di guadagnarsi il pane col sudore della fronte) era fatta di una tempra dura, tutta casa e lavoro. Sarebbe stato impensabile mangiare senza lavorare.

Ma il boom covava sotto le ceneri dell’Italia distrutta dalla guerra. L’Italia, in quegli anni, gettava le basi per la crescita enorme che sarebbe passata alla storia con il nome di “boom economico”.

martedì 27 maggio 2025

Sa coja proibida

 



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Sa  coja proibida

Personaggi

Raimundu Muliaches = capo degli orrolesi

Maria Piras= moglie di Raimundu

Iroxi Muliaches = figlio adottivo di Raimundu Muliaches e di Maria Piras

Chircantoni Bonu= Braccio destro di Raimundu Muliaches

MariAngela e Bruna= cameriere in casa Muliaches

Bartolomeo  Fele= capo dei Nurresi

Adelasia Zizi =  moglie di Bartolomeo

Leonora Fele= figlia di Bartolomeo  Fele e di Adelasia Zizi

Baillu Carcangiu= Braccio destro di Bartolomeo Fele

Giuanni Devotu= giovane pastore bittese innamorato di Leonora

Don Siraxiu= Parroco di Nurri,  confidente di Adelasia

Bissentica=vecchia cameriera vestita di nero dei Fele

Mialina=giovane cameriera aiutante di Bissentica

Gonaria= cuoca in casa Fele bene in carne

Invitati alle feste

Tre giocatori alla Morra in osteria= amici di Giuanni

 

 

 

 

Breve Sinossi: L’azione inizia alla vigilia di Ferragosto in un periodo indeterminato del secolo ventesimo, tra la prima e la seconda guerra mondiale e si conclude a settembre dello stesso anno tra Nurri e Orroli, nel bosco de “Sa Penitenzia”, a metà strada tra i due paesi. Due famiglie rivali concordano un matrimonio per la pace. I Fele di Nurri hanno una figlia Leonora e decidono di darla in sposa al figlio dei Muliaches, Iroxi. Nessuno sa che essi lo hanno avuto in segreto da un convento dove il bimbo era stato affidato dalla mamma, una ragazza madre di Nurri che ha partorito in segreto. Questa ragazza è Adelasia Zizi, moglie di Bartolomeo Fele. Il giorno del fidanzamento Adelasia riconosce la bisaccia nella quale aveva riposto il suo bambino con sette monete d’oro, come compenso per le suore del convento. Per evitare l’incesto Adelasia con l’aiuto del suo confessore don Siraxiu convince Giuanni, innamorato da sempre di Leonora, ad interrompere le nozze, opponendosi al matrimonio. Adelasia sceglierà di morire per espiare il suo peccato e mantenere la pace faticosamente raggiunta.

 

 

 

 

 

 

 

 

Scena Prima

(Nella scena Prima tziu Raimundu Muliaches canta la sua aria. La scena appare essenziale. Due porte ai lati. Un tavolo e quattro sedie al centro. Una caraffa di vino e alcuni bicchieri adornano la tavola).

 

Po sa paxi

(Aria di Basso/Baritono)

 

Appu passau una vida intera

In gherra cun cussus de Nurri

E immui chi seu becciu

Bollu portai sa paxi

In su coru miu e po sa genti mia de Orroli

Alloddu,  bastasa cun sa disamistade

Bastasa de bardanasa e furas

Mostamos  Orrolesusu sa balentia

In su traballu e in sa paxi!

 

 

 

 

 

Scena Seconda

(Entra in scena tziu Bartolumeu  Fele)

 

Tziu Bartolumeu: ‘Eni nau, Raimundu! E po passai de su nau a su fatu c’hiad’ a  bolli una bella festa apaxiadora!

Tziu Raimundu: Po fai una bella festa bisongiada a bocciri unu vitellu grassu!

Tziu Bartolumeu: E su vitellu grassu si boccidi po is festas mannas!

Tziu Raimundu: E una coja esti  a casu una festa manna?!

Tziu Bartolumeu: Deu no tengiu fillus mascus pero tengiu una vitella de latti abilli a fai  cuntentu d’ognia mascu.

Tziu Raimundu: Su fillu mascu du tengiu deu.

Tziu Bartolumeu: Filla mia si tzerriada Leonora.

Tziu Raimundu: E fillu meu si tzerriada Iroxi.

Tziu Bartolumeu: E intzaras  buffaus a sa coja de Iroxi cun Leonora.

Tziu Raimundu (riempiendo due bicchieri di vino): A sa coja e a s’amistade!

Tziu Bartolumeu: (levando il suo bicchiere): Prosit!

(Si concorda il loro matrimonio)

 

 

 

Scena Terza

(La scenografia è l’arricchimento di quella precedente. Prima entreranno  in scena la padrona di casa Maria, accompagnata da   Chircantoni che allungherà il tavolo e porterà delle altre sedie; quindi entreranno in scena le cameriere Bruna e Mariangela che porteranno le vivande. Infine entreranno in scena gli altri invitati, tutti della famiglia Muliaches)

Maria Piras (consegnando a ciascun bambino un cavallino di formaggio fresco): Pappai  e buffai  picciocchedus! Tottu a manu teneis  casu e pani in cantitadi. E is mannus buffinti su binu e pappinti sa petza! A sa salude!

Tziu Raimundu (levandosi in piedi): A sa saludi de Iroxi nostru e de sa paxi!

Tutti gli adulti presenti si levano in piedi e gridano in coro: Prosit!

Tziu Raimundu: Iroxi, se’ prontu a patì  po s’ Assegurongiu?

Iroxi: Seu pronto a fai paxi. Si babbu miu d’hat ditzidiu esti cosa bona!

Chircantoni (in tono malizioso): E apustis t’had a  toccai  a incosciai a sa vitella Nurresa!

Tutti i presenti rideranno!

 

 

 

Tziu Raimundu (proponendo un altro brindisi): A sa vitella Nurresa!

Tutti i presenti risponderanno: Prosit!

Chircantoni (estraendo un coltello a serramanico molto elegante): O Iroxi, pro su cojuonzu ti ‘ollu arregalare custa fiammante leppa pattadina chi appo comporadu po tui a sa festa de Santa Caterina. Cun custa tui has a porri pintai cannugas po sa figu morisca e crocorigas po su binu e po sa bella Nurresa!

Iroxi (accettando il dono e consegnando una moneta): E deu da pigu, ti torru gratzias e ti donu unu scudu po sa malajana e su fatunzu!

Chircantoni (intascando la moneta): A moti is bruscias e is cogas!

Tutti i presenti grideranno: A moti!

Tziu Raimundu: E candu andausu  po su Cojuonzu, Chircantoni?!

Chircantoni: Heus fissau cun i’ Nurresusu  oy e totu, a s’intrìchinu!

Tziu Raimundu (guardando il suo orologio da tasca): Intzandusu  es mellus chi s’incammineus, nantis chi iscurighidi!

Maria (levandosi in piedi rivolta alle donne): E nosu sparicciausu  sa mesa!

 

 

 

(Calano le luci, gli uomini escono e le donne faranno sparire vivande e arredi. Gli uomini usciranno a sinistra e le donne a destra; con le luci abbassate una parte delle stesse donne, prima di uscire, allestiranno la scenografia per la Quarta scena che rappresenta il salotto dei Fele; i Muliaches, tuttavia, rientrando da destra, troveranno uno schermo di legno dietro il quale si celano  la scenografia e  Tziu Bartolumeu Fele con Chircantoni Bonu che riceveranno gli Orrolesi in viaggio).

 

 

 

sabato 17 maggio 2025

Com'è cambiato il matrimonio nel tempo


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Che il matrimonio sia in crisi, non ci sono dubbi. E non mi riferisco soltanto al rito religioso, che pure ha radici profonde e lontane, tanto che esso viene menzionato nel Pentateuco e nel Vangelo (il primo miracolo che Gesù ha operato fu a Cana, durante i festeggiamenti di un matrimonio).

Non basta dire che il matrimonio è diventato troppo caro per molte coppie, anche se in effetti, un costo minimo di venticinquemila euro per un centinaio di invitati, è suscettibile di scoraggiare anche le coppie più innamorate, in un momento in cui la crisi si fa sentire in ampie fasce della popolazione italiana. Infatti sarebbe sufficiente restituire al vincolo religioso la sua reale importanza e rinviare i festeggiamenti civili a un altro momento.

Una fetta di responsabilità ce l’ha certamente il fenomeno della disaffezione ai valori religiosi in generale e cattolici in particolare, che si è andato affermando nell’ultimo quarantennio.

Ma io credo che la ragione principale sia da ricercare nel cambiamento di mentalità e di costume che ha riguardato il ruolo della donna nella società contemporanea.

Mi sembra ieri, anche se in realtà sono passati almeno quarant’anni, da quando un amico che aveva girato il mondo in lungo e in largo mi disse in termini perentori e senza tema di essere smentito:

Tutte le donne hanno in testa sempre e soltanto una cosa: il matrimonio. Puoi girare dove vuoi: in Asia, nelle tribù dell’Africa, nelle isole del Pacifico, in Europa e perfino in America tra gli Indiani, ma la donna ha sempre quel chiodo fisso in testa: sposarsi e solo sposarsi. Tutto il resto non conta.

Da ragazzo sentivo parlare, spesso e con paura, se non con terrore, di donne incantatrici e fattucchiere, capaci perfino di dotarsi di pozioni magiche pur di fare crollare ai loro piedi gli uomini desiderati, costringendoli al matrimonio.

Il matrimonio, al di là delle paure di maschi immaturi e impreparati, era comunque un traguardo. I genitori raccomandavano alle ragazze di non cedere alle voglie dei maschi, se prima essi non si fossero presentati davanti al prete (e ancor prima davanti al sindaco) per pronunciare il fatidico .

E quando accadeva che taluna restasse incinta al di fuori del matrimonio, le si scatenava contro tutto un mondo di benpensanti, pronti a criticarla per avere ceduto le proprie grazie, e a condannarle al nubilato perpetuo, bollata come una donna persa, una ragazza madre.

E la Rosina di Rossini, a prescindere dal matrimonio, non canta in una delle sue arie più note “… e mille trappole, farò giocar, prima di cedere…?”

Insomma per una ragazza di rispetto occorreva, quantomeno, farsi desiderare a lungo e cedere, le proprie virtù nascoste, soltanto dopo il matrimonio.

Ma qualcosa è cambiata di sicuro, se è vero come è vero che molte donne adesso, tanto più se incinte, rifiutano il matrimonio e addirittura lo stesso riconoscimento del nascituro da parte del padre, preferendo dichiarare all’anagrafe che si tratta di un figlio di padre sconosciuto, piuttosto che ritrovarsi a condividere una genitorialità con un uomo di cui si è persa la stima.

Il mio fratello maggiore, la buonanima, si crucciava su questi episodi e non si dava pace, non riuscendo a capire come fosse possibile che certe ragazze dal viso d’angelo, giacessero, perfino al di fuori del matrimonio, con dei brutti ceffi dalla faccia patibolare e magari anche con un passato da delinquenti. E mio padre ancora prima, sosteneva che se fosse nato donna sarebbe morto vergine, perché mai si sarebbe accostato carnalmente a un uomo.

È uno dei tanti misteri dell’attrazione fisica, inspiegabile come l’amore che attrae uomini e donne, talvolta tanto diversi, al punto che dopo avere concepito un figlio, la donna preferisce separarsi dal padre del bimbo che porta in grembo, ancor prima che la sua creatura veda la luce (anche se in passato, erano gli uomini e spesso volentieri, a scappare di fronte a una gravidanza indesiderata della propria fidanzata).

A parte l'irrisolta questione di cosa sia veramente l'amore, devo confessare che, agli occhi di un settantenne come me, queste donne costituiscono una novità di carattere eccezionale.

E pensare che soltanto sessant’anni fa il matrimonio aveva la forza sociale di estinguere addirittura due reati gravissimi come il sequestro e lo stupro. Si pensi alla nota vicenda di Franca Viola che venne rapita da un sedicente innamorato respinto.

Franca era figlia di una coppia di coltivatori diretti e, all'età di quindici anni, con il consenso dei genitori si fidanzò con un certo Filippo, un picciotto, membro di una famiglia benestante. Tuttavia in quel periodo il fidanzato di Franca venne arrestato per furto e appartenenza a una banda mafiosa e ciò indusse, a torto o a ragione, il padre di Franca, Bernardo Viola, a rompere il fidanzamento.

Franca venne rapita e violentata selvaggiamente. Il padre della ragazza fu contattato dai parenti dello stupratore per la cosiddetta paciata, ovvero per un incontro volto a mettere le famiglie davanti al fatto compiuto e far accettare ai genitori di Franca le nozze dei due giovani.

Ma qualcosa stava già cambiando nei costumi e ciò che aveva funzionato per secoli adesso stava per fallire miseramente. Il padre e la madre di Franca, d'accordo con la polizia, finsero di accettare le nozze riparatrici, ma dopo poco tempo la polizia fece irruzione nell'abitazione, liberando Franca e arrestando il sequestratore aspirante marito.

Secondo la morale del tempo, una ragazza uscita da una simile vicenda, avrebbe dovuto necessariamente sposare il suo stupratore, salvando il suo onore e quello familiare. Si pensi che all’epoca l’articolo 544 del codice penale, recitava:

Per i delitti di violenza carnale, il matrimonio, che l'autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali.

Era questo il famigerato istituto del matrimonio riparatore che ammetteva la possibilità di estinguere il reato di violenza carnale, anche ai danni di minorenne, qualora fosse stato seguito dal cosiddetto matrimonio riparatore, contratto tra l'accusato e la persona offesa; la violenza sessuale era considerata oltraggio alla morale e non reato contro la persona.

Incredibili e bellissime le parole di Franca Viola:

Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce.

Penso che il nuovo atteggiamento che si è andato affermando negli ultimi decenni sia legato alla emancipazione della donna. Da notare che anche la legge numero 66 del 15 febbraio 1996 meglio nota come “legge contro la violenza sessuale” è sintomatica di questo movimento culturale, avente come obiettivo l’emancipazione femminile.

La legge 66/96, che ha spostato nel codice penale, i reati legati alla violenza carnale dalla sezione dedicata ai reati contro la moralità pubblica, a quella dei reati contro la persona, è stata innanzitutto espressione della rivoluzione culturale e sociale riguardante la sessualità della donna nella società moderna. Non a caso questo intervento di riordino è stato sostenuto non solo da tutte le forze politiche del tempo ma anche da rilevanti e qualificati movimenti culturali e in primis da quelli cc.dd. femministi.

Io ho potuto verificare quanto sia autentico e profondo questo cambiamento di costume, anche da un punto di vista professionale.

Numerose donne si sono rivolte a me, negli ultimi decenni del secolo scorso, per chiedermi assistenza professionale contro i padri dei loro figli che si erano rifiutati di sposare, ma dai quali pretendevano, giustamente, l’assolvimento dei doveri economici di assistenza genitoriali.

Più di recente, in un mutato e più coraggioso atteggiamento di sfida, le istanze delle donne avevano come obiettivo principale quello di respingere i tentativi di certi uomini di riconoscere dei figli di cui le madri, loro ex compagne, si rifiutavano di dichiarare la paternità.

Voglio concludere questa mia disamina sull’evoluzione del matrimonio con un aneddoto leggero e spero simpatico. Quando negli anni ottanta del secolo scorso allestii una mia trasposizione teatrale de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni con i miei studenti, mi posi il problema del personaggio di Lucia.

Nella mia trasposizione teatrale del capolavoro manzoniano avevo lasciato inalterati tutti i personaggi: il pavido don Abbondio, il sanguigno e focoso Lorenzo, lo spaccone e arrogante don Rodrigo con i suoi bravi, da me trasformati in spacciatori di droga senza scrupoli; anche la peste, sotto forma di HIV avevo lasciato in campo. Ma su Lucia mi vennero i dubbi: potevo lasciare un personaggio così attaccato al matrimonio? Chi era, negli anni ottanta del secolo appena scorso, che tra le giovani donne potesse ancora pretendere di opporre un diniego ai rapporti sessuali, per mancanza del vincolo matrimoniale?

Allora decisi di fare un sondaggio. Tutti i miei studenti conoscevano il romanzo e io chiesi loro come dovessi disegnare il personaggio di Lucia, se avesse cioè un senso lasciare la sua incrollabile fedeltà al vincolo matrimoniale e la difesa della sua verginità prima del matrimonio. Una ragazza dell’ultimo banco alzò la mano per chiedere la parola e disse, letteralmente:

Ma quale matrimonio prof! Io lo voglio provare prima. Se poi non gli funziona, col cavolo che io me lo sposo!

Tutti risero della battuta. Ma la migliore della classe, una certa Linda, chiese a sua volta la parola per dirmi:

Professore, io ero fidanzata con un ragazzo, poco tempo fa, e mi diceva che se io non fossi andata a letto con lui, si sarebbe cercato un’altra ragazza. Io non mi sentivo pronta per avere dei rapporti completi. Non l’ho fatto per la Chiesa. Io non sono neppure una cattolica frequentante. Il l’ho fatto per la mia dignità di donna. Non mi sentivo pronta e sarei andata a letto con lui ma soltanto con il tempo. Ecco, avevo bisogno di tempo. Ho preferito dirgli di andare pure a cercarsi un’altra donna se era soltanto questo ciò che voleva.

Dopo questa testimonianza decisi di mantenere il personaggio tale e quale che nell’originale.

Certi personaggi letterari sono davvero immortali.

giovedì 15 maggio 2025

Memorie di scuola

 

 


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Premessa

Alzi la mano chi non ricorda con gioia un suo ultimo giorno di scuola! Magari soltanto uno particolare, alle elementari, alle scuole medie inferiori oppure alle superiori, che si chiudevano con il famigerato, temuto esame di maturità (oggi si chiama esame di stato, ma sempre quello è)! Come studente io ne ricordo diversi. Tutti sono ammantati da un velo di malinconia. In fondo a scuola ci stavo bene. I maestri (ma un anno ho avuto anche una maestra, in quarta elementare, si chiamava maestra Soro) mi volevano bene.

 In seconda media ho cambiato tre scuole; il mio anno si concluse in una scuola siciliana; il mio compagno di banco, un ragazzone di nome Armando figlio di emigrati rientrati dall’Argentina, si sorprese nel vedere nei tabelloni, non tanto il suo nome tra i bocciati, quanto piuttosto il mio tra i promossi.

Ci avevano sistemato all’ultimo banco: io dalla Sardegna, lui dall’Argentina; in qualche modo eravamo entrambi di ritorno: io, figlio di un siciliano nostalgico, lui figlio di siciliani forse stanchi di parlare castigliano in quelle sterminate pampas sudamericane.

A quel tempo recuperi e svantaggi non erano presi in considerazione. Chi seguiva bene, chi non seguiva veniva bocciato. Ma io ero troppo orgoglioso per farmi bocciare. Avevo le mie mosse segrete, i miei guizzi, le mie intuizioni, il mio spirito di sopravvivenza che mi guidava, a scuola, come fuori;

per i miei compagni siciliani ero u sardignolu” anche se portavo un cognome siciliano; e il mio accento ed il mio orgoglio erano palesemente sardi, pur se il mio DNA era avvolto anche in spire normanne, o forse arabe, o chissà, persino spagnole o napoletane. Non credo faccia molta differenza sul piano biologico.

Mi rendo conto di aver divagato, sulle ali della memoria; forse sto invecchiando.

Quest’anno sto per restituire il mio trentunesimo registro del professore (più o meno; il conto preciso degli anni di insegnamento preferisco farlo in prossimità della pensione; traguardo che la riforma Fornero, sembra avere spostato irrimediabilmente in avanti; staremo a vedere).

Certamente rilevo una fondamentale differenza tra l’ultimo giorno di scuola da studente e quello da insegnante.

Nel primo caso, come dicevo, prevaleva la malinconia, lo smarrimento, la prospettiva dei giorni estivi, lunghi e solitari (ma perché da adolescenti non si capisce il grande valore del tempo? Naturalmente sto parlando solo per me); l’ultimo giorno di scuola da insegnante, insieme ad un senso di liberazione dalla fatica dell’orario di cattedra, fatto di spiegazioni ed interrogazioni che si susseguono in un turbine di eventi, ha anche il sapore degli scrutini e degli esami di maturità. E l’estate, adesso, dura troppo poco.


 

Capitolo Primo

1.
Le Elementari
Anno scolastico 1960-1961

I miei ricordi di scuola più lontani son legati a cinque colori. Il primo fiocco, quello della prima elementare, nell’anno scolastico 1960-61, era di colore rosa. Ricordo anche un grembiule nero con le tasche; dei quaderni dalla copertina nera; un banco di legno a due posti, con il piano inclinato, troppo alto per la maggior parte di noi. In cima al banco, sul bordo superiore, una scanalatura ospitava, per ogni scolaro, la stilo e un foro dal diametro di circa cinque centimetri dove alloggiava il calamaio con l’inchiostro nero.All’estremità inferiore della stilo un foro serviva per fissarvi il pennino. Si intingeva il pennino nel calamaio e si facevano delle pagine di aste, di quadrotti e di circoletti; per giornate intere; in classe e a casa; quaderni interi di aste, cerchietti e quadrotti; poi si passava alle lettere dell’alfabeto: vocali e consonanti; maiuscole e minuscole, quaderni interi: in classe e a casa.

 L’ultimo foglio del quaderno riportava le tabelline: occorreva mandarle giù a memoria; in classe e a casa: quella del 2, poi quella del 3, quella del 4 e così via. Il mio maestro della prima elementare si chiamava Giorgio Maxia. Era figlio di ricchi possidenti: lui e suo fratello avevano studiato entrambi ed erano divenuti insegnanti grazie al diploma quadriennale delle Scuole Magistrali.  Le loro terre le lavoravano i mezzadri (poco più di vent’anni dopo, nel 1982, la legge De Marzi-Cipolla avrebbe abolito quell’istituto giuridico così atavico e forse troppo punitivo per i braccianti senza terra e senza lavoro. Ma a quel tempo io certe cose non le pensavo nemmeno).

...continua...

venerdì 2 maggio 2025

Menzione Speciale per la mia silloge "Viaggiando nel Cosmo"

 



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Ma tu continua a cantare

 

Legami, novello Ulisse,

ch’io non scappi

incontro alla morte

udendo il suo canto!

Legami, Signore!

Ma tu continua a cantare!

Non son tue le colpe

per i lidi che bramo

per gli occhi che cerco

per i fremiti dell’animo inquieto!

Io ti prego: tu continua a cantare.

martedì 1 aprile 2025

Delitto al Quadrivio

 


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Capitolo Secondo

Come ogni mattina, anche quel lunedì, il commissario Santiago De Candia, lungo il percorso che da casa sua, in via Monteverdi, lo conduceva alla Questura, fece una breve sosta all’edicola di Largo Gennari.

Checco gli allungò subito i due soliti quotidiani, piegati in quattro: La Stampa e L’Opinione. Come tanti cagliaritani, chiamava il quotidiano cittadino “l’Opignone”; il commissario, nonostante fosse nato  in Sardegna, non aveva ancora  capito se si trattasse di un difetto  di pronuncia oppure di un vezzo.

La seconda sosta, più lunga, era quella al Bar di Tonio, il Caffè Intilimani, come recitava l’insegna, unendo in una sola locuzione il nome composto di un famoso gruppo musicale cileno degli anni ’70 da cui, verosimilmente , il fondatore del locale aveva preso ispirazione.

Seduto al suo solito tavolino, in fondo al locale, mentre provava a sorseggiare  il suo cappuccino bollente e senza schiuma, aveva aperto l’Opinione. A prescindere dal nome, il quotidiano regionale si faceva apprezzare soltanto per la sua cronaca (per le opinioni, quelle vere, lui preferiva la Stampa di Torino, sulla quale si era orientato dopo tanti anni passati a formarsi sulla Repubblica).

 A tutta pagina vi era la notizia dell’omicidio del Quadrivio. Santiago De Candia si immerse nella lettura del lungo articolo, dimenticando per un po’ il suo cappuccino.

La vittima era una violinista rumena, appena in pensione, che aveva suonato nell’orchestra del Teatro dell’Opera di Cagliari. Era giunta in Italia nella seconda metà degli anni settanta  e come altri musicisti rumeni di notevole spessore artistico, era stata inserita nella sezione degli archi dell’importante filarmonica cittadina.

Era conosciuta e  stimata in città anche come  insegnante privata di violino.

Le efficienti unità del Nucleo Radio Mobile di Cagliari, coordinate dal procuratore aggiunto dott. Bartolomeo Gessa, avevano chiuso le indagini a tempo di record, risolvendo brillantemente il caso, assicurando alla giustizia l’assassino.

Si trattava di una vecchia conoscenza della procura, condannato per rapina a mano armata alla fine degli  anni ottanta. La rapida soluzione del caso, oltre che alle grandi abilità investigative del procuratore aggiunto, era merito della prodigiosa memoria fotografica  del maresciallo Camboni  del Nucleo Radio Mobile che, intervenuto sul luogo del delitto, aveva riconosciuto, mentre fingeva di passeggiare in spiaggia col suo cane, una sua vecchia conoscenza, un  pregiudicato da lui assicurato alla giustizia molti anni prima,  quando  era stato condannato per rapina proprio grazie alla testimonianza della vittima. Il  neo omicida era stato smascherato proprio dalla povera violinista, in occasione della rapina che  aveva commesso ai danni del botteghino del Teatro dell’Opera. Ed ora, dopo essere stato scarcerato per buona condotta, dopo un periodo di riabilitazione,  aveva potuto consumare finalmente la sua vendetta.

Tra le righe, anche se non c’era scritto, il commissario lesse la critica dell’articolista alla giustizia riabilitativa, troppo tenera con certi  delinquenti, irrimediabilmente votati a delinquere. E ancora una  volta, a pagare,  era stata  una vittima inerme e incolpevole.   Intanto il suo cappuccino era diventato troppo tiepido per i suoi gusti, quasi freddo.

La bevanda gli lasciò in bocca un sapore sgradevole, e una sensazione di disagio che il commissario provava ogni qualvolta si imbatteva in una storia poco convincente. Più che il cappuccino freddo era il suo istinto di sbirro che gli procurava questo effetto sgradevole.

Con quella sensazione di disagio, dopo aver pagato e salutato il barista, il commissario concluse  il tragitto  verso l’ edificio  che ospitava gli uffici della Questura,  il cui ingresso, nello spiazzo in cui sfociava  quel primo tratto della via Tuveri, si apriva quasi a guardia del retro del Palazzo di Giustizia, dove ogni giorno si consumavano gli strenui tentativi di rimediare,  con strumenti spesso inadeguati, ma con una certa buona volontà e qualche rara perla di saggezza giuridica, alle ingiustizie dell’umanità, cercando  di portare qualche sollievo e un po’ di ristoro anche in quell’angolo di mondo dilaniato da faide fratricide e da vendette oscure.