giovedì 9 ottobre 2025

Delitto al quadrivio

 


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Capitolo Sesto

Il lunedì successivo all’omicidio l’Opinione riprendeva e rilanciava la notizia a tutta pagina. Il titolo annunciava che i segni dello strangolamento erano compatibili con l’utilizzo di un cappio o di una cordicella. Ma il titolo, come al solito, non rispecchiava il contenuto del pezzo.

Il commissario De Candia apprese infatti, mentre tentava di sorseggiare il suo cappuccino bollente nel solito Bar da Tonio, che in seguito all’autopsia era stato asseverato che nei polmoni della vittima non erano state rinvenute tracce di iodio. Indi per cui l’omicidio non era stato commesso nel luogo di ritrovamento del cadavere ma, come evidenziato dall’avvocato Luisa Levi nel ricorso al Tribunale della Libertà, in altro loco. Dal luogo di effettiva consumazione del delitto, continuava il ragionamento del difensore nel ricorso, il cadavere era stato trasportato e abbandonato in un tratto di spiaggia nei pressi dell’ex Ristorante-Pizzeria Il Quadrivio.

La vera notizia era che veniva a cadere tutto l’apparato accusatorio della Procura, che si basava sull’incontro casuale tra vittima e assassino, avvenuto sul lungomare del Poetto e sul diverbio che, scoppiato tra i due, aveva spinto l’assassino all’efferato omicidio.

Anche i tempi del ritrovamento del corpo apparivano incompatibili e contraddetti dalla ricostruzione dell’omicidio fatta dalla Procura. Il ritrovamento del corpo era stato fatto alle 22,30. Ma verso le due del mattino il rigor mortis era quasi terminato e quindi dovevano essere trascorse almeno dieci ore dalla morte. Dove era rimasto in quelle sette ore il corpo della povera vittima? A che ora era giunto sul lungomare e come? Tutte domande ancora senza risposte, era l’incalzante finale dell’articolista, che aveva fatto in fretta a scendere dal carro della Procura e salire su quello della Difesa.

In un’intervista, nelle pagine interne, l’avvocato Levi spiegava che sin da subito aveva ritenuto inverosimile la ricostruzione operata dagli inquirenti.

Infatti, spiegava il legale, la vittima indossava un abito elegante e delle scarpe a tacco alto, senza scialle o giacca al seguito. Nella borsetta non erano state rinvenute né le chiavi di casa, né le chiavi della macchina. Ora, chiosava il legale con logica incalzante, come era possibile che il presunto assassino che, non dimentichiamolo, era stato fermato nell’immediatezza del ritrovamento, proprio mentre si svolgevano le operazioni peritali sul cadavere, non avesse con sé neanche un oggetto della vittima? E come mai nella borsetta vi erano invece il portafoglio, con dei contanti, le carte di credito e altri oggetti di valore? La risposta logica era che il delitto doveva per forza essere stato commesso da un’altra parte e non nel luogo del ritrovamento. Per questi ed altri motivi il Tribunale della Libertà aveva ordinato l’immediata scarcerazione dell’indiziato.

Elegantemente il legale non aveva fatto cenno agli evidenti svarioni dei cosiddetti inquirenti.

L’Opinione, dal suo canto, si limitava a lodare l’avvocato difensore del presunto assassino (mai come ora valeva per lui la presunzione di innocenza) senza ritornare sull’operato degli inquirenti (che avevano portato all’ingiusto arresto di un innocente) a suo tempo lodati come tempestivi e brillanti.

Al suo arrivo in Questura il Commissario si accinse a riesaminare tutti i fascicoli di omicidio che giacevano sulla sua scrivania (morti ingiuste, anch’esse, ma che meno risalto avevano trovato nella cronaca), ormai comunque ampiamente istruiti: il transessuale ucciso a Giorgino; il corpo dagli arti mancanti restituito dal mare; i due pastori uccisi nelle campagne di Dolianova; la farmacista uccisa in casa; la prostituta accoltellata in viale Po e il matricida tossicodipendente. Erano soltanto alcuni “dei casi di omicidio che avrebbero costituito oggetto di esame della riunione settimanale del suo team che comprendeva, oltre a lui, il sovrintendente Farci e l’ispettore Zuddas.

In previsione del periodico incontro, voleva capire quali altri atti essi necessitassero e stava studiandoci sopra quando proprio Zuddas irruppe nel suo ufficio, dopo una bussatina veloce che soltanto i suoi più stretti collaboratori, nelle occasioni informali, potevano permettersi. L’ispettore Zuddas aveva in mano un foglio con tutta l’aria di un fax fresco di ricezione.

-        «Notizia bomba, commissario!» esclamò l’ispettore brandendo proprio il foglio di carta lucida.

«Di che si tratta, Zuddas?» disse il commissario senza scomporsi, sollevando appena lo sguardo dalle sue carte – “Accomodati pure!”

-        «La Procura Generale ha inviato la delega per le indagini del delitto del Quadrivio!» disse Zuddas di un fiato, sedendosi di fronte al commissario e porgendogli il foglio appena faxato dalla Procura.

Il commissario diede uno sguardo al foglio e poi si accese una sigaretta offrendo il pacchetto al suo sottoposto.

-        «Non mi tenti, commissario! Oggi è il mio trentesimo giorno di astinenza!»

-        «Ah già, è vero! Scusami Zuddas, mi ero scordato che hai deciso di smettere…»

-        «Per ora, commissario!» – disse Zuddas che, per scaramanzia e per orgoglio (nel caso avesse ripreso a fumare controvoglia) non aveva fatto dichiarazioni eclatanti e ancor meno trionfanti sulla dismissione dell’odiato, ma anche amato, vizio del fumo.

-        «Hai capito il grande capo?» – disse il commissario riprendendosi il pacchetto con la mano libera- “Quando ci sono interviste e televisioni per millantare risoluzioni fantasiose è sempre in prima linea! Quando invece ci sono da consumare il fondo dei pantaloni e le suole delle scarpe, avanti Savoia!!!”

-        Arma capere, alios pro mittere ad bellum!” – interpose Zuddas, il quale aveva tutto un repertorio di massime latine, retaggio dei suoi passati studi classici, che citava regolarmente e non sempre a proposito!”

-        «Eh va beh!» – disse il commissario, levandosi in piedi, con un sospiro di rassegnazione- “era destino     che la nostra riunione settimanale la dovessimo fare su sette fascicoli e non su sei!”

-        «Ma questo mi sa che li vale tutti insieme o sbaglio?»

-        «Beh, a sentir certi giornali…!»

Così dicendo il commissario De Candia si avviò verso l’uscita.

-        «Se mi cercano sono a Palazzo dal procuratore!»

-        «Comandi, commissario!» rispose Zuddas con cortesia.

-        «Non torno in ufficio. Se hai urgenza, chiamami al cellulare».

-        «D’accordo commissario. La chiamo solo se è necessario, dato che io resto qui sino a fine turno!»

-        «Ah, fammi il favore! Dai uno sguardo a quei sei fascicoli e poi sistemali in un faldone per la riunione settimanale!»

-        «Ci conti commissario!»

-        «Grazie Zuddas! E avvisa anche Farci delle novità, ricordandogli della riunione! E per domani giusto!?»

-        «Giustissimo commissario! Proprio domani!»

-        «A presto allora! Domani ti faccio sapere del mio incontro di oggi in Procura!» – aggiunse De Candia infine lasciando l’ufficio.

-        «A domani commissario! E cave canem

 

 

 

 

 

giovedì 2 ottobre 2025

Delitto al Quadrivio

 


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Capitolo Quinto


La notizia del delitto del Quadrivio campeggiava ancora in prima pagina nei quotidiani regionali.

L’Opinione, pur di tenere desta l’attenzione dei lettori su quello che era divenuto ormai l’efferato delitto del Poetto, rimestava ancora la stessa notizia, arricchendola con nuovi particolari sulle personalità della vittima e del carnefice, definito anche mostro, assassino, omicida, ancorché sempre presunto (ma la presunzione veniva sempre messa tra parentesi, pro forma, dato che l’articolista faceva trasparire che l’indiziato fosse senza dubbio l’autore del reato).

«Minestra riscaldata» – pensò il Commissario De Candia dopo aver letto l’articolo di Chiara Coseno, capo redattrice della cronaca nera dell’Opinione.

Di nuovo, se così si può dire, c’era la notizia che l’interrogatorio di garanzia era previsto per la mattinata di mercoledì, che l’indagato si sarebbe avvalso , probabilmente , della facoltà di non rispondere, che l’autopsia si sarebbe svolta sabato mattina e che l’arresto sarebbe stato senza dubbio convalidato (ma questa era un’illazione, sulla base del fatto che le prove apparivano schiaccianti).

La capo-redattrice chiudeva l’articolo preannunciando uno speciale per l’uscita di giovedì, che conteneva un’intervista a Emanuela Olivares, della SelenTVSAT, conduttrice del fortunato spettacolo “Colpevole o Innocente?”, un programma che, ad imitazione delle TV Nazionali, celebrava i processi in parallelo coi Tribunali, appassionando il pubblico, diviso in due fazioni, entrambe convintissime, sulla base di mere sensazioni personali, sganciate da ogni riflessione razionale e giuridica, della fondatezza della propria teoria.

Il commissario De Candia detestava quel genere di programmi, forse perché di fascicoli di omicidio, caldi, caldi, ne aveva ben sei sulla sua scrivania (senza contare quelli tiepidi e quelli ormai freddi).

O forse detestava certe televisioni tout court.

«Certo i processi in TV erano di più facile soluzione!» – mormorò tra sé il commissario De Candia osservando i fascicoli impilati sul ripiano della sua scrivania.

Il commissario De Candia non aveva fatto sempre parte della Squadra Omicidi. Nei primi anni settanta, appena entrato nella Polizia di Stato, fresco vincitore di concorso, era stato inserito nella Buon Costume.

Poi, stanco di avere a che fare con prostitute e magnaccia, aveva chiesto di essere trasferito. I suoi superiori gli avevano parlato di un programma particolare dove, con opportuni accorgimenti, si sarebbe potuto inserire.

Così si era trasferito alla Scuola Sperimentale della Polizia di Stato di Trieste, un nome ordinario che nascondeva dei programmi avvolti nella massima riservatezza, dietro un’apparenza accademica quasi banale. E lì era avvenuta la sua trasformazione, fisica e psicologica.

Per essere un agente sotto copertura, gli fu spiegato, occorreva innanzitutto cambiare modus operandi, per acquisire nuovi abiti mentali. E per smaltire la puzza di sbirro, gli dissero in un gergo nuovo e ufficioso, occorreva cambiare d’aspetto.

Dopo alcuni test attitudinali fu scelto come agente sotto copertura della Sezione Narcotici. Gli insegnarono un nuovo modo di abbigliarsi e gli suggerirono di farsi crescere barba e capelli. L’opera di trasformazione fisica fu completata con un piccolo orecchino d’oro a cerchio piantato nel lobo sinistro (quella fu la parte più dolorosa della sua mutazione fisica).

Non fu difficile per lui apprendere il gergo del mondo delle sostanze stupefacenti prima in lingua italiana e poi in lingua spagnola (abbastanza facile per lui che aveva un’ascendente in linea retta di madre lingua) e infine in lingua inglese (dove eccelleva per studio e per passione).

E dopo un intenso periodo di studio teorico e un rapido corso di pratica fu pronto per infiltrarsi negli ambienti romani dove si consumava e si spacciava, soprattutto marihuana e hashish.

Da lì, piano, piano, riuscì ad infiltrarsi in alcuni grossi giri dello spaccio internazionale prima a Londra e poi a Panama e in Colombia.

Nonostante la sua meticolosa preparazione, dopo qualche anno quella vita sregolata e così diversa dalle sue abitudini e dai suoi costumi, lo logorò al punto che chiese di essere esonerato e di tornare alle sue mansioni ordinarie, nei ranghi ufficiali del servizio di pubblica sicurezza.

Era arrivato al punto di non ricordare più quando e perché fosse iniziata quella sua nuova vita. E si chiedeva con angoscia se lui fosse quello che era prima oppure se la sua nuova personalità avesse definitivamente preso il sopravvento sulla prima e originaria di poliziotto formale e regolare.

In ogni caso doveva ricollegarsi a ciò che era stato, prima di perdersi completamente nei meandri di quelle esperienze fuori dall’ordinario che lo avevano indotto a percepire il mondo in maniera totalmente differente da prima.

Fu più faticoso di quanto avesse immaginato riabituarsi a quella vita di routine e fare a meno del fumo, con cui aveva convissuto, travolto dal vortice della sua immedesimazione di copertura.

Per fortuna che i suoi istruttori gli avevano precisato che in quell’ambiente, non tutti gli spacciatori erano per forza dei consumatori, soprattutto con riguardo alle droghe definite pesanti, anche se tutti o quasi erano quantomeno dei fumatori. E anche se gli avevano descritto gli effetti del fumo e come simularli, fingendo di inalare e di immagazzinare nei polmoni il fumo, lui aveva finito per fumare sul serio, forse preso dalla curiosità, o per un falso senso del dovere o per una sorta di deformazione professionale. O magari per paura di essere scoperto.

Ecco, forse era stata proprio la paura a imporgli di smettere con quel lavoro sotto copertura. E non solo la paura di essere scoperto da quelli con cui si fingeva amico e complice ma che in realtà dovevano essere i suoi nemici.

E se verso gli spacciatori non provava dubbi né rimorsi nell’averli ingannati, al riguardo dei semplici consumatori che aveva dovuto frequentare per arrivare ai loro fornitori, aveva cominciato a sentirsi in colpa.

E così che era entrato in crisi sulla sua essenza più intima e profonda.

Chi era davvero? Chi era diventato? Come poteva continuare a fingere di essere ciò che non era? O era diventato davvero un’altra persona, diversa da prima che accettasse di infiltrarsi un quel mondo di allucinazioni e finzioni?

Ma ora era tutto finito. Si era ricollegato al suo mondo di prima e aveva riacquistato la sua serenità e la sua forza originarie, di quando era entrato in polizia seguendo le orme di suo padre e i suoi ideali di combattere per un mondo migliore, dalla parte del bene nella lotta eterna contro il male.

mercoledì 1 ottobre 2025

Memorie di scuola

 

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Quarta Elementare
Anno scolastico 1963-64



In quell’anno scolastico 1963-1964, insieme al fiocco azzurro della classe quarta, noi della classe di ferro 1954, inaugurammo anche l’edificio delle nuove scuole elementari di via Vitale Matta.

La nostra nuova maestra si chiamava signora Soro (il nome di Battesimo non lo ricordo). Era una bella signora, non più giovanissima ma molto tenera e materna.

I ricordi di quell’anno scolastico sono legati soprattutto a due episodi.

Mi era stata regalata una confezione di colori: ventiquattro matite nuove di zecca, dal bianco al nero, passando per le quattro tonalità di verde e di azzurro, oltre, naturalmente, al rosso, all’arancio, al giallo e così via enumerando.

Li avevo messi sul banco con orgoglio.

C’era in classe, tra i tanti, un certo Carmelo, anche se tutti lo chiamavano “Cramelleddu”.

Era un ragazzo, oggi lo intuisco, che di colori nuovi fiammanti come quelli, nella sua vita scolastica, forse non ne aveva mai visti; o magari sì; non saprei. Quel che so per certo che a un certo momento, dopo essermi distratto a far non so che, mi accorgo che Cramelleddu si è impossessato di una manciata dei miei colori e, sbeffeggiandomi sardonico, si diletta a tentare di colorare un suo foglio bianco, spuntandomeli alla grande, uno per uno. Scoppiai in lacrime, lamentandomi per il torto subìto. La maestra intervenne prontamente, facendo un sermoncino al mio compagno sul rispetto delle cose altrui e sulla necessità di chiedere il permesso al proprietario prima di utilizzarle.

Ho spesso ripensato a quell’episodio. Oggi mi vergogno di essere stato così egoista. Avrei dovuto gioire per il fatto che un mio compagno, sprovvisto del necessario, potesse divertirsi utilizzando i miei colori.

Caro, vecchio Cramelleddu, se per qualche miracolo della tecnologia informatica tu ti trovassi a leggere questo mio scritto, sappi che io, se potessi tornare indietro, ti regalerei la metà dei miei colori.

Naturalmente a condizione che tu poi me li prestassi, al bisogno, e che non sghignazzassi con quel simpatico sorriso da canaglia che, a turno, avevamo stampato in viso in quei lontani giorni, prima che il boom economico ci facesse dimenticare il valore di una camera d’aria usata, di una tavola di legno, di cuscinetti dismessi e perfino di un cerchione da bicicletta da spingere a rotta di collo con un corto bastone in mano. Il secondo episodio è legato a una bicicletta: quella che non ho mai avuto (ne ho avuta una da grande, ma questa è un’altra storia); quella che i miei amici del paese avevano quasi tutti (magari dei genitori, di un fratello maggiore, di un nonno oppure, alla peggio, una da donna, della sorella o della mamma); quella per la quale sacrificavo tutte le mie paghette, da cinquanta o da cento lire, consegnandole a mia mamma che mi aveva promesso di comprarmela e che alla fine spese i miei soldi per l’acquisto dell’abito della prima Comunione (che allora, potenza dell’ignoranza giovanile, mi sembrava assai meno importante dell’agognata bicicletta).

Insomma si è capito che desideravo una bicicletta.

In attesa che le mie paghette pervenissero all’ammontare necessario per l’acquisto, la sera, una volta sbrigati i doveri scolastici, mi affacciavo sull’uscio che dava sulla strada.

Se davanti al negozio, che allora era gestito da un mio fratello maggiore, notavo una bici appoggiata al marciapiedi, mi affacciavo con discrezione all’interno del negozio per capire che genere di contrattazione stesse svolgendo il cliente.

Se il proprietario (o la proprietaria) della bici stava al banco di vendita (e non al banchetto da orologiaio che stava poco discosto dall’ingresso, sulla sinistra) allora potevo azzardarmi a montare sulla bici e farmi un giro veloce prima che la transazione fosse conclusa.

Mi andò sempre liscia, fino a quando, una dannata sera, non incappai in una bici più alta e più difficile delle altre; altre volte ne avevo guidate di simili, infilando una delle mie corte gambe da adolescente nel triangolo interno del telaio, ma questa volta, sarà stata l’agitazione, la vetustà della bici, o la durezza della catena, fatto sta che feci una rovinosa caduta, fratturandomi il braccio destro.

Forse la frattura mi risparmiò le punizioni corporali, che allora conseguivano a simili, adolescenziali sciocchezze ma un mese di gesso non me lo risparmiò nessuno.

La mia ingloriosa carriera di ciclista in erba naufragò così, dal marciapiede del mio paese, all’ospedale Marino di Cagliari.

A immemore ricordo conservo la foto della Prima Comunione nel mio elegante abito nuovo di zecca e con gesso al braccio. E forse la mia punizione fu doppia: una per avere preso la bici di straforo; l’altra per non avere prestato i colori a Cramelleddu (che comunque li usò al posto mio per tutto per tutto il tempo che portai il gesso al braccio).

E oggi ho capito perché la mia cara madre non mi volle comprare più la bici; forse mi ha salvato da altre rovinose cadute, molto più pericolose di quella che ho raccontato.

Ah, se riuscissimo ad accettare di buon grado ciò che il Buon Dio ci manda, affidandoci a Lui, senza resisterGli (come io ho sempre fatto e tuttora faccio)! Molte cose che oggi ci sembrano brutte, forse ci apparirebbero da subito meno negative e drammatiche di come le viviamo invece, non accettandole come sconfitte e come parte dell’ineludibile porzione di sofferenze e contrarietà che la vita caina ci riserva un po’ a tutti.

E intanto i Mamas and Papas cantavano “California Dreaming”, Bob Dylan “Mr Tambourine

Man” e, in Italia, Celentano “La Festa”, Gianni Morandi “Non son degno di te” mentre Nini Rosso eseguiva il suo magico “Silenzio” alla tromba. Nei cinema spopolava “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone”.

lunedì 22 settembre 2025

Delitto al quadrivio

 

 


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Capitolo Terzo

 

Dopo avere recuperato un po’ del sonno perduto, una doccia refrigerante e una buona colazione l’avvocato Luisa Levi, vestita come si conviene a chi si accinga a simili visite, si trovava in viaggio sulla strada statale 130, diretta al nuovo Carcere Circondariale di Uta.

Anche se il  personale della Polizia Penitenziaria, che era lo stesso del vecchio carcere di Buon Cammino, ormai dismesso, la conosceva bene, dovette assoggettarsi  alla consueta routine cui erano sottoposti gli avvocati (ben più snella e meno estenuante di quella dei parenti): declinazione delle generalità del recluso  da assistere, consegna del badge di ammissione, cellulari e macchine fotografiche nel cassetto con chiave e consueta raccomandazione, ormai superflua, dopo anni di colloqui, di non lasciare penne o altri oggetti appuntiti ai carcerati (la penna, pur non essendo di per sé più pericolosa di tanti altri oggetti,  era però suscettibile di una banale dimenticanza rispetto ad altri oggetti pericolosi e di uso meno comune).

 

 

 

 

 

 

 

La sua attesa fu breve. Anche il suo cliente non doveva aver dormito a lungo, nella notte appena trascorsa.

Aveva infatti l’aria stanca di chi ha fatto le ore piccole e non ha avuto modo né di sbarbarsi né di cambiarsi d’abito.

Gino Garau era un uomo sui quarant’anni, di media statua e di complessione olivastra. Aveva ancora una folta e nera capigliatura riccia, dove si cominciava ad intravvedere  qualche spruzzatina di grigio. Teneva gli occhi bassi ma dava più l’impressione di un uomo rassegnato piuttosto che di un colpevole.

Prima di andare a letto, e dopo avere predisposto al computer il Modulo di Nomina, indispensabile per formalizzare la sua posizione di avvocato difensore di fiducia, l’avvocato Levi aveva fatto una ricerca negli archivi elettronici e sulle banche date a disposizione del suo studio e della rete, scoprendo che il suo assistito era stato condannato circa quindici anni prima a otto anni di reclusione per rapina a mano armata (ma ne aveva scontato soltanto sei , in ragione della sua ottima condotta) a danni della Biglietteria del Teatro dell’Opera Cagliaritano.

Obiettivo della rapina pareva essere stato l’incasso della Prima della Stagione Operistica.

 

 

 

 

 

 

Il Garau era stato inchiodato dalla testimonianza di una violinista che lo aveva riconosciuto nonostante il suo travisamento. A incastrarlo erano stati in particolare alcuni segni distintivi, confermati poi dall’ impiegata della  biglietteria, che la violinista aveva colto con insolita acutezza mentre, al momento dell’irruzione del malvivente, si trovava presso la biglietteria per ritirare due biglietti che aveva prenotato per certi suoi ospiti.

La violinista era stata colpita in particolare dal colore degli occhi del rapinatore, insolitamente diversi tra loro; uno  castano, l’altro verde, la malformazione del mignolo della mano sinistra e un tatuaggio sul polso della stessa mano, che si era evidenziato nel momento in cui il rapinatore aveva allungato la mano per prendere i soldi che la bigliettaia, con mano tremante, gli porgeva. In carcere Gino Garau aveva studiato e si era laureato in psicologia. Da molti anni lavorava come assistente nella Comunità “El Ziggurat”, un centro sociale che si occupava del recupero di tossicodipendenti, alcolisti ed ex carcerati. 

Il fondatore Don Costantino  Sanna, sacerdote e psicologo, era convinto che chiunque potesse essere restituito alla vita, anche se non tutti erano disposti a farsi recuperare.

 

 

 

 

 

 

Gino Garau era la dimostrazione lampante di come gli ideali di un prete sognatore potessero realizzarsi.

Dopo avere sottoscritto la sua nomina, trasformandola da difensore d’ufficio a difensore di fiducia, Gino Garau raccontò all’avvocato Levi la sua versione dei fatti. La sera prima si era recato al Poetto per la solita passeggiata notturna col suo cane, un pastore tedesco di nome Tex; a un certo punto si erano imbattuti in un cadavere, in un tratto di spiaggia a ridosso del vecchio Quadrivio, che lei sicuramente conosceva; aveva pensato che fosse il suo dovere chiamare il 112.

In seguito la sfortuna aveva voluto che ad accorrere per il sopralluogo fosse un certo maresciallo Camboni, lo stesso che una quindicina d’ anni prima, quando era ancora brigadiere, lo aveva arrestato per una vecchia storia, per la quale aveva già saldato il conto alla giustizia.

Lo stesso Camboni, riconosciutolo tra la folla di curiosi, lo aveva poi sottoposto a fermo, tramutatosi poi in arresto per volontà del procuratore della repubblica.

-        «Dottor Garau, mi dica la verità, senza offendersi per la domanda e considerando l’assoluto segreto professionale che mi vincola all’incarico che lei mi

 

 

 

 

 

 

 

-         ha appena conferito: è stato lei ad uccidere la signora Daniela Georgimirescu?»

-        « No, avvocato. Se lo avessi fatto non avrei mai chiamato la pula e meno che mai mi sarei trattenuto  in zona col mio cane.»

-        « Lei mi conferma quello che io ho già intuito. La ricostruzione fatta dalla Procura e dai Carabinieri non mi ha convinto molto sin dal primo momento e dopo aver parlato con lei mi convince anche meno!»

-        « La ringrazio avvocato. Comunque anche la ricostruzione fatta dal quotidiano ‘L’Opinione’ è alquanto fantasiosa.»

-        « Di quella non faccia alcun conto. Nel dibattimento, semmai ci arrivassimo, perché io conto di smontare anche prima questo castello di sabbia che hanno messo in piedi, gli articoli dell’Opinione contano quanto il due di picche, quando la briscola è a denari!»

Gino Garau si fece scappare un mezzo sorriso. Nessuno si aspettava che una donna conoscesse la briscola.

-         «Dov’è il suo cane adesso?» – gli chiese l’avvocato restando seria.

-        « Ho pregato i Carabinieri che lo portassero a Settimo San Pietro, nella Comunità ‘El Ziguratt’ e che lo affidassero a don Costantino. Io lavoro e vivo là da quando ho lasciato il carcere, l’altra volta».

L’avvocato notò una nota particolarmente dolente nella voce di Gino Garau.

 

 

 

 

 

 

 

-        «Contatti don Costantino appena possibile e si assicuri per favore che il mio Tex sia con lui. E lo rassicuri anche sulla mia buona fede e sulla mia innocenza. Lui e il mio cane sono tutto ciò mi rimane. In particolare don Costantino mi ha restituito la dignità, un lavoro e la voglia di vivere in un momento in cui ero davvero solo, senza più genitori, né affetti e senza più amici.»

-        «Non dubiti. Questo pomeriggio stesso, dopo che avrò finito i miei incombenti in Procura, mi recherò da lui. Ci rivedremo presto per l’interrogatorio di garanzia. Le suggerisco sin d’ora di avvalersi della facoltà di non rispondere, almeno sino a quando non si sarà svolta l’autopsia. Poi ne riparleremo e studieremo insieme la migliore strategia».

domenica 21 settembre 2025

Storia vera di un eroe garibaldino

 


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Capitolo Quarto

 

Luigia Stranio era la primogenita delle tre figlie che erano nate dal matrimonio di Sebastiano e Margherita Doria.

 

Forse non era la più bella ma sicuramente era la più intelligente, la più estroversa e la più pudica e osservante delle tre.

 

Ma non furono certo queste tre doti, che pur acquistarono un peso determinante in un secondo momento, a colpire di primo acchito Gaspare Nicolosi.

 

Il focoso e passionale siciliano, almeno inizialmente, era rimasto incantato dalla voce della ragazza, che aveva sentito cantare divinamente ad un ricevimento per i neo-promossi ufficiali del Regno, oltre che dalle sue forme rotonde e generose, che gli ricordavano tanto le donne della sua amata isola, pur nel contraltare del suo incarnato pallido e dei capelli biondi, che aggiungevano al suo fascino quel tocco di esostico nordismo a cui Gaspare Nicolosi, come qualsiasi altro siciliano, non seppe resistere.

 

Il resto lo fecero certamente quelle doti e complessivamente la personalità della più matura delle sorelle Stranio.

 

L’intelligenza di Luigia la portava ad ascoltare più che a chiacchierare; ed a Gaspare Nicolosi non dispiaceva affatto essere ascoltato, dato che essendo nato in una famiglia  numerosa, per di più cresciuta senza padre, tempo di ascoltarlo in casa sua non ce n’era mai stato abbastanza; la sua estroversione, d’altro canto, compensava il  carattere fondamentalmente introverso di Gaspare Nicolosi; e in quanto alla ferrea osservanza cattolica, che per Luigia Stranio non era un fatto di costume ma di autentica vocazione interiore, per Gaspare Nicolosi costituiva una sorta di recupero di quei valori che la sua prima educazione e soprattutto sua madre, gli avevano inculcato sin da piccolo, ma che lui, abbandonando la famiglia per seguire Garibaldi, aveva voluto deliberatamente e apertamente rinnegare.

 

Insomma i due giovani erano i classici opposti che però si attraevano a vicenda.

 

Ma Luigia, in particolare, non avrebbe mai scelto di accettare la corte del valoroso siciliano se le sue doti e le sue caratteristiche personali non le avessero ricordato la personalità di un cugino, Lionello, con il quale lei era cresciuto e che aveva voluto bene come ad un fratello; il quale cugino, unico dei tre figli di un suo zio paterno, aveva abbandonato carriera e agi borghesi, per seguire proprio Giuseppe Garibaldi sin dalle sue prime avventure libertarie e che Luigia, una volta venutogli a mancare, rivide nella personalità altrettanto avventurosa e leale del suo corteggiatore siciliano.

 

Anche se in effetti i due garibaldini non si incontrarono mai sui campi di battaglia e si conobbero soltanto in maniera superficiale quando Lionello aveva ormai i giorni contati.

 

Infatti mentre Gaspare Nicolosi si faceva onore nel modo che abbiamo già narrato, Lionello, nella stessa battaglia di Calatafimi, era stato ferito in modo serio, seppure apparentemente non gravissimo, e quindi insieme ad una trentina di altri feriti gravi aveva preso la via del rientro a casa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

venerdì 19 settembre 2025

Memorie di scuola




Terza Elementare

Anno Scolastico 1962-63



Dopo l’esperienza di Giorgino tornai al mio paese, dove mi aspettava il fiocco giallo della terza elementare.

Le nuove scuole elementari di via Matta non erano state ancora ultimate, per cui il Comune comunicò ai genitori che i propri figli avrebbero continuato a frequentare le scuole elementari nel vecchio Convento dei Cappuccini.

Tornai così nell’antico edificio seicentesco, secolarizzato con la legge del 29 maggio 1855, la prima di una serie di leggi con cui il Regno di Sardegna prima, e il Regno d’Italia poi, acquisirono l’ingente patrimonio ecclesiastico al patrimonio statale, nell’ambito di quel movimento politico ed economico teso a combattere la c.d. “manomorta”, ovvero l’accumulo delle proprietà immobiliari nelle mani degli ordini religiosi.

Il Convento era stato assegnato al Comune nel 1866, con l’obiettivo di adibirlo a scopi di natura pubblica.

Ci avrebbe pensato poi Mussolini, nel 1929, coi Patti Lateranensi, a risarcire la Chiesa per quelle espropriazioni, contribuendo così a costituire il primo nucleo di quella gestione finanziaria che grazie a uomini onesti e capaci come l’ing. Bernardino Nogara e ad ecclesiastici, non meno capaci, ma sicuramente meno onesti, come il cardinale Marcinkus, ha portato il Vaticano, ed il suo braccio finanziario, lo IOR, al vertice delle potenze finanziarie off shore, o paradisi fiscali che chiamar li si voglia, del mondo globalizzato.

Ma a quel tempo certe cose non si sapevano; e se qualcuno le sapeva non veniva certo a dirle a noi.

Insomma queste scuole si trovavano in uno dei quartieri storici del mio paese: su Guventu, che comprendeva, oltre alle strade attorno al vecchio convento dei Cappuccini, anche la via Cimitero, che univa il camposanto e la Piazza Chiesa, attraverso la via Roma.

L’altro quartiere storico era quello che si snodava attorno alle vie Siviller e alla via Baronale costruite attorno al Castello quattrocentesco dei Marchesi di Alagon e di Siviller, antichi feudatari del re Aragonese Martino, fiero avversario della giudicessa Eleonora d’Arborea, poi decaduti in epoca sabauda.

Infine c’era il mio quartiere, relativamente nuovo, ricompreso tra la Piazza del Municipio, la stazione ferroviaria e lo Zuccherificio (che allora produceva alla grande, dando lavoro a un sacco di gente, direttamente e indirettamente, con l’indotto, come si usa dire oggi).

Ognuno di questi quartieri aveva la sua banda di ragazzini. Quella de su Guventu era capeggiata da Mariano, un tipetto dalla fama da duro, che non permetteva ai ragazzini degli altri quartieri di entrare nel suo, senza buscarle di santa ragione.

Ricordo una sfida epica con lui e la sua banda, fatta di lanci di pietre (a mano libera e con la fionda, “su tirallasticu”, che noi stesso realizzavamo con una forcella di legno di fico a “Y”, due strisce di camera d’aria in disuso e una pezzetta di cuoio forata ai lati).

In testa porto ancora il ricordo di quella e di altre sfide: “is staffeddasa”, ovvero dei tagli visibili sulla cute, dovute all’impatto con i sassi taglienti.

A me toccava di stare in prima fila.

L’obbligo mi discendeva dal fatto che io ero stato prescelto come capo-banda. Non tutti, però, erano stati concordi nella scelta del capo; mi ricordo in particolare un caro amico di quei tempi andati: Rodolfo.

Avevamo la stessa età ma lui era più alto e robusto di me; quindi rivendicò per sé, non so dietro a quale altro pretesto, la leadership; mi sfidò apertamente un pomeriggio d’estate, levandosi la maglietta e mostrando la corazza di cuoio che gli copriva tutto il busto e che, a suo dire, lo rendeva invincibile e degno del comando. Più tardi mi confessò che si trattava di un busto ortopedico che gli era stato prescritto per risistemare non so bene quale sporgenza ossea; ma in quel momento credetti soltanto che si trattasse di un escamotage inventato per togliermi il bastone del comando faticosamente conquistato. Alla vista di quella corazza, che Rodolfo scoprì con un urlo di minacciosa sfida, tutti i componenti della banda ammutolirono di colpo; ma quando capirono che non intendevo cedere il comando senza lottare si disposero in cerchio attorno a noi; ci studiammo a lungo, con finte e occhiatacce di sfida.

...continua...