martedì 25 marzo 2025

I Thirsenoisin

 

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Capitolo 6

Aristea era rimasta davvero impressionata quando, al mattino, su invito del gran sacerdote Elki, aveva partecipato a una cerimonia propiziatoria al pozzo sacro di Turas, poco distante dalla reggia, nei pressi delle tombe dove riposavano, nel loro sonno eterno, gli antenati del villaggio.  Il rito era officiato per ingraziare agli dei il viaggio che Itzocar e il suo seguito avevano intrapreso il giorno prima per partecipare al raduno settennale delle tribù federate al santuario del villaggio nuragico di Gisserri.  Damasu era partito presto per degli affari e Rumisu era su, nei pascoli, a vigilare sulle innumerevoli greggi che appartenevano alla loro famiglia, le più numerose e profittevoli di tutte; quindi era toccato a lei e a sua madre Irisha partecipare in rappresentanza della famiglia reale.

«Tholoi, Dedaloia, Iaccu, Maimone, Dumuzu, Babai, Attis e Adone!», era stato l’incipit della giaculatoria che il gran sacerdote Elki aveva iniziato a recitare, scendendo i gradini delle scale che conducevano alla base del pozzo sacro, per deporre il contenuto del bacile con il sangue dei capretti offerti in sacrificio agli dei delle acque.

Solo il gran sacerdote poteva scendere quei sacri gradini, aveva sempre sentito dire Aristea. Mentre Elki scendeva, col suo incedere lento e solenne, Aristea aveva visto l’ombra del gran sacerdote, sdoppiarsi e capovolgersi, riflessa sull’acqua e sulla parete di fronte alle scale. Tutti i presenti avevano trattenuto il fiato a quella magica visione. Lei aveva indicato quell’eccezionale fenomeno a sua madre, che le stava a fianco; nella sua giovane ingenuità non aveva capito che tutti gli altri presenti, invece, in qualche modo, se l’aspettavano; forse l’avevano osservato altre volte; o magari ne avevano sentito parlare. Sua madre le fece un cenno impercettibile come per dirle di tacere e di osservare con attenzione. Ma il gesto, in realtà, voleva suggerirle di guardare e imparare.  Aristea poté sentire il rumore del sangue versato nell’acqua, prima che il gran sacerdote si chinasse per sciacquare il bacile, in maniera che niente andasse perduto. Con l’acqua che riportò su, asperse i presenti, cominciando da sua madre e da lei; tutti chinarono il capo per ricevere meglio quella benedizione. Elki continuava a recitare le sue misteriose giaculatorie, con una cantilena che quasi rapiva in estasi l’animo turbato di Aristea.  Fu in quel preciso istante che decise che sarebbe tornata al pozzo, da sola. Aveva qualcosa da chiedere anche lei agli dei dell’acqua, ed era qualcosa che solo lei poteva chiedere. Avvertì quell’esigenza come una sfida. Chi lo aveva stabilito che solo il gran sacerdote potesse interpellare gli dei? Perché gli uomini dovevano sempre imporre la loro volontà escludendo le donne da ogni decisione?

In quel turbamento le parve quasi che fossero gli stessi dei delle acque a suggerirle quei pensieri e a infonderle il coraggio di sfidare le convenzioni sociali di quella società arcaica e patriarcale. Il sole emanava ancora i suoi riverberi di luce quando Aristea, lasciata la reggia, nelle vesti di un’anonima popolana, uscì e si avviò in direzione della fonte, con un recipiente in mano,  come una qualsiasi donna che avesse dimenticato di provvedersi dell’acqua necessaria per la cena.

Solo che invece di svoltare a sinistra, verso la  fonte,  dove tutti riempivano le loro brocche, lei tirò dritta e si diresse con passo deciso verso il declivio che conduceva al pozzo sacro. Gran parte del coraggio che aveva sentito riscaldarle il petto al mattino, era però scomparso. Il cuore le batteva forte, come non lo aveva mai sentito battere. Ebbe l’impulso di tornare indietro, presa dal terrore di commettere qualcosa di irreparabile che potesse nuocere a lei e alla sua famiglia. Ma il suo orgoglio riuscì ad avere la meglio sulla paura. Posò il bacile sui banchi dell’ingresso e prese a scendere i gradini. Ad ogni passo sentiva il suo cuore battere sempre più forte. Non era sicura che sarebbe giunta ai piedi della scalinata in pietra. Stava per risalire, terrorizzata che il cuore le potesse scoppiare in petto, quando udì delle voci. Il suo istinto la rese di colpo più razionale: non poteva farsi trovare lì; chiunque fosse, il gran sacerdote, o uno dei suoi allievi, lei non voleva essere smascherata. Discese in fretta gli ultimi gradini che la separavano dal fondo e si nascose, come poté, in una delle nicchie votive che notò nella luce che la luna rifletteva nell’acqua. L’acqua, in quel tratto iniziale le aveva bagnato i piedi sino alle caviglie, ma quel provvidenziale rifugio, addosso alla parete interna del pozzo, la sottrasse all’acqua e alla vista diretta dei nuovi arrivati.


Si augurò che l’acqua non proiettasse la  sua ombra,  com’era avvenuto al mattino, con l’ombra del gran sacerdote. Si tranquillizzò guardando lei stessa nello specchio d’acqua. Non vi erano ombre alcune, né di lei, né di quelli che stavano sopra di lei. Ma le voci, invece, si erano fatte più distinte. La prima voce che riconobbe fu quella di suo fratello Damasu.

Si fece forza per non uscire ad abbracciarlo e spezzare così quell’angoscia che l’attanagliava. Qualcosa di misterioso  le imponeva però di restare nascosta. Le ritornò  all’improvviso  la stessa sensazione di forza e coraggio che l’aveva sorpresa al  mattino. Suo fratello non era solo. Si udì un’altra voce più scura. Anche essa    aveva qualcosa di vagamente familiare. Ci furono delle presentazioni e poté udire degli altri nomi. Mandis, Norace, Arzan, Birrali, Kerbin, Tharrana. Tutti nomi a lei sconosciuti, mai sentiti; a parte il primo; dove lo aveva udito nominare? Era quello dalla voce scura, che parlava e parlava, mentre gli altri intervenivano a monosillabi; adesso si udivano solo Damasu e l’altro, quello della voce scura. Il loro tono era teso, carico di emozioni; lei le percepiva, anche lì, in fondo al pozzo. A un tratto dovette trattenere un urlo che le salì impetuoso alla gola. Quegli uomini parlavano di uccidere il re! Suo padre Itzocar sarebbe caduto sotto i fendenti del suo pugnale di capo; e per mano di Damasu! Al suo rientro da Gisserri!

Era forse uno scherzo di quel pozzo magico? Gli dei si prendevano gioco di lei perché aveva osato infrangere la legge sacra?

 O la volevano punire per avere osato discendere  i gradini sino a immergersi coi sandali ai piedi nell’acqua? Forse sarebbe impazzita e le acque l’avrebbero inghiottita per sempre; nessuno l’avrebbe mai ritrovata. Almeno non si sarebbe dovuta sposare contro la sua volontà.

Un momento! Adesso parlavano di lei. Altre voci, e risate di complicità, di congratulazioni  e di assenso si udivano e scendevano distinte nel pozzo , per poi perdersi nelle sue cavità. Ma Aristea  le afferrava prima che scivolassero via.

Lei avrebbe dovuto sposare un certo Usala e tutti quegli sconosciuti sarebbero diventati parenti di Damasu. Anche un certo Gairo! E Kolossoi sarebbe stato grande, come al tempo dei giganti di pietra che svettavano ovunque, nel villaggio, custodi del passato e guardiani del presente. Kolossoi sarebbe divenuto anche più grande di allora, alleandosi a  Nora, la città che avrebbe dominato i mari insieme al villaggio di Damasu!

Oh no! C’era da impazzire sul serio. Le venne l’impeto di uscire e mettersi a urlare; che lei non si sarebbe sposata con nessuno; piuttosto voleva morire sull’istante, in quel pozzo sacro, che aveva osato violare, in barba ai divieti delle antiche consuetudini. Restò come paralizzata, in attesa che parlassero ancora.

Ma le voci si erano spente. Lei attese un bel po’ prima di trovare la forza di uscire dal suo nascondiglio in fondo al pozzo.

Le gambe le tremavano e le lacrime le rigavano il volto, senza sosta. Riprese la sua brocca, vuota come quando era arrivata, sperando di non essere riconosciuta. E se quegli uomini malvagi l’avessero vista? Se avesse incontrato suo fratello Damasu? Cosa gli avrebbe detto? Rientrata alla reggia non ci fu verso che prendesse sonno. Troppi fantasmi le ballavano davanti.  Gli spiriti del pozzo la sbeffeggiavano, i morti della vicina tomba dei giganti si erano accorti anch’essi della sua presenza e la odiavano, additandola al grande sacerdote, come una reproba sacrilega. Si alzò dal letto. Doveva confidarsi con qualcuno. Andò in camera da sua mamma. Appena la vide, Irisha, capì che era successo qualcosa di molto grave. Abbracciò la sua bambina con fare protettivo.

«Che c’è figlia mia? Perché piangi? Hai forse sognato s’Orku Malaittu?»

«Vogliono uccidere Itzocar!» riuscì a dire Aristea stringendosi alla madre. Tremava come una foglia.

Nella fioca luce lunare che penetrava dalle feritoie della sua stanza, sua madre si alzò, fece stendere sua figlia nel letto e si diede da fare per accendere il fuoco. Subito dopo cercò in una delle sette nicchie scavate nella parete, che contenevano le erbe medicinali contro i sette mali: in altrettanti vasi c’erano i rimedi contro i mali dell’apparato digestivo, contro il mal di gola, contro il mal di testa, contro l’ansia, l’aritmia e i disturbi cardiaci, contro l’artrite e  il mal di denti, contro i dolori mestruali e contro le ferite di armi da taglio.

Aveva imparato da sua madre le proprietà di ogni erba e l’ordine in cui disporle, il modo di somministrarle e le dosi. Ogni infuso, decotto o cataplasma aveva effetti diversi, a seconda della sua composizione, a seconda che prevalesse un’erba, una pianta, una foglia o un’essenza di  radice.

Mise nell’acqua bollente dei fiori di melissa, camomilla e menta, in modo che la prima, da sola, fosse all’incirca il doppio delle altre due prese insieme. Dopo dieci minuti l’infuso era pronto. Irisha ci soffiò sopra a lungo prima di porgerlo alla figlia, che per tutto il tempo era rimasta con gli occhi sbarrati e ancora umidi di pianto.

«Bevi piano e raccontami il tuo sogno!» la incoraggiò porgendole la ciotola con l’infuso.

Aristea ne bevve un lungo sorso, restituendola alla madre, che pazientemente si era seduta di lato.

«Non è stato un sogno!»

Aristea ci mise un bel po’ a raccontare tutto quanto le era occorso da quando aveva disceso i gradini  del pozzo sacro.  All’inizio Irisha pensò che sua figlia fosse uscita di senno e che le sue erbe, da sole, non sarebbero bastate a riportare la sua ragione dal fondo del pozzo dove doveva  essere precipitata, forse quella stessa mattina. Ma alla fine sua figlia riuscì a convincerla, fornendo tanti di quei dettagli che le fecero capire che quella terribile storia era vera. Conosceva bene sua figlia e sapeva che la ragazza non era affatto una stupida.

 Era anzi una grande osservatrice, anche se di carattere ribelle. D’altronde sua figlia non poteva conoscere Mandis. Non era neppure nata quando Itzocar lo aveva bandito dal villaggio. E oggi capiva che invece avrebbe dovuto ucciderlo, come imponevano le leggi antiche. Un nemico che vive è un nemico che ti odierà per sempre. E una vendetta che arriverà a colpirti, comunque, prima o poi.

Evitò naturalmente di rimproverarla per aver violato le leggi sacre del villaggio. Anzi, se la storia fosse risultata autentica, come in effetti sembrava, quella condotta sacrilega era da ricondurre alla volontà degli dei delle acque, che da sempre proteggevano Itzocar.

Da quando era nato, secondo i racconti che aveva udito dai vecchi; da quando vincitore su Mandis, nel momento in cui l’aveva atterrato nell’ultimo duello per la conquista del trono, la pioggia aveva cominciato a cadere dal cielo.

«Dormiamo, ora, figlia mia» disse Irisha accingendosi a spegnere il fuoco. «Domani ne parlerò con Elki. Ma tu devi promettermi di non parlarne con nessuno. Se c’è una congiura contro il re, potrebbero esserci delle spie, anche nei visi di chi si professa amico. Mandis ha ancora degli amici, qui al villaggio, e la sua famiglia è una grande famiglia: una delle più antiche e numerose di Kolossoi!» Aristea promise a sua madre di non parlare,  ma prima chiese  di essere perdonata per quello che aveva fatto. Non solo per il sacrilegio del pozzo, ma per essersi ribellata alla volontà di suo padre.

Promise, con le lacrime agli occhi, che se suo padre si fosse salvato, essa avrebbe acconsentito alla sua  volontà e avrebbe sposato Arca Salmàn, il figlio del capo tribù di Gisserri. L’antico alleato di suo padre e della sua gente. Sua madre l’ abbracciò con grande trasporto, benedicendola per le sue parole e per i suoi sentimenti.

«Stanotte è meglio che tu dorma accanto a me. Nel posto vuoto di tuo padre!» le disse con dolcezza.

 Aveva il cuore pieno di orgoglio per quella sua figlia. Anche se adesso i suoi pensieri e il suo cuore erano pieni di ansia e di preoccupazione per tutto quello che comunque era accaduto e per tutto quanto stava comunque per accadere. Per una figlia che ritrovava si accorgeva che all’orizzonte si profilava la perdita del suo figlio maggiore.

 E comunque fosse finita quella brutta storia, la sua vita, la sua famiglia, dopo non sarebbe mai più stata la stessa.  Irisha presagiva tutto questo, nel suo cuore; e i suoi presagi raramente si sbagliavano. Ma era anche una donna forte; la regina, moglie e figlia di un re pastore, discendente di donne e uomini che avevano saputo affrontare carestie, lotte, disgrazie, guerre fratricide e assalti esterni. Avrebbero superato anche quella tragedia. Aristea, intanto, dopo tante notti inquiete, sfinita dalle peripezie della sera, ma tranquillizzata dai suoi proponimenti e dalla presenza di sua mamma, per la prima volta, dopo innumerevoli notti di sonno agitato, si era addormentata serenamente.

martedì 11 marzo 2025

I Thirsenoisin

 

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Capitolo 5

 

Fu così che Gula, alla vigilia del grande raduno settennale entrò nella tomba dei giganti, vicino al pozzo sacro, dopo il sacrificio di una capretta agli dei dell’acqua. Al tramonto Anù le somministrò la prima porzione del decotto a base di micorizzas, versando il resto in un tripode di ceramica. Nel complesso era una quantità sufficiente per cinque giorni e, somministrata con il latte di capra, avrebbe dovuto costituire l’unico nutrimento per tutto il periodo di incubazione. Lo stesso Anù si sistemò nei pressi della «cumbissia», la vasca di decantazione che ospitava Gula, all’interno della tomba dei giganti, isolandola anche fisicamente dal resto del mondo.

La prima notte passò senza incidenti. Gula dormiva di un sonno agitato. Lo si intuiva dall’espressione accigliata del suo viso.

Intanto erano arrivate al villaggio di Gisserri tutte le delegazioni delle tribù federate. La prima  ad arrivare fu quella di Kolossoi, guidata da Itzocar; poi fu la volta di Nadal, che guidava la delegazione di Genna ‘e Mari, la potente tribù che si affacciava, per una buona porzione di territorio, lungo le scoscese falesie della costa occidentale;il suo territorio era così vasto che si estendeva sino ai confini della pianura del Campidano; quindi giunse dal nord la delegazione di Gonario che guidava la tribù di Mumutzu, seguito dappresso da Mannai, proveniente da Kurkuris; Kalledda e Garonna arrivarono insieme; guidavano,   rispettivamente,  le delegazioni delle tribù della Nurra e di Solki; infine arrivò Ruju in rappresentanza delle tribù dell’Anglona.

E mentre le delegazioni si sistemavano negli alloggi loro assegnati, all’interno della vasta reggia nuragica, che comprendeva oltre alla torre centrale, altri due ordini di torrioni: un quadrilobato e un eptalobato, all’interno dei quali si estendevano ampi cortili circolari, numerosi corridoi, pozzi sacri e un numero elevato di stanze, la sacerdotessa Gula continuava, sotto la vigilanza attenta di Anù, la sua incubazione divinatoria.

Il secondo giorno Gula ebbe dei sussulti, a più riprese; Anù riuscì a farle bere del latte di capra, allungato con un’altra porzione di micorizzas.  Risprofondò subito nei suoi sogni; o forse, meglio, nel suo viaggio. Il suo viso mostrava una grande intensità di sentimenti e di emozioni. Si agitava e ogni tanto emetteva dei rantoli, attraverso il respiro affannoso. Poi si calmò. La seconda notte passò ancora senza incidenti.

 Al terzo giorno, verso mezzogiorno, mentre i capi delegazioni erano riuniti nella grande sala circolare interna al primo ordine di torrioni, Anù le somministrò la terza porzione, ancora accompagnandola con latte di capra, sempre munto di fresco. Ma durante la notte un urlo lancinante si levò dalla tomba dei giganti. Fu udito nella reggia e per tutto il villaggio. Giovani e vecchi furono attraversati da un brivido di freddo lungo la schiena,  che gli penetrò sin nel midollo spinale.

Nessuno aveva mai udito un urlo simile, prima di allora: era qualcosa di sovrumano, di ultraterreno, come il grido di mille animali intrappolati nel ventre della terra che gridassero a una voce di venire liberati. Gula era uscita dal suo sogno e dal suo viaggio. Anù la riportò a casa, dopo avere asperso nel pozzo sacro quel che rimaneva del micorizzas. Per un giorno intero Gula riposò, poi volle del cibo e raccontò il suo sogno.

Al mattino Anù chiese di essere ammesso al raduno settennale delle tribù nuragiche. Dopo i primi tre giorni di lavori, era già tempo di conclusioni. I capitribù erano ansiosi di sentire da Anù i messaggi inviati dagli dei dell’oltre tomba.

«Gula ha incontrato Baba, la dea madre. Baba l’ha accompagnata nel viaggio.» disse Anù, appena Hannibaàl gli ebbe concesso la parola.

Un coro di assenso seguì stupefatto a quelle parole. Incontrare la dea madre durante l’incubazione era un segno di grande favore. Anche i capi tribù lo sapevano bene.

Itzocar era considerato  il più autorevole  dei capi e chiese per primo la parola.

«Che cosa le ha mostrato Baba, nobile Anù?» Tutti tacquero in attesa del responso.

«Due grandi e possenti aquile si leveranno dall’est. Questo accadrà quando saranno trascorsi tanti cicli quanti sono quelli che io conto dalla fondazione del regno di Gisserri.» Tutti si sorpresero a domandarsi che significato avesse una tale indicazione temporale. Forse qualcuno ne intuì il senso, ma nessuno osò interrompere. Anù non aveva ancora finito.

«Un’aquila divorerà le tombe di Iolao e dei nove figli di Eracle; l’altra svuoterà la mia testa di tutto il suo contenuto.» Aggiunse Anù in tono asciutto. Sembrava che la cosa non lo turbasse affatto. I presenti, invece, questa volta,  non poterono trattenere un’esclamazione di orrore. Chiunque capiva che si trattava di un segno esplicitamente funesto.

«Tutto questo quando accadrà?» chiese Nadal,  il capo della tribù di Genna ‘e Maris, in tono   preoccupato.

«Aspetta, potente, Nadal. Consentiamo ad Anù di completare il suo racconto», interpose Hannibaàl, che come capo tribù ospitante era titolato a farlo.

«Alla fine del sogno le due  aquile non sono tornate a oriente ma sono scomparse verso occidente, inghiottite dal sole che si tuffava nel grande mare. Poi Gula si è svegliata! Forse avete udito il suo grido!»

«Mi sto chiedendo il senso di questo sogno» disse Garonna, il capo della tribù di Nurra, come se parlasse a se stesso.

«E soprattutto quando accadranno questi eventi!» ripeté Nadal, sempre con lo stesso tono preoccupato.

Anù sembrava assente. Aveva finito il suo resoconto ed era immobile, con tutti gli occhi puntati addosso.

«Puoi spiegare il senso delle visioni avute da Gula, nobile Anù?» gli chiese Hannibaàl.

«Non sono forse le due aquile, i due Arconti della città Shardana di Nora?» propose il bellicoso Kalledda, uno dei capi tribù fautori della guerra senza tregua contro gli Shardana.

«Non so cosa rappresentino le due aquile ma so che una di loro, la prima, distruggerà nove delle città Shardana. I nove tespiadi rappresentano infatti proprio gli Shardana. Solo quattro delle tredici città oggi esistenti si salveranno; non so se Nora sarà tra le fortunate! »

Adesso le emozioni dei capi virarono nuovamente verso il consenso. Quel vaticinio non era per niente negativo, se prevedeva la distruzione di nove delle nemiche acerrime del popolo nuragico.

«E la seconda aquila?» chiese Gonario, della tribù di Mumutzu, che si estendeva dai primi contrafforti collinari meridionali sino alle foreste del centro nord ; Gonario  aveva dei profondi legami di amicizia con Anù.

«La seconda aquila distruggerà la nostra civiltà, la nostra storia, la nostra memoria; ma le nostre regge e i nostri villaggi sopravviveranno alle due aquile.

«Ma tutto questo, quando avverrà?» esclamò ancora una volta Nadal, al culmine della sua esasperazione.

«Io conto, nella mia mente, circa 750 equinozi di primavera, dalla fondazione del nostro regno, ai nostri giorni; li ho tutti registrati qui, nella mia testa, insieme ai capi che hanno governato: e per ciascuno dei capi, il numero degli equinozi di primavera a cui ha preso parte; in totale fanno esattamente 753 equinozi;  Baba ha suggerito a Gula che ne passeranno altrettanti, prima che le due aquile sovrastino con le loro possenti ali  le nostre terre.»

Nadal, a quella spiegazione,  emise un sospiro che sembrò di sollievo. E non fu il solo.

«Ma alla luce di questa predizione, noi cosa decidiamo?» chiese Ruju, in rappresentanza delle tribù  nuragiche del  nord.

 «Questa è una decisione che spetta a voi, potenti capi delle tribù. Io debbo andare da Gula. È ancora molto debole e potrebbe avere bisogno di me.»

«Vai pure Anù! Che gli dei ti siano sempre amici!» gli disse Hannibaàl.

«Che gli dei illuminino le vostre menti per le giuste decisioni dei nostri popoli. Spero di potervi salutare alla vostra partenza» rispose Anù avviandosi all’uscita, seguito dagli sguardi ammirati e solidali di tutti i capi tribù.

I lavori proseguirono spediti. Il giovane Kalledda si ritrovò solo, ma sempre meno convinto, a propugnare una guerra che nessuno voleva veramente.

Mannai, il capo della tribù di Kurkuris, fece un intervento che piacque molto.

«Fratelli!» - esordì «Se le due aquile, qualunque potere esse rappresentino, distruggeranno insieme nove  città Shardana e la nostra intera civiltà nuragica, questo significa che, in qualche modo, i destini nostri e dei Shardana, sono comuni. E allora perché farsi la guerra?»

«Certo se sapessimo quali sono le  città Shardana che si salveranno, quasi, quasi, converrebbe insediarsi nei loro pressi e cercare di impossessarsene!» disse Itzocar. Anche questa riflessione piacque molto ai capi tribù, anche se Hannibaàl obiettò che le loro regge e i loro villaggi, secondo il vaticinio riferito da Anù, sarebbero state più sicure.

Alla fine, dopo un altro giorno e mezzo, passato a discutere, fu deciso di continuare con una politica attendista, fatta di aperture ai commerci e ai contatti culturali, ma con la guardia sempre alta e attenta. Il vaticinio di Gula, infatti, si proiettava nel futuro, ma niente diceva dell’oggi e del domani. E se i Shardana avessero tentato di espandere i loro confini a danno dei loro villaggi, chi li avrebbe difesi?

Fu deliberato pertanto di non deporre le armi e di continuare a educare i giovani nel rispetto delle antiche tradizioni, esercitandoli  e preparandoli alla guerra, come se avessero dovuto subire un’invasione da un momento all’altro.

Ruju riuscì a convincere gli altri capi dell’opportunità di mantenere dei contatti con i capi delle città Shardana, gli Arconti e i Senatori, inviando dei messi in segno di pace, per avviare un dialogo di amicizia. Fu un importante passo avanti sulla via della convivenza, anche se la decisione non piacque proprio a tutti.

La proposta comunque passò a larga maggioranza.

La sera prima della partenza delle delegazioni, rientrò Arca Salmàn, a dorso di un cavallo della Giara e con al seguito due cavalli che trasportavano un cervo e un cinghiale femmina. Fu festeggiato dai suoi amici e da tutti i capi.

Nel piazzale circolare della reggia, vennero arrostiti numerosi cinghiali e capretti e il vino fu servito a fiumi. Si festeggiò così la conclusione del raduno, l’equinozio di primavera e il rientro di Salmàn.

I giovani principi organizzarono dei balli al suono delle launeddas, delle cetre e dei tamburi.

Itzocar e Hannibaàl annunciarono il fidanzamento di Aristea, principessa di Kolossoi con l’erede al trono di Gisserri. Quella fu l’apoteosi della festa. E mentre i giovani ballavano, i vecchi attorno al fuoco raccontavano le loro antiche storie, augurandosi che mai esse si sarebbero dovute dimenticare.

Forse qualcuno dei giovani avrebbe proposto di introdurre la scrittura, come si usava presso  i Shardana e altri popoli lontani,  per registrare sulla pergamena o sulle tavolette quei loro racconti. Ma nessuno dei vecchi pensò di interpellare i giovani. E poi, le loro storie erano così tante, che sarebbe stato impensabile trascriverle tutte quante. Senza contare che se si fossero un domani smarrite quelle pergamene, o fossero state rubate quelle tavolette, chi sarebbe stato capace di ricostruire la storia dei Thirsenoisin, i costruttori delle torri eterne?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

domenica 9 febbraio 2025

Giornata del Ricordo

 


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L’APPELLO DELL’INFOIBATO

Primo Premio Terzo Gruppo - Sezione G

Concorso Letterario Internazionale

 “L’Esodo Istriano-Fiumano-Dalmata”

 

Se trovate in un burrone profondo

uno scheletro legato con il fil di ferro

a un altro scheletro,

legato a un altro scheletro

e a un altro ancora,

quello sono io.

 

Non cercatemi in un fosso qualunque!

Io giaccio in quei recessi contorti

che si chiamano foibe.

Avvolgetemi, ve ne prego,

in un drappo bianco

E restituitemi ai miei cari,

alla mia Patria e alle cose di Dio.

Non odio nessuno e perdono tutti.

Solo un’ultima cosa vi chiedo:

aprite gli occhi dei vostri figli

sulla verità!

 

I Thirsenoisin

 


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Capitolo 4

 

Intanto, nel villaggio di Gisserri, a nord di Kolossoi, alle pendici settentrionali dell’altipiano della Giara, tre grandi eventi animavano tutto il villaggio: il raduno settennale delle nove tribù nuragiche federate; il viaggio iniziatico di Salmàn e il rito propiziatorio della sacerdotessa Gula.

Il consiglio degli anziani, in realtà, aveva delegato il gran sacerdote, Anù, per organizzare il rito propiziatorio, atto ad ingraziarsi il favore degli dei delle acque, mentre aveva preso atto che Salmàn, il figlio del capo tribù, era in età per l’intrapresa del viaggio che lo avrebbe immesso nella vita adulta.

Trattandosi di un futuro capo, il consiglio aveva stabilito che Salmàn dovesse stare fuori per almeno sette giorni, con arco, frecce e coltello; partendo a piedi, sarebbe dovuto rientrare con tre cavalli: a dorso di uno dei cavalli ci sarebbe dovuto essere proprio lui, mentre gli altri due cavalli avrebbero dovuto trasportare un cervo maschio e un cinghiale femmina.

Il Consiglio degli Anziani si intrattenne assai più lungamente sul raduno federale che sarebbe iniziato di lì a qualche giorno. Ogni sette anni, da tempo immemore, all’equinozio di primavera, il villaggio di Gisserri aveva l’onore di ospitare il raduno delle tribù nuragiche federate.

 

 

 

 

Com’era costume fu Hannibaàl, in qualità di capo tribù,  a introdurre e a chiudere i lavori. Tutti i membri presero la parola per esprimere il loro punto di vista sul tema che Hannibaàl aveva posto all’ordine del giorno. Il tema era sempre lo stesso da molti anni, al punto che neppure il più vecchio dei membri del Consiglio, ne ricordava un altro più importante, da discutere in preparazione  alle adunanze  federali; era così ormai da molto tempo, da quando gli Shardana si erano insediati nelle coste dell’isola: prima avevano fondato Karalis, poi  Nora,  Cornus, e Solki; poi, via, via, ne erano sorte altre ancora: se ne contavano ormai ben tredici, dalla più meridionale, Karalis, alla più settentrionale, Solki, passando per Tarros, Turris, Feronia, Bithia e Nabui. E piano, piano queste città, composte da provetti navigatori, forti guerrieri e abili commercianti, cercavano nuovo spazio verso l’interno, erodendo sempre più terreno all’influenza dei villaggi nuragici e introducendo le loro merci, la loro cultura e le loro usanze. La presenza dei nuovi venuti, se non altro, aveva fatto diminuire le guerre tra le tribù nuragiche, che potevano vantare, da molto tempo, un periodo di relativa pace. Ma la sindrome dell’accerchiamento eraandato crescendo di pari passo tra le popolazioni nuragiche.

Il problema che si era posto sin dall’inizio per i bellicosi e fieri nuragici era dunque quello dell’atteggiamento corretto da assumere nei confronti dei Shardana.  

 

 

 

 

 

Da sempre si erano formati due schieramenti: quelli che volevano la guerra e quelli che invece invitavano a trovare un modo di vivere insieme; ma possibilmente ognuno a casa sua, chiosavano anche i consiglieri più mansueti.

 La casta dei guerrieri, secondo le storie che si tramandavano oralmente da padre in figlio, all’inizio aveva prevalso. C’erano stati numerosi scontri, con alterne fortune. Ma i Shardana avevano presto lasciato intendere che il loro obiettivo non era quello di conquistare i territori delle tribù nuragiche, strappando loro la sovranità sul popolo e  sulle loro terre; il loro scopo era quello di convivere pacificamente, commercializzando i loro prodotti, scambiando le loro merci e incontrandosi pacificamente per fare affari. Gli  abili artigiani del bronzo e della ceramica  erano stati in un certo senso l’ago della bilancia all’interno dei villaggi nuragici; infatti, se da un lato i guerrieri propugnavano la guerra totale contro i Shardana, sino all’annientamento finale; e se i sacerdoti, dall’altro,  privilegiavano invece il dialogo e la convivenza pacifica con i popoli del mare, gli artigiani scoprirono presto i vantaggi di un mercato aperto; i loro prodotti, oltretutto, piacevano molto ai commercianti delle città stato che, probabilmente, riuscivano a venderli oltre mare, nei ricchi mercati, da un capo all’atro del mare mediterraneo, verso l’Africa, verso la Francia e la Spagna, e perfino oltre il vicino oriente, sino alla Persia e all’India. Tanto più che gli artigiani del bronzo, i maggiori contribuenti dei tributi versati alla comunità,

 

 

 

 

avevano scoperto che i commercianti Shardana gli procuravano, più celermente e in maniera più vantaggiosa, lo stagno, indispensabile per ottenere con il rame, la materia prima dei loro manufatti; essi ricavavano il rame in gran copia dalle loro miniere, insieme al piombo e al ferro.

 L’abbondanza nei mercati di stagno, dovuta all’intraprendenza dei commercianti Shardana, aveva inoltre fatto abbassare i costi della loro produzione.

Tutti gli altri artigiani avevano seguito l’esempio degli artigiani del bronzo e si erano schierati per la pace e per la convivenza coi vicini Shardana.

Pur non avendo un riconoscimento ufficiale nel Consiglio degli Anziani, gestito in pratica dai sacerdoti e dai guerrieri, il loro peso era stato decisivo nel mantenere la pace. Anche quell’anno, Hannibaàl ne aveva sentore, le tribù non avrebbero dichiarato la guerra, ma gli altri capi tribù, ne era altrettanto certo, avrebbero deliberato di resistere quanto più possibile a quella penetrazione culturale e commerciale, limitando al massimo le aperture e difendendo le antiche tradizioni nuragiche. Nessuno si aspettava che il Consiglio assumesse posizioni progressiste, essendo piuttosto un organo di governo tradizionalmente conservatore.

 Il gran sacerdote Anù, responsabile anche degli approvvigionamenti, sovrintendendo una sorta di annona per le scorte di cibo e di materie prime, che provvedeva ad accumulare in appositi e capaci depositi, aveva portato in

 

 

 

 

Consiglio le istanze degli artigiani e di certi allevatori che gli si erano raccomandati per far sì che, da un lato si mantenesse la pace, apportatrice di prosperità economica, dall’altro che si provvedesse comunque a difendere i confini  territoriali e le greggi dalle incursioni (anche se non era certo che quelle incursioni in territorio nuragico  le facessero davvero  i guerrieri Shardana).  La casta dei sacerdoti, inoltre, aveva tutto da guadagnare, in termini economici, dagli scambi commerciali con i Shardana. Essa infatti era tributaria delle decime relative all’estrazione, alla produzione e al commercio dei minerali, anche nella forma redditizia dei bronzetti votivi. E ciò sulla base del fatto che la casta sacerdotale esplicava le sue competenze, anche relativamente alla riscossione dei tributi, su tutto ciò che gli dei avevano posto al di sotto e al di sopra del suolo (metalli, minerali e acque sorgive e piovane), mentre le decime su tutto il resto della produzione (soprattutto gli sterminati armenti e le ricche produzioni agricole, coi loro derivati) venivano incamerate dal re pastore, il capo della tribù nuragica.

 L’intensificarsi degli scambi commerciali tra i due popoli, aveva finito per far cadere molte delle barriere di ostilità e diffidenza che all’inizio erano sorte tra di loro, anche se un retaggio di quella originaria inimicizia, era comunque rimasto a fermentare, sotto la superficie di quell’apparente concordia; e ciascuno si era aggrappato alle proprie origini, anche se non erano mancati i matrimoni misti e le contaminazioni reciproche di usi, costumi e idiomi.

 

 

 

 

Anù, a dire il vero, i suoi pensieri più profondi e le sue energie più importanti le riservava da sempre alle sue funzioni religiose. L’anziano sacerdote capiva bene l’importanza del ruolo che svolgeva la casta di cui egli era il capo.

Se infatti la casta dei guerrieri, capeggiata dal capo tribù, dava al popolo la sicurezza di un ordine ben costituito e di un apparato ben strutturato per la difesa del popoloso villaggio che sorgeva tutt’attorno alla reggia nuragica, la casta dei sacerdoti contribuiva a garantire ad  ogni singolo individuo del gruppo il favore che gli astri celesti e gli dei delle acque assicuravano al popolo nuragico, salvaguardando i raccolti, propiziando le piogge, assistendo le donne nelle nascite, guidando i vecchi nell’ultimo tratto di strada, quello che conduceva all’eterno viaggio nell’al di là.

Anù era responsabile anche della scuola dei futuri sacerdoti.

Aveva una memoria prodigiosa; ricordava a memoria tutti i  capi tribù che avevano preceduto Hannibaàl e i grandi sacerdoti che lo avevano preceduto; si trattava di quasi duecento nomi, gli antenati più illustri; di loro sapeva narrare e ricordava anche le gesta, le battaglie vinte e quelle perse, i risultati raggiunti, le innovazioni introdotte e le leggi emanate. Ricordava inoltre gli antenati di ogni stirpe rappresentata nel Gran Consiglio degli Anziani. Alle cerimonie funebri che celebrava personalmente era capace di ricordarli tutti, dal primo sino all’ultimo.

 

 

 

 

Conosceva inoltre le erbe e i principi curativi che possedevano. Insomma, lo si poteva considerare un’enciclopedia vivente e parlante. Trasmetteva queste cose ai suoi allievi. Li studiava tutti, uno per uno. Doveva scegliere il suo successore, come il suo predecessore aveva fatto con lui. Non era un compito facile.  Oltre che una memoria di ferro, occorrevano altre qualità per divenire grande sacerdote. Lui si affidava anche ai segni del cielo. Sapeva leggere le stelle e interpretare i segni più diversi: dagli uccelli in volo, ai fischi del vento, ai sussurri del fiume; ma questi non li poteva né spiegare, né trasmettere; poteva solo immaginarli in capo ai suoi discenti, come un dono innato che, tutt’al più, poteva svilupparsi col tempo e con la pratica. 

 Portava con sé i suoi allievi a raccogliere le erbe e in tante occasioni li interrogava, dopo avergliene spiegato le qualità curative, sul loro utilizzo a fini terapeutici. Coglieva anche altre erbe, quelle magiche, proibite, dai poteri psicotropi, che potevano mettere in contatto con le forze sopranaturali, quelle che dominano nell’oltretomba, dove risiedono gli antenati che le sue sacerdotesse, sotto la sua direzione, consultavano periodicamente, quando delle decisioni importanti attendevano il Gran Consiglio e grandi eventi investivano la vita del villaggio.  Con quelle erbe occorreva stare attenti: un giovane poteva facilmente rovinarsi la vita, ingerendole. Davano un delirio di onnipotenza, se non venivano utilizzate correttamente, e potevano facilmente condurre alla follia.

 

 

 

 

Poiché esse erano una finestra aperta sull’altro mondo, quello dei morti. Qualcuno non era mai tornato da quei viaggi. Il suo maestro gliele aveva fatte provare e lui stesso ne era rimasto impressionato. Non gli piacevano quelle erbe; e neanche certi funghi che ne costituivano un necessario complemento, come mezzo per entrare in contatto con i giganti dormienti nelle tombe degli avi.

Erano troppo pericolosi e avevano una proprietà che a lui non piaceva per niente: tendevano a dominare sull’uomo, a prenderne il sopravvento, proprio per quella sensazione di onnipotenza che essi trasmettevano. Il suo maestro gli aveva detto che sulle donne avevano le stesse proprietà psicotrope ma non gli davano quella sensazione di potere; in un certo senso, quei funghi e quelle erbe, si ritraevano nei confronti delle donne e ne venivano, a loro volta, dominati. Era uno dei tanti misteri inspiegabili della Natura e degli dei che la dominavano, gli aveva detto il suo maestro. E lui non l’aveva mai dimenticato.

La sera prima, l’ultima di luna piena precedente il grande raduno settennale, quando la sacerdotessa prescelta si sarebbe dovuta sottoporre al rito dell’incubazione, andò da solo a cercare il fungo Amanita che cresce in simbiosi con la pianta della Belladonna. Non tutti i funghi che potevano trovarsi alla base dell’arbusto erbaceo andavano raccolti per quell’occasione; Anù prediligeva gli Amanita della varietà pantherina, anche se sapeva bene che certi sciamani conoscevano come trattare le altre varietà di fungo.

 

 

 

 

Gula, la sacerdotessa con cui aveva stabilito di celebrare il rito dei quattro occhi, di quelli che consentono uno sguardo nell’altro mondo, da cui essa avrebbe dovuto riportare degli auspici, aveva bisogno di un fungo amanita che fosse stato in simbiosi con quelle piante e che avesse ricevuto, ma anche trasmesso, particolari sostanze alle bacche a forma di ciliegia; inoltre i funghi e le bacche andavano raccolti in una particolare zona dove, come gli aveva spiegato un giorno il suo maestro, correva una vena acquifera sotterranea con particolari composizioni favorevoli al processo simbiotico che i due vegetali si scambiavano.

La sacerdotessa prescelta da Anù avrebbe dovuto stare incubata, forse per tutti i cinque giorni del raduno e, pertanto, l’effetto psicotropo doveva essere congiunto alle necessarie linfe di sostentamento, che solo certi funghi e certe bacche possedevano. Anù li chiamava sos micorizzas (o cerexas malaittas). Sminuzzati  il cappello del fungo e le radici delle Belladonna, Anù li avrebbe messi a macerare nel vino e nel succo ricavato dalle bacche della pianta per dodici ore. Dopo una ebollizione lenta e continua per altre dodici ore il decotto, filtrato e lasciato freddare a dovere, sarebbe stato pronto per la somministrazione. Oltre agli  effetti euforici ed eccitanti, il  decotto, produceva    anche certi effetti nutritivi e calmanti. Lui glielo avrebbe somministrato  con il massimo dell’attenzione e gradatamente, durante tutto il tempo dell’incubazione, a intervalli regolari, e opportunamente trattati.

 

 

 

 

Avrebbe così potuto sorvegliarne e monitorarne gli effetti e, se del caso, avrebbe potuto perfino interrompere il rito. Gula era più di una semplice sacerdotessa per Anù. La ragazza, di quindici anni più giovane, non aveva parlato sino ai ventuno anni.  Al villaggio dicevano che avesse ricevuto il malocchio da una vicina di casa, sterile, ingelositasi per le numerose gravidanze che sua madre aveva portato avanti felicemente.

Spesso le venivano delle convulsioni e una volta aveva perfino rischiato di morire perché era caduta nel fuoco, ustionandosi con l’acqua bollente. L’incidente le aveva deturpato il viso e una parte del corpo.  Anù aveva notato la ragazza seduta su una pietra, con lo sguardo assente, un giorno che si era recato al villaggio per certe incombenze legate al suo ufficio di gran sacerdote. Quella pietra non era una qualsiasi pietra, ma costituiva uno dei punti dell’itinerario che il sole percorreva durante il solstizio di primavera. Rimasto vedovo aveva chiesto a sua mamma se la ragazza fosse stata disponibile a trasferirsi da lui per cucinare e tenergli la casa in ordine. Alla mamma non era sembrato vero di liberarsi di quella figlia, spesso con la testa tra le nuvole, muta da sembrare quasi scema e che nessuno aveva chiesto in sposa e mai l’avrebbe chiesta più, dato che aveva già compiuto ventuno anni.

Anù aveva preso a curarla con certi infusi di erbe e di strane polverine che solo lui conosceva. Le convulsioni si erano andate diradando progressivamente e un bel giorno Gula aveva pronunciato, senza preavviso, le sue prime parole.

 

 

 

 

Rivolgendosi ad Anù aveva detto: «Da oggi in poi parlerò per te!»  Da quel giorno le convulsioni non si manifestarono più. In realtà né Anù, né Gula, amavano molto parlare. Anù meditava spesso sul significato da dare alle prime parole pronunciate dalla sua schiava. In una notte tempestosa accadde che Gula, presa dal terrore, si infilasse nel giaciglio di Anù in cerca di protezione. La ragazza si strinse a lui e la ricerca di protezione divenne qualcos’altro. Anù, che dopo la morte di sua moglie, avvenuta esattamente un anno prima, non aveva più pensato ad altre donne, troppo assorbito nel suo dolore e nei suoi mille incombenti, non si oppose. Fece tutto la ragazza con una naturalezza che sorprese il riflessivo Anù. Dopo averlo eccitato gli montò sopra, si fece penetrare, e si mosse con maestria, come se nella sua vita non avesse fatto altro. Anù non era più un giovincello e gli parve giusto regolarizzare la condizione della ragazza. Se lui fosse morto, la ragazza sarebbe rimasta nel suo status di schiava, ma se lui avesse ufficializzato la loro unione, essa sarebbe stata la vedova del gran sacerdote per sempre. La cerimonia, semplice e particolare come si conveniva all’unione tra un vedovo e una ragazza matura, non più vergine, fu celebrata da lui stesso al pozzo sacro, alla presenza di pochi invitati.

Da quel giorno Gula era divenuta la sua assistente, ma non volle che lui assumesse un’altra schiava per curare la casa e per cucinare; forse era gelosa e non voleva dividere la sua intimità con nessuno. 

 

 

 

 

 

Quando lui la informò che cercava una ragazza per celebrare il rito propiziatorio dell’incubazione, in previsione del raduno settennale dei capitribù nuragici dei villaggi federati, lei ripeté quelle stesse, identiche, prime parole: «Da oggi in poi parlerò per te!»