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Capitolo
6
Aristea era rimasta
davvero impressionata quando, al mattino, su invito del gran sacerdote Elki,
aveva partecipato a una cerimonia propiziatoria al pozzo sacro di Turas, poco
distante dalla reggia, nei pressi delle tombe dove riposavano, nel loro sonno
eterno, gli antenati del villaggio. Il
rito era officiato per ingraziare agli dei il viaggio che Itzocar e il suo
seguito avevano intrapreso il giorno prima per partecipare al raduno settennale
delle tribù federate al santuario del villaggio nuragico di Gisserri. Damasu era partito presto per degli affari e
Rumisu era su, nei pascoli, a vigilare sulle innumerevoli greggi che
appartenevano alla loro famiglia, le più numerose e profittevoli di tutte;
quindi era toccato a lei e a sua madre Irisha partecipare in rappresentanza
della famiglia reale.
«Tholoi, Dedaloia, Iaccu,
Maimone, Dumuzu, Babai, Attis e Adone!», era stato l’incipit della giaculatoria
che il gran sacerdote Elki aveva iniziato a recitare, scendendo i gradini delle
scale che conducevano alla base del pozzo sacro, per deporre il contenuto del bacile
con il sangue dei capretti offerti in sacrificio agli dei delle acque.
Solo il gran sacerdote poteva scendere quei sacri gradini, aveva sempre sentito dire Aristea. Mentre Elki scendeva, col suo incedere lento e solenne, Aristea aveva visto l’ombra del gran sacerdote, sdoppiarsi e capovolgersi, riflessa sull’acqua e sulla parete di fronte alle scale. Tutti i presenti avevano trattenuto il fiato a quella magica visione. Lei aveva indicato quell’eccezionale fenomeno a sua madre, che le stava a fianco; nella sua giovane ingenuità non aveva capito che tutti gli altri presenti, invece, in qualche modo, se l’aspettavano; forse l’avevano osservato altre volte; o magari ne avevano sentito parlare. Sua madre le fece un cenno impercettibile come per dirle di tacere e di osservare con attenzione. Ma il gesto, in realtà, voleva suggerirle di guardare e imparare. Aristea poté sentire il rumore del sangue versato nell’acqua, prima che il gran sacerdote si chinasse per sciacquare il bacile, in maniera che niente andasse perduto. Con l’acqua che riportò su, asperse i presenti, cominciando da sua madre e da lei; tutti chinarono il capo per ricevere meglio quella benedizione. Elki continuava a recitare le sue misteriose giaculatorie, con una cantilena che quasi rapiva in estasi l’animo turbato di Aristea. Fu in quel preciso istante che decise che sarebbe tornata al pozzo, da sola. Aveva qualcosa da chiedere anche lei agli dei dell’acqua, ed era qualcosa che solo lei poteva chiedere. Avvertì quell’esigenza come una sfida. Chi lo aveva stabilito che solo il gran sacerdote potesse interpellare gli dei? Perché gli uomini dovevano sempre imporre la loro volontà escludendo le donne da ogni decisione?
In quel turbamento le parve quasi che fossero gli stessi dei delle acque a suggerirle quei pensieri e a infonderle il coraggio di sfidare le convenzioni sociali di quella società arcaica e patriarcale. Il sole emanava ancora i suoi riverberi di luce quando Aristea, lasciata la reggia, nelle vesti di un’anonima popolana, uscì e si avviò in direzione della fonte, con un recipiente in mano, come una qualsiasi donna che avesse dimenticato di provvedersi dell’acqua necessaria per la cena.
Solo che invece di
svoltare a sinistra, verso la fonte, dove tutti riempivano le loro brocche, lei
tirò dritta e si diresse con passo deciso verso il declivio che conduceva al
pozzo sacro. Gran parte del coraggio che aveva sentito riscaldarle il petto al
mattino, era però scomparso. Il cuore le batteva forte, come non lo aveva mai
sentito battere. Ebbe l’impulso di tornare indietro, presa dal terrore di
commettere qualcosa di irreparabile che potesse nuocere a lei e alla sua
famiglia. Ma il suo orgoglio riuscì ad avere la meglio sulla paura. Posò il
bacile sui banchi dell’ingresso e prese a scendere i gradini. Ad ogni passo
sentiva il suo cuore battere sempre più forte. Non era sicura che sarebbe
giunta ai piedi della scalinata in pietra. Stava per risalire, terrorizzata che
il cuore le potesse scoppiare in petto, quando udì delle voci. Il suo istinto
la rese di colpo più razionale: non poteva farsi trovare lì; chiunque fosse, il
gran sacerdote, o uno dei suoi allievi, lei non voleva essere smascherata. Discese
in fretta gli ultimi gradini che la separavano dal fondo e si nascose, come poté,
in una delle nicchie votive che notò nella luce che la luna rifletteva
nell’acqua. L’acqua, in quel tratto iniziale le aveva bagnato i piedi sino alle
caviglie, ma quel provvidenziale rifugio, addosso alla parete interna del
pozzo, la sottrasse all’acqua e alla vista diretta dei nuovi arrivati.
Si augurò che l’acqua non
proiettasse la sua ombra, com’era avvenuto al mattino, con l’ombra del
gran sacerdote. Si tranquillizzò guardando lei stessa nello specchio d’acqua.
Non vi erano ombre alcune, né di lei, né di quelli che stavano sopra di lei. Ma
le voci, invece, si erano fatte più distinte. La prima voce che riconobbe fu
quella di suo fratello Damasu.
Si fece forza per non
uscire ad abbracciarlo e spezzare così quell’angoscia che l’attanagliava.
Qualcosa di misterioso le imponeva però di
restare nascosta. Le ritornò
all’improvviso la stessa
sensazione di forza e coraggio che l’aveva sorpresa al mattino. Suo fratello non era solo. Si udì
un’altra voce più scura. Anche essa aveva qualcosa di vagamente familiare. Ci
furono delle presentazioni e poté udire degli altri nomi. Mandis, Norace,
Arzan, Birrali, Kerbin, Tharrana. Tutti nomi a lei sconosciuti, mai sentiti; a
parte il primo; dove lo aveva udito nominare? Era quello dalla voce scura, che
parlava e parlava, mentre gli altri intervenivano a monosillabi; adesso si
udivano solo Damasu e l’altro, quello della voce scura. Il loro tono era teso,
carico di emozioni; lei le percepiva, anche lì, in fondo al pozzo. A un tratto
dovette trattenere un urlo che le salì impetuoso alla gola. Quegli uomini
parlavano di uccidere il re! Suo padre Itzocar sarebbe caduto sotto i fendenti
del suo pugnale di capo; e per mano di Damasu! Al suo rientro da Gisserri!
Era forse uno scherzo di quel pozzo magico? Gli dei si prendevano gioco di lei perché aveva osato infrangere la legge sacra?
O la volevano punire per avere osato
discendere i gradini sino a immergersi
coi sandali ai piedi nell’acqua? Forse sarebbe impazzita e le acque l’avrebbero
inghiottita per sempre; nessuno l’avrebbe mai ritrovata. Almeno non si sarebbe dovuta
sposare contro la sua volontà.
Un momento! Adesso
parlavano di lei. Altre voci, e risate di complicità, di congratulazioni e di assenso si udivano e scendevano distinte
nel pozzo , per poi perdersi nelle sue cavità. Ma Aristea le afferrava prima che scivolassero via.
Lei avrebbe dovuto
sposare un certo Usala e tutti quegli sconosciuti sarebbero diventati parenti
di Damasu. Anche un certo Gairo! E Kolossoi sarebbe stato grande, come al tempo
dei giganti di pietra che svettavano ovunque, nel villaggio, custodi del passato
e guardiani del presente. Kolossoi sarebbe divenuto anche più grande di allora,
alleandosi a Nora, la città che avrebbe
dominato i mari insieme al villaggio di Damasu!
Oh no! C’era da impazzire
sul serio. Le venne l’impeto di uscire e mettersi a urlare; che lei non si
sarebbe sposata con nessuno; piuttosto voleva morire sull’istante, in quel
pozzo sacro, che aveva osato violare, in barba ai divieti delle antiche
consuetudini. Restò come paralizzata, in attesa che parlassero ancora.
Ma le voci si erano spente. Lei attese un bel po’ prima di trovare la forza di uscire dal suo nascondiglio in fondo al pozzo.
Le gambe le tremavano e
le lacrime le rigavano il volto, senza sosta. Riprese la sua brocca, vuota come
quando era arrivata, sperando di non essere riconosciuta. E se quegli uomini
malvagi l’avessero vista? Se avesse incontrato suo fratello Damasu? Cosa gli
avrebbe detto? Rientrata alla reggia non ci fu verso che prendesse sonno.
Troppi fantasmi le ballavano davanti. Gli
spiriti del pozzo la sbeffeggiavano, i morti della vicina tomba dei giganti si
erano accorti anch’essi della sua presenza e la odiavano, additandola al grande
sacerdote, come una reproba sacrilega. Si alzò dal letto. Doveva confidarsi con
qualcuno. Andò in camera da sua mamma. Appena la vide, Irisha, capì che era
successo qualcosa di molto grave. Abbracciò la sua bambina con fare protettivo.
«Che c’è figlia mia?
Perché piangi? Hai forse sognato s’Orku Malaittu?»
«Vogliono uccidere Itzocar!»
riuscì a dire Aristea stringendosi alla madre. Tremava come una foglia.
Nella fioca luce lunare che penetrava dalle feritoie della sua stanza, sua madre si alzò, fece stendere sua figlia nel letto e si diede da fare per accendere il fuoco. Subito dopo cercò in una delle sette nicchie scavate nella parete, che contenevano le erbe medicinali contro i sette mali: in altrettanti vasi c’erano i rimedi contro i mali dell’apparato digestivo, contro il mal di gola, contro il mal di testa, contro l’ansia, l’aritmia e i disturbi cardiaci, contro l’artrite e il mal di denti, contro i dolori mestruali e contro le ferite di armi da taglio.
Aveva imparato da sua
madre le proprietà di ogni erba e l’ordine in cui disporle, il modo di
somministrarle e le dosi. Ogni infuso, decotto o cataplasma aveva effetti
diversi, a seconda della sua composizione, a seconda che prevalesse un’erba,
una pianta, una foglia o un’essenza di radice.
Mise nell’acqua bollente
dei fiori di melissa, camomilla e menta, in modo che la prima, da sola, fosse
all’incirca il doppio delle altre due prese insieme. Dopo dieci minuti l’infuso
era pronto. Irisha ci soffiò sopra a lungo prima di porgerlo alla figlia, che
per tutto il tempo era rimasta con gli occhi sbarrati e ancora umidi di pianto.
«Bevi piano e raccontami
il tuo sogno!» la incoraggiò porgendole la ciotola con l’infuso.
Aristea ne bevve un lungo
sorso, restituendola alla madre, che pazientemente si era seduta di lato.
«Non è stato un sogno!»
Aristea ci mise un bel po’ a raccontare tutto quanto le era occorso da quando aveva disceso i gradini del pozzo sacro. All’inizio Irisha pensò che sua figlia fosse uscita di senno e che le sue erbe, da sole, non sarebbero bastate a riportare la sua ragione dal fondo del pozzo dove doveva essere precipitata, forse quella stessa mattina. Ma alla fine sua figlia riuscì a convincerla, fornendo tanti di quei dettagli che le fecero capire che quella terribile storia era vera. Conosceva bene sua figlia e sapeva che la ragazza non era affatto una stupida.
Era anzi una grande osservatrice, anche se di
carattere ribelle. D’altronde sua figlia non poteva conoscere Mandis. Non era
neppure nata quando Itzocar lo aveva bandito dal villaggio. E oggi capiva che
invece avrebbe dovuto ucciderlo, come imponevano le leggi antiche. Un nemico
che vive è un nemico che ti odierà per sempre. E una vendetta che arriverà a
colpirti, comunque, prima o poi.
Evitò naturalmente di
rimproverarla per aver violato le leggi sacre del villaggio. Anzi, se la storia
fosse risultata autentica, come in effetti sembrava, quella condotta sacrilega
era da ricondurre alla volontà degli dei delle acque, che da sempre
proteggevano Itzocar.
Da quando era nato,
secondo i racconti che aveva udito dai vecchi; da quando vincitore su Mandis,
nel momento in cui l’aveva atterrato nell’ultimo duello per la conquista del
trono, la pioggia aveva cominciato a cadere dal cielo.
«Dormiamo, ora, figlia mia» disse Irisha accingendosi a spegnere il fuoco. «Domani ne parlerò con Elki. Ma tu devi promettermi di non parlarne con nessuno. Se c’è una congiura contro il re, potrebbero esserci delle spie, anche nei visi di chi si professa amico. Mandis ha ancora degli amici, qui al villaggio, e la sua famiglia è una grande famiglia: una delle più antiche e numerose di Kolossoi!» Aristea promise a sua madre di non parlare, ma prima chiese di essere perdonata per quello che aveva fatto. Non solo per il sacrilegio del pozzo, ma per essersi ribellata alla volontà di suo padre.
Promise, con le lacrime
agli occhi, che se suo padre si fosse salvato, essa avrebbe acconsentito alla
sua volontà e avrebbe sposato Arca
Salmàn, il figlio del capo tribù di Gisserri. L’antico alleato di suo padre e
della sua gente. Sua madre l’ abbracciò con grande trasporto, benedicendola per
le sue parole e per i suoi sentimenti.
«Stanotte è meglio che tu
dorma accanto a me. Nel posto vuoto di tuo padre!» le disse con dolcezza.
Aveva il cuore pieno di orgoglio per quella
sua figlia. Anche se adesso i suoi pensieri e il suo cuore erano pieni di ansia
e di preoccupazione per tutto quello che comunque era accaduto e per tutto
quanto stava comunque per accadere. Per una figlia che ritrovava si accorgeva
che all’orizzonte si profilava la perdita del suo figlio maggiore.
E comunque fosse finita quella brutta storia,
la sua vita, la sua famiglia, dopo non sarebbe mai più stata la stessa. Irisha presagiva tutto questo, nel suo cuore;
e i suoi presagi raramente si sbagliavano. Ma era anche una donna forte; la
regina, moglie e figlia di un re pastore, discendente di donne e uomini che
avevano saputo affrontare carestie, lotte, disgrazie, guerre fratricide e
assalti esterni. Avrebbero superato anche quella tragedia. Aristea, intanto,
dopo tante notti inquiete, sfinita dalle peripezie della sera, ma
tranquillizzata dai suoi proponimenti e dalla presenza di sua mamma, per la
prima volta, dopo innumerevoli notti di sonno agitato, si era addormentata
serenamente.
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