martedì 25 marzo 2025

I Thirsenoisin

 

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Capitolo 6

Aristea era rimasta davvero impressionata quando, al mattino, su invito del gran sacerdote Elki, aveva partecipato a una cerimonia propiziatoria al pozzo sacro di Turas, poco distante dalla reggia, nei pressi delle tombe dove riposavano, nel loro sonno eterno, gli antenati del villaggio.  Il rito era officiato per ingraziare agli dei il viaggio che Itzocar e il suo seguito avevano intrapreso il giorno prima per partecipare al raduno settennale delle tribù federate al santuario del villaggio nuragico di Gisserri.  Damasu era partito presto per degli affari e Rumisu era su, nei pascoli, a vigilare sulle innumerevoli greggi che appartenevano alla loro famiglia, le più numerose e profittevoli di tutte; quindi era toccato a lei e a sua madre Irisha partecipare in rappresentanza della famiglia reale.

«Tholoi, Dedaloia, Iaccu, Maimone, Dumuzu, Babai, Attis e Adone!», era stato l’incipit della giaculatoria che il gran sacerdote Elki aveva iniziato a recitare, scendendo i gradini delle scale che conducevano alla base del pozzo sacro, per deporre il contenuto del bacile con il sangue dei capretti offerti in sacrificio agli dei delle acque.

Solo il gran sacerdote poteva scendere quei sacri gradini, aveva sempre sentito dire Aristea. Mentre Elki scendeva, col suo incedere lento e solenne, Aristea aveva visto l’ombra del gran sacerdote, sdoppiarsi e capovolgersi, riflessa sull’acqua e sulla parete di fronte alle scale. Tutti i presenti avevano trattenuto il fiato a quella magica visione. Lei aveva indicato quell’eccezionale fenomeno a sua madre, che le stava a fianco; nella sua giovane ingenuità non aveva capito che tutti gli altri presenti, invece, in qualche modo, se l’aspettavano; forse l’avevano osservato altre volte; o magari ne avevano sentito parlare. Sua madre le fece un cenno impercettibile come per dirle di tacere e di osservare con attenzione. Ma il gesto, in realtà, voleva suggerirle di guardare e imparare.  Aristea poté sentire il rumore del sangue versato nell’acqua, prima che il gran sacerdote si chinasse per sciacquare il bacile, in maniera che niente andasse perduto. Con l’acqua che riportò su, asperse i presenti, cominciando da sua madre e da lei; tutti chinarono il capo per ricevere meglio quella benedizione. Elki continuava a recitare le sue misteriose giaculatorie, con una cantilena che quasi rapiva in estasi l’animo turbato di Aristea.  Fu in quel preciso istante che decise che sarebbe tornata al pozzo, da sola. Aveva qualcosa da chiedere anche lei agli dei dell’acqua, ed era qualcosa che solo lei poteva chiedere. Avvertì quell’esigenza come una sfida. Chi lo aveva stabilito che solo il gran sacerdote potesse interpellare gli dei? Perché gli uomini dovevano sempre imporre la loro volontà escludendo le donne da ogni decisione?

In quel turbamento le parve quasi che fossero gli stessi dei delle acque a suggerirle quei pensieri e a infonderle il coraggio di sfidare le convenzioni sociali di quella società arcaica e patriarcale. Il sole emanava ancora i suoi riverberi di luce quando Aristea, lasciata la reggia, nelle vesti di un’anonima popolana, uscì e si avviò in direzione della fonte, con un recipiente in mano,  come una qualsiasi donna che avesse dimenticato di provvedersi dell’acqua necessaria per la cena.

Solo che invece di svoltare a sinistra, verso la  fonte,  dove tutti riempivano le loro brocche, lei tirò dritta e si diresse con passo deciso verso il declivio che conduceva al pozzo sacro. Gran parte del coraggio che aveva sentito riscaldarle il petto al mattino, era però scomparso. Il cuore le batteva forte, come non lo aveva mai sentito battere. Ebbe l’impulso di tornare indietro, presa dal terrore di commettere qualcosa di irreparabile che potesse nuocere a lei e alla sua famiglia. Ma il suo orgoglio riuscì ad avere la meglio sulla paura. Posò il bacile sui banchi dell’ingresso e prese a scendere i gradini. Ad ogni passo sentiva il suo cuore battere sempre più forte. Non era sicura che sarebbe giunta ai piedi della scalinata in pietra. Stava per risalire, terrorizzata che il cuore le potesse scoppiare in petto, quando udì delle voci. Il suo istinto la rese di colpo più razionale: non poteva farsi trovare lì; chiunque fosse, il gran sacerdote, o uno dei suoi allievi, lei non voleva essere smascherata. Discese in fretta gli ultimi gradini che la separavano dal fondo e si nascose, come poté, in una delle nicchie votive che notò nella luce che la luna rifletteva nell’acqua. L’acqua, in quel tratto iniziale le aveva bagnato i piedi sino alle caviglie, ma quel provvidenziale rifugio, addosso alla parete interna del pozzo, la sottrasse all’acqua e alla vista diretta dei nuovi arrivati.


Si augurò che l’acqua non proiettasse la  sua ombra,  com’era avvenuto al mattino, con l’ombra del gran sacerdote. Si tranquillizzò guardando lei stessa nello specchio d’acqua. Non vi erano ombre alcune, né di lei, né di quelli che stavano sopra di lei. Ma le voci, invece, si erano fatte più distinte. La prima voce che riconobbe fu quella di suo fratello Damasu.

Si fece forza per non uscire ad abbracciarlo e spezzare così quell’angoscia che l’attanagliava. Qualcosa di misterioso  le imponeva però di restare nascosta. Le ritornò  all’improvviso  la stessa sensazione di forza e coraggio che l’aveva sorpresa al  mattino. Suo fratello non era solo. Si udì un’altra voce più scura. Anche essa    aveva qualcosa di vagamente familiare. Ci furono delle presentazioni e poté udire degli altri nomi. Mandis, Norace, Arzan, Birrali, Kerbin, Tharrana. Tutti nomi a lei sconosciuti, mai sentiti; a parte il primo; dove lo aveva udito nominare? Era quello dalla voce scura, che parlava e parlava, mentre gli altri intervenivano a monosillabi; adesso si udivano solo Damasu e l’altro, quello della voce scura. Il loro tono era teso, carico di emozioni; lei le percepiva, anche lì, in fondo al pozzo. A un tratto dovette trattenere un urlo che le salì impetuoso alla gola. Quegli uomini parlavano di uccidere il re! Suo padre Itzocar sarebbe caduto sotto i fendenti del suo pugnale di capo; e per mano di Damasu! Al suo rientro da Gisserri!

Era forse uno scherzo di quel pozzo magico? Gli dei si prendevano gioco di lei perché aveva osato infrangere la legge sacra?

 O la volevano punire per avere osato discendere  i gradini sino a immergersi coi sandali ai piedi nell’acqua? Forse sarebbe impazzita e le acque l’avrebbero inghiottita per sempre; nessuno l’avrebbe mai ritrovata. Almeno non si sarebbe dovuta sposare contro la sua volontà.

Un momento! Adesso parlavano di lei. Altre voci, e risate di complicità, di congratulazioni  e di assenso si udivano e scendevano distinte nel pozzo , per poi perdersi nelle sue cavità. Ma Aristea  le afferrava prima che scivolassero via.

Lei avrebbe dovuto sposare un certo Usala e tutti quegli sconosciuti sarebbero diventati parenti di Damasu. Anche un certo Gairo! E Kolossoi sarebbe stato grande, come al tempo dei giganti di pietra che svettavano ovunque, nel villaggio, custodi del passato e guardiani del presente. Kolossoi sarebbe divenuto anche più grande di allora, alleandosi a  Nora, la città che avrebbe dominato i mari insieme al villaggio di Damasu!

Oh no! C’era da impazzire sul serio. Le venne l’impeto di uscire e mettersi a urlare; che lei non si sarebbe sposata con nessuno; piuttosto voleva morire sull’istante, in quel pozzo sacro, che aveva osato violare, in barba ai divieti delle antiche consuetudini. Restò come paralizzata, in attesa che parlassero ancora.

Ma le voci si erano spente. Lei attese un bel po’ prima di trovare la forza di uscire dal suo nascondiglio in fondo al pozzo.

Le gambe le tremavano e le lacrime le rigavano il volto, senza sosta. Riprese la sua brocca, vuota come quando era arrivata, sperando di non essere riconosciuta. E se quegli uomini malvagi l’avessero vista? Se avesse incontrato suo fratello Damasu? Cosa gli avrebbe detto? Rientrata alla reggia non ci fu verso che prendesse sonno. Troppi fantasmi le ballavano davanti.  Gli spiriti del pozzo la sbeffeggiavano, i morti della vicina tomba dei giganti si erano accorti anch’essi della sua presenza e la odiavano, additandola al grande sacerdote, come una reproba sacrilega. Si alzò dal letto. Doveva confidarsi con qualcuno. Andò in camera da sua mamma. Appena la vide, Irisha, capì che era successo qualcosa di molto grave. Abbracciò la sua bambina con fare protettivo.

«Che c’è figlia mia? Perché piangi? Hai forse sognato s’Orku Malaittu?»

«Vogliono uccidere Itzocar!» riuscì a dire Aristea stringendosi alla madre. Tremava come una foglia.

Nella fioca luce lunare che penetrava dalle feritoie della sua stanza, sua madre si alzò, fece stendere sua figlia nel letto e si diede da fare per accendere il fuoco. Subito dopo cercò in una delle sette nicchie scavate nella parete, che contenevano le erbe medicinali contro i sette mali: in altrettanti vasi c’erano i rimedi contro i mali dell’apparato digestivo, contro il mal di gola, contro il mal di testa, contro l’ansia, l’aritmia e i disturbi cardiaci, contro l’artrite e  il mal di denti, contro i dolori mestruali e contro le ferite di armi da taglio.

Aveva imparato da sua madre le proprietà di ogni erba e l’ordine in cui disporle, il modo di somministrarle e le dosi. Ogni infuso, decotto o cataplasma aveva effetti diversi, a seconda della sua composizione, a seconda che prevalesse un’erba, una pianta, una foglia o un’essenza di  radice.

Mise nell’acqua bollente dei fiori di melissa, camomilla e menta, in modo che la prima, da sola, fosse all’incirca il doppio delle altre due prese insieme. Dopo dieci minuti l’infuso era pronto. Irisha ci soffiò sopra a lungo prima di porgerlo alla figlia, che per tutto il tempo era rimasta con gli occhi sbarrati e ancora umidi di pianto.

«Bevi piano e raccontami il tuo sogno!» la incoraggiò porgendole la ciotola con l’infuso.

Aristea ne bevve un lungo sorso, restituendola alla madre, che pazientemente si era seduta di lato.

«Non è stato un sogno!»

Aristea ci mise un bel po’ a raccontare tutto quanto le era occorso da quando aveva disceso i gradini  del pozzo sacro.  All’inizio Irisha pensò che sua figlia fosse uscita di senno e che le sue erbe, da sole, non sarebbero bastate a riportare la sua ragione dal fondo del pozzo dove doveva  essere precipitata, forse quella stessa mattina. Ma alla fine sua figlia riuscì a convincerla, fornendo tanti di quei dettagli che le fecero capire che quella terribile storia era vera. Conosceva bene sua figlia e sapeva che la ragazza non era affatto una stupida.

 Era anzi una grande osservatrice, anche se di carattere ribelle. D’altronde sua figlia non poteva conoscere Mandis. Non era neppure nata quando Itzocar lo aveva bandito dal villaggio. E oggi capiva che invece avrebbe dovuto ucciderlo, come imponevano le leggi antiche. Un nemico che vive è un nemico che ti odierà per sempre. E una vendetta che arriverà a colpirti, comunque, prima o poi.

Evitò naturalmente di rimproverarla per aver violato le leggi sacre del villaggio. Anzi, se la storia fosse risultata autentica, come in effetti sembrava, quella condotta sacrilega era da ricondurre alla volontà degli dei delle acque, che da sempre proteggevano Itzocar.

Da quando era nato, secondo i racconti che aveva udito dai vecchi; da quando vincitore su Mandis, nel momento in cui l’aveva atterrato nell’ultimo duello per la conquista del trono, la pioggia aveva cominciato a cadere dal cielo.

«Dormiamo, ora, figlia mia» disse Irisha accingendosi a spegnere il fuoco. «Domani ne parlerò con Elki. Ma tu devi promettermi di non parlarne con nessuno. Se c’è una congiura contro il re, potrebbero esserci delle spie, anche nei visi di chi si professa amico. Mandis ha ancora degli amici, qui al villaggio, e la sua famiglia è una grande famiglia: una delle più antiche e numerose di Kolossoi!» Aristea promise a sua madre di non parlare,  ma prima chiese  di essere perdonata per quello che aveva fatto. Non solo per il sacrilegio del pozzo, ma per essersi ribellata alla volontà di suo padre.

Promise, con le lacrime agli occhi, che se suo padre si fosse salvato, essa avrebbe acconsentito alla sua  volontà e avrebbe sposato Arca Salmàn, il figlio del capo tribù di Gisserri. L’antico alleato di suo padre e della sua gente. Sua madre l’ abbracciò con grande trasporto, benedicendola per le sue parole e per i suoi sentimenti.

«Stanotte è meglio che tu dorma accanto a me. Nel posto vuoto di tuo padre!» le disse con dolcezza.

 Aveva il cuore pieno di orgoglio per quella sua figlia. Anche se adesso i suoi pensieri e il suo cuore erano pieni di ansia e di preoccupazione per tutto quello che comunque era accaduto e per tutto quanto stava comunque per accadere. Per una figlia che ritrovava si accorgeva che all’orizzonte si profilava la perdita del suo figlio maggiore.

 E comunque fosse finita quella brutta storia, la sua vita, la sua famiglia, dopo non sarebbe mai più stata la stessa.  Irisha presagiva tutto questo, nel suo cuore; e i suoi presagi raramente si sbagliavano. Ma era anche una donna forte; la regina, moglie e figlia di un re pastore, discendente di donne e uomini che avevano saputo affrontare carestie, lotte, disgrazie, guerre fratricide e assalti esterni. Avrebbero superato anche quella tragedia. Aristea, intanto, dopo tante notti inquiete, sfinita dalle peripezie della sera, ma tranquillizzata dai suoi proponimenti e dalla presenza di sua mamma, per la prima volta, dopo innumerevoli notti di sonno agitato, si era addormentata serenamente.

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