https://www.hoepli.it/autore/basile_ignazio_salvatore.html?autore=%5b%5bbasile+ignazio+salvatore%5d%5d&
Amedeo Pistis, anche se
illetterato, era un uomo intelligente. Aveva fiutato che quell’aria di rivolta
che aveva scombussolato la Sardegna, così come tutta l’Europa alla fine del
secolo diciottesimo, era foriera di importanti cambiamenti e non si era fatto
cogliere impreparato. Non aveva partecipato direttamente ai moti angioini del
’94 di cui, nella Villa, erano giunti soltanto gli echi attenuati e i riverberi
ideologici.
Però aveva investito una
parte del suo gruzzoletto sul suo quinto e ultimo figlio, Luigi Angelino, nato
nel ‘97, facendolo studiare dagli Scolopi, a Cagliari.
L’investimento si era
mostrato quanto mai azzeccato grazie alle qualità e all’applicazione che Luigi
Angelino aveva evidenziato negli studi.
Segnalato dai precettori tra
i migliori e più brillanti studenti a conclusione degli studi, fu assunto come
scrivano all’Intendenza provinciale, che all’epoca aveva la sede a Villacidro.
Fu da quella posizione che poco prima del 1820 Luigi Angelino allertò il suo
genitore Amedeo che le immense proprietà indivise dei
viddazzoni, nei territori di tutto il Regno di Sardegna, stavano per essere
aboliti, per consentire alla proprietà individuale di divenire perfetta e che
occorreva attrezzarsi per chiudere quante più terre si poteva, perché il primo
che recingeva quegli immensi terreni comunitari, ne diveniva il proprietario in
maniera definitiva.
Quello era il
nuovo che avanzava, l’ondata di ritorno e conclusiva di quell’afflato
rivoluzionario del secolo precedente, che avrebbe voluto spazzare via il
vecchio regime con la forza ma che invece, per concludere la sua opera,
abbisognava soltanto di altro tempo. E il tempo adesso era giunto.
I suoi compaesani
si chiesero a lungo e inutilmente per chi fossero quei carichi continui di
legname e di massi che andavano e venivano in lungo e in largo sui carri dei
suoi buoi e che Amedeo andava ammassando nel cortile della sua casa e in alcuni
punti strategici che lui aveva adocchiato come i migliori per il movimento che
aveva in mente di fare al momento opportuno.
E il momento giusto fu l’autunno del 1820,
subito dopo la pubblicazione del Regio Editto “Sopra le chiudende, sopra i
terreni comuni e della Corona, e sopra i tabacchi, nel Regno di Sardegna”.
Fu allora che i
compaesani capirono a cosa servivano quei massi e quei pali di legno con i
quali Amedeo recintò centinaia di starelli di terreno comunitario, presentando
nel contempo all’Intendenza competente la domanda per chiuderne altrettanti di
quelli soggetti a servitù di pascolo e d’abbeveratoio.
Carlo Emanuele si
ricordava bene di come suo padre aveva formato delle squadre per recintare le
proprietà che aveva adocchiato e di come resistette, negli anni a venire, sia
alla forza fisica degli abbattitori, sognatori e nostalgici del tempo andato,
sia legalmente a chi era convinto di avere ragione a protestare, senza capire
che la legge era stata fatta apposta per recingere.
In giudizio suo
padre vinse tutte le cause intentate, e più tardi, ebbe tempo, modo e soldi per
recingerne anche delle altre, grazie alle entrature che si era create negli
uffici preposti.
E adesso, lui, che
del padre Amedeo aveva ereditato il fiuto della storia, sentiva che stava per
arrivare il momento di accaparrarsi nuovi possedimenti, tra quelle proprietà
feudali che sarebbero presto state riscattate ai vecchi baroni, dove lui
avrebbe messo le sue mani, per papparsene una bella porzione.
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