domenica 24 novembre 2024

I Thirsenoisin




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Capitolo Terzo

Intanto Itzocar ricordava quanto successo con sua figlia. Anche se non poteva certo sapere che la scintilla che aveva avviato quel fuoco parricida nelle vene di Damasu, aveva la sua origine proprio lì, in quel matrimonio pensato per rafforzare la potenza del villaggio attraverso le alleanze con altri capi tribù, come sempre si era fatto a Kolossoi e in tutti i villaggi nuragici.

«Tu devi sposare Arca Salmàn. Sei stata promessa a lui e lo sposerai!»

Aveva voltato le spalle a sua figlia Aristea per dedicarsi  alla vestizione, aiutato da sua moglie Irisha. In giornata avrebbe dovuto dirimere delle controversie di ultima istanza e non aveva tempo da perdere. E poi, i suoi ordini non si discutevano. Nessuno osava metterli in discussione. Discutere un ordine del capo tribù poteva costare la vita. Tutti lo sapevano. Era su questo che si reggeva, a memoria d’uomo, il regno di Kolossoi. Come osava sua figlia, poco più di una bambina, discutere una decisione già presa da lui?

Aristea queste cose le sapeva; dalla mamma aveva ereditato il candore e la bellezza ma anche l’intelligenza istintiva che le consentiva quasi di presagire, con fatalismo tutto femminile, quello che sarebbe accaduto e come doveva comportarsi.  Ma sapeva anche che il suo cuore ribelle e il suo temperamento volitivo (in questo ne aveva preso da suo padre), l’avevano spinta a chiedere udienza e a tentare di far prevalere,  sulla ragione di stato, le sue aspirazioni, i suoi sogni.

 Aveva appreso da tempo di essere stata promessa in sposa, già sette anni prima, al figlio del capo della tribù di Giserri, da sempre loro alleata. All’inizio, nel suo animo di bambina neppure decenne, quella notizia aveva avuto il sapore di un racconto fantastico, simile a quelle storie raccontate da sua nonna nelle notti d’inverno, sulle fate tessitrici, le caprette parlanti e le caverne piene d’oro e di tesori. Ma adesso, da donna, il suo cuore le aveva imposto di gridare la sua voglia di libertà, il suo diritto a sognare. Già da qualche tempo aveva preso a fantasticare sulle città che si stendevano sul mare, oltre gli ultimi villaggi nuragici. Era lì che volava la sua fantasia, era lì che voleva recarsi; era lì che voleva incontrare un uomo che la conducesse in mare, sulla sua nave grande, a visitare nuove città e nuovi mondi. Lei non voleva rinchiudersi in un villaggio, magari un po’ più grande del suo, come era Giserri; ma pur sempre un villaggio.  Per ora non aveva potuto fare di più che scappare, piangendo, quando suo padre le aveva voltato le spalle in quel modo altero, freddo e indifferente.

«Lo odio, lo odio, lo odio!» aveva gridato singhiozzando, battendo il pugno sul letto, dove si era buttata disperata. L’impotenza che sentiva pervadere il suo animo, aumentava di più la sua rabbia e il suo dolore.

Suo fratello le si avvicinò e cercò di consolarla, accarezzandole i lunghi capelli castani.

«Coraggio, piccola! C’è un rimedio a tutto! Fatti coraggio!»

Aristea, sul momento, non si chiese come mai il suo fratello maggiore fosse accorso così prontamente. Certamente lui le voleva bene, era la sua sorella minore e aveva avuto sempre nei suoi confronti un senso di protezione.

Ma era pur sempre l’erede al trono; e ci teneva a succedere al padre; di questo lui non aveva fatto mai mistero.  Li separavano dieci anni di età; lui, il primogenito, erede al trono, lei l’ultimo frutto dell’amore duraturo tra i suoi genitori; anche se degli altri figli nati in mezzo, solo Rumisu, il terzogenito, era sopravvissuto; tutti gli altri figli, chi per una ragione, chi per l’altra, erano morti nei primi anni di vita.

«Aiutami, Damasu! Io non voglio sposare Salmàn! Io voglio un altro uomo, scelto da me e non da mio padre!» disse abbracciandolo. Forse per lei c’era ancora una speranza di salvare i suoi sogni.

Il giovane ordinò alla serva di andare a preparare un infuso caldo per calmare sua sorella.

«Lo so! So tutto, io!» la rincuorò suo fratello, battendole la mano sulle spalle in modo affettuoso. «Ne parlerò con il saggio Mandis. Nessuno conosce le nostre leggi più di lui e mi saprà consigliare.»

«Perché? Perché veniamo obbligate a sposare un uomo che non amiamo?» gli chiese staccandosi da lui e fissandolo negli occhi.

«Sono le antiche leggi del nostro popolo. Ma vedrai che Mandis saprà trovare una via d’uscita» rispose in maniera sibillina accommiatandosi dalla sorella. E questo bastò per alleviarle momentaneamente il cuore che sentiva oscuro e pesante nel suo petto.

Mentre il sole già iniziava a scaldare la crosta della terra, asciugando la brina caduta nella notte, Itzocar aveva iniziato l’impegnativa udienza.

Non era facile giudicare e il capo tribù preferiva sicuramente le partite di caccia e le riunioni dove si prendevano decisioni per il benessere del villaggio, per la costruzione di nuove opere utili alla difesa dei confini e per il miglioramento dei rapporti di vicinato. Ma pronunciare le sentenze di composizione dei litigi degli abitanti del suo villaggio, oppure per punire certi atteggiamenti lesivi della pacifica convivenza, rientrava tra i doveri fondamentali di un capo tribù. Questo lo aveva imparato dai saggi e dai sacerdoti che lo avevano istruito in giovane età. Inoltre aveva sempre presenti i racconti dei vecchi re, quelli che lo avevano preceduto sul trono di Kolossoi.

Si sforzò di trattenere la sua mente, che lo trasportava a Giserri, nell’alta Marmilla, dove presto si sarebbe dovuto recare, per prender parte al raduno settennale delle grandi tribù nuragiche, nel villaggio del suo amico Hannibaàl.

L’udienza si teneva nella grande sala circolare del mastio orientale, due volte al mese, nel primo giorno di luna ponente e di luna calante, di fronte alle statue colossali che rappresentavano i capitribù di un passato immemore, ma che riviveva grazie alla loro presenza, testimoniando la grandezza passata. Lui sedeva sul trono scolpito nella gradinata, affiancato da sua moglie Irisha e dallo sciamano Elki, le persone di cui si fidava di più in assoluto.

Sua moglie riusciva a vedere delle sfumature importanti che a lui solitamente sfuggivano, mentre Elki sapeva sempre porre le domande giuste al momento giusto. La decisione finale spettava a lui, per legge, ma dall’andamento dell’interrogatorio condotto dallo sciamano e dagli sguardi di sua moglie, lui si sentiva più sicuro sulla decisione da prendere. I contendenti venivano prima sentiti separatamente; poi assistevano insieme alla lettura sentenza. Vi era sempre un quarto uomo del governo che assisteva alle udienze, ma non poteva intervenire per alcuna ragione. Era il rappresentante del capo delle guardie nuragiche. Doveva solo ascoltare e registrare mentalmente la decisione, perché sarebbe spettato alle guardie farla eseguire, in caso di ulteriore dissidio o inadempimento. Ma questo succedeva di rado.

Ad ogni buon conto, fuori dall’aula delle udienze, un drappello di guardie garantiva l’ordine ed era pronto a intervenire per sedare qualunque intemperanza. Ma anche questo era raro. Itzocar godeva di una grande autorevolezza tra il popolo; era un uomo ponderato nelle decisioni ma aveva il pugno di ferro con quelli che si ribellavano e non rispettavano l’ordine costituito. Il mancato rispetto di una sua sentenza poteva voler dire la morte, o l’esilio, nella migliore delle ipotesi. Di preferenza il re di Kolossoi  non amava ricorrere all’ordalia; aveva una sorta di diffidenza per quel tipo di giudizio basato sul giuramento e sul responso misterioso e inarrivabile degli dei.

Lui preferiva che si pervenisse a una sentenza fondata sulle consuetudini, sui fatti e sul ragionamento. Finché ciò era possibile, ovviamente.

 I casi da trattare riguardavano le dispute più diverse: litigi sui furti di bestiame; furti di derrate alimentari; contestazioni sul possesso di oggetti personali; inadempimento dei versamenti dovuti all’Annona; inadempimento dei contratti stipulati tra privati; litigi tra coniugi e tra figli e genitori; aggressioni, risse, lesioni gravi e omicidi. I casi più complessi erano quelli che riguardavano membri di altre tribù, di solito quelle viciniori, che avevano i territori confinanti con Kolossoi. In tali casi occorreva coinvolgere le autorità di appartenenza, prima di prendere una decisione. Insomma, c’era sempre un bel da fare, considerando che la tribù di Kolossoi contava quasi cinquemila abitanti, sparsi su un territorio sterminato, tutt’attorno al villaggio nuragico principale;  per tutta la parte bassa dell’Altipiano della Giara sino al confine della pianura del Campidano, si estendevano una miriade di piccoli villaggi nuragici, capanne sparse, minuscoli agglomerati, case rurali di fango e paglia; e tutti facevano capo al villaggio principale e alla reggia nuragica, almeno per le cause di seconda e ultima istanza, quando le autorità locali non erano riuscite a placare gli animi e a comporre la controversia.

Per fortuna l’udienza si chiuse quando il sole era allo zenit e non ci fu bisogno di riprendere dopo la pausa del pranzo.

 Le libagioni, che invero sulla tavola di Itzocar non scarseggiavano mai, nei giorni di udienza si arricchivano dei doni portati dai contendenti: vini di ogni tipo e gradazione, particolarmente apprezzati dal capo tribù, agnellini e volatili domestici, selvaggina, pesci da arrostire, formaggi, frutta, verdure e dolci tipici venivano sapientemente gestiti da Irisha che non mancava mai di beneficiare le vedove e gli orfani, più bisognosi degli altri di sostentamento e di aiuto materiale.

Dopo pranzo si ritirò per il suo consueto riposo. Poté finalmente liberare la sua mente, sbrigliandola verso l’imminente raduno settennale. Cogli occhi della mente vide il profilo del villaggio di Giserri, col suo doppio ordine di torri, prima cinque, attorno a quella centrale, poi sette e d’intorno le capanne con la sommità di frasche.

Si addormentò così, pensando al suo amico Hannibaàl e agli altri capi che avrebbe presto incontrato e con i quali avrebbe potuto concordare una comune strategia per la gestione della difficile situazione, fattasi più stringente e pesante per la pressione che le città stato dei Shardana esercitavano sui villaggi, nel tentativo, sempre meno nascosto, di espandere la loro cultura, i loro traffici e la loro influenza politica che, al contrario di quella nuragica, sembrava in ascesa.

Toccava a loro predisporre le contromisure per salvaguardare la loro sopravvivenza.

Sognò che i giganti dei  suoi antenati si risvegliavano dal sonno secolare e  affiancati dai possenti guerrieri ricacciavano in mare gli odiati Shardana e la Sardegna tornava libera e grande, come in passato e per sempre.

Al suo risveglio il mondo gli sembrò meno brutto e il futuro meno incerto. Diede gli ordini necessari a preparare il suo imminente viaggio.

 


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