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Capitolo
Terzo
Intanto Itzocar ricordava
quanto successo con sua figlia. Anche se non poteva certo sapere che la
scintilla che aveva avviato quel fuoco parricida nelle vene di Damasu, aveva la
sua origine proprio lì, in quel matrimonio pensato per rafforzare la potenza del
villaggio attraverso le alleanze con altri capi tribù, come sempre si era fatto
a Kolossoi e in tutti i villaggi nuragici.
«Tu devi sposare Arca Salmàn.
Sei stata promessa a lui e lo sposerai!»
Aveva voltato le spalle a
sua figlia Aristea per dedicarsi alla
vestizione, aiutato da sua moglie Irisha. In giornata avrebbe dovuto dirimere
delle controversie di ultima istanza e non aveva tempo da perdere. E poi, i
suoi ordini non si discutevano. Nessuno osava metterli in discussione.
Discutere un ordine del capo tribù poteva costare la vita. Tutti lo sapevano.
Era su questo che si reggeva, a memoria d’uomo, il regno di Kolossoi. Come osava
sua figlia, poco più di una bambina, discutere una decisione già presa da lui?
Aristea queste cose le
sapeva; dalla mamma aveva ereditato il candore e la bellezza ma anche l’intelligenza
istintiva che le consentiva quasi di presagire, con fatalismo tutto femminile,
quello che sarebbe accaduto e come doveva comportarsi. Ma sapeva anche che il suo cuore ribelle e il
suo temperamento volitivo (in questo ne aveva preso da suo padre), l’avevano
spinta a chiedere udienza e a tentare di far prevalere, sulla ragione di stato, le sue aspirazioni, i
suoi sogni.
Aveva appreso da tempo di essere stata
promessa in sposa, già sette anni prima, al figlio del capo della tribù di Giserri,
da sempre loro alleata. All’inizio, nel suo animo di bambina neppure decenne,
quella notizia aveva avuto il sapore di un racconto fantastico, simile a quelle
storie raccontate da sua nonna nelle notti d’inverno, sulle fate tessitrici, le
caprette parlanti e le caverne piene d’oro e di tesori. Ma adesso, da donna, il
suo cuore le aveva imposto di gridare la sua voglia di libertà, il suo diritto
a sognare. Già da qualche tempo aveva preso a fantasticare sulle città che si
stendevano sul mare, oltre gli ultimi villaggi nuragici. Era lì che volava la
sua fantasia, era lì che voleva recarsi; era lì che voleva incontrare un uomo che
la conducesse in mare, sulla sua nave grande, a visitare nuove città e nuovi
mondi. Lei non voleva rinchiudersi in un villaggio, magari un po’ più grande del
suo, come era Giserri; ma pur sempre un villaggio. Per ora non aveva potuto fare di più che scappare,
piangendo, quando suo padre le aveva voltato le spalle in quel modo altero,
freddo e indifferente.
«Lo odio, lo odio, lo
odio!» aveva gridato singhiozzando, battendo il pugno sul letto, dove si era
buttata disperata. L’impotenza che sentiva pervadere il suo animo, aumentava di
più la sua rabbia e il suo dolore.
Suo fratello le si
avvicinò e cercò di consolarla, accarezzandole i lunghi capelli castani.
«Coraggio, piccola! C’è
un rimedio a tutto! Fatti coraggio!»
Aristea, sul momento, non si chiese come mai il suo fratello maggiore fosse accorso così prontamente. Certamente lui le voleva bene, era la sua sorella minore e aveva avuto sempre nei suoi confronti un senso di protezione.
Ma era pur sempre l’erede
al trono; e ci teneva a succedere al padre; di questo lui non aveva fatto mai
mistero. Li separavano dieci anni di età;
lui, il primogenito, erede al trono, lei l’ultimo frutto dell’amore duraturo
tra i suoi genitori; anche se degli altri figli nati in mezzo, solo Rumisu, il
terzogenito, era sopravvissuto; tutti gli altri figli, chi per una ragione, chi
per l’altra, erano morti nei primi anni di vita.
«Aiutami, Damasu! Io non
voglio sposare Salmàn! Io voglio un altro uomo, scelto da me e non da mio padre!»
disse abbracciandolo. Forse per lei c’era ancora una speranza di salvare i suoi
sogni.
Il giovane ordinò alla
serva di andare a preparare un infuso caldo per calmare sua sorella.
«Lo so! So tutto, io!» la
rincuorò suo fratello, battendole la mano sulle spalle in modo affettuoso. «Ne
parlerò con il saggio Mandis. Nessuno conosce le nostre leggi più di lui e mi
saprà consigliare.»
«Perché? Perché veniamo
obbligate a sposare un uomo che non amiamo?» gli chiese staccandosi da lui e
fissandolo negli occhi.
«Sono le antiche leggi del nostro popolo. Ma vedrai che Mandis saprà trovare una via d’uscita» rispose in maniera sibillina accommiatandosi dalla sorella. E questo bastò per alleviarle momentaneamente il cuore che sentiva oscuro e pesante nel suo petto.
Mentre il sole già
iniziava a scaldare la crosta della terra, asciugando la brina caduta nella
notte, Itzocar aveva iniziato l’impegnativa udienza.
Non era facile giudicare
e il capo tribù preferiva sicuramente le partite di caccia e le riunioni dove si
prendevano decisioni per il benessere del villaggio, per la costruzione di
nuove opere utili alla difesa dei confini e per il miglioramento dei rapporti
di vicinato. Ma pronunciare le sentenze di composizione dei litigi degli
abitanti del suo villaggio, oppure per punire certi atteggiamenti lesivi della
pacifica convivenza, rientrava tra i doveri fondamentali di un capo tribù.
Questo lo aveva imparato dai saggi e dai sacerdoti che lo avevano istruito in
giovane età. Inoltre aveva sempre presenti i racconti dei vecchi re, quelli che
lo avevano preceduto sul trono di Kolossoi.
Si sforzò di trattenere
la sua mente, che lo trasportava a Giserri, nell’alta Marmilla, dove presto si
sarebbe dovuto recare, per prender parte al raduno settennale delle grandi tribù
nuragiche, nel villaggio del suo amico Hannibaàl.
L’udienza si teneva nella grande sala circolare del mastio orientale, due volte al mese, nel primo giorno di luna ponente e di luna calante, di fronte alle statue colossali che rappresentavano i capitribù di un passato immemore, ma che riviveva grazie alla loro presenza, testimoniando la grandezza passata. Lui sedeva sul trono scolpito nella gradinata, affiancato da sua moglie Irisha e dallo sciamano Elki, le persone di cui si fidava di più in assoluto.
Sua moglie riusciva a
vedere delle sfumature importanti che a lui solitamente sfuggivano, mentre Elki
sapeva sempre porre le domande giuste al momento giusto. La decisione finale
spettava a lui, per legge, ma dall’andamento dell’interrogatorio condotto dallo
sciamano e dagli sguardi di sua moglie, lui si sentiva più sicuro sulla
decisione da prendere. I contendenti venivano prima sentiti separatamente; poi
assistevano insieme alla lettura sentenza. Vi era sempre un quarto uomo del
governo che assisteva alle udienze, ma non poteva intervenire per alcuna ragione.
Era il rappresentante del capo delle guardie nuragiche. Doveva solo ascoltare e
registrare mentalmente la decisione, perché sarebbe spettato alle guardie farla
eseguire, in caso di ulteriore dissidio o inadempimento. Ma questo succedeva di
rado.
Ad ogni buon conto, fuori dall’aula delle udienze, un drappello di guardie garantiva l’ordine ed era pronto a intervenire per sedare qualunque intemperanza. Ma anche questo era raro. Itzocar godeva di una grande autorevolezza tra il popolo; era un uomo ponderato nelle decisioni ma aveva il pugno di ferro con quelli che si ribellavano e non rispettavano l’ordine costituito. Il mancato rispetto di una sua sentenza poteva voler dire la morte, o l’esilio, nella migliore delle ipotesi. Di preferenza il re di Kolossoi non amava ricorrere all’ordalia; aveva una sorta di diffidenza per quel tipo di giudizio basato sul giuramento e sul responso misterioso e inarrivabile degli dei.
Lui preferiva che si pervenisse
a una sentenza fondata sulle consuetudini, sui fatti e sul ragionamento. Finché
ciò era possibile, ovviamente.
I casi da trattare riguardavano le dispute più
diverse: litigi sui furti di bestiame; furti di derrate alimentari; contestazioni
sul possesso di oggetti personali; inadempimento dei versamenti dovuti all’Annona;
inadempimento dei contratti stipulati tra privati; litigi tra coniugi e tra figli
e genitori; aggressioni, risse, lesioni gravi e omicidi. I casi più complessi
erano quelli che riguardavano membri di altre tribù, di solito quelle viciniori,
che avevano i territori confinanti con Kolossoi. In tali casi occorreva
coinvolgere le autorità di appartenenza, prima di prendere una decisione. Insomma,
c’era sempre un bel da fare, considerando che la tribù di Kolossoi contava
quasi cinquemila abitanti, sparsi su un territorio sterminato, tutt’attorno al
villaggio nuragico principale; per tutta
la parte bassa dell’Altipiano della Giara sino al confine della pianura del Campidano,
si estendevano una miriade di piccoli villaggi nuragici, capanne sparse, minuscoli
agglomerati, case rurali di fango e paglia; e tutti facevano capo al villaggio
principale e alla reggia nuragica, almeno per le cause di seconda e ultima
istanza, quando le autorità locali non erano riuscite a placare gli animi e a comporre
la controversia.
Per fortuna l’udienza si chiuse quando il sole era allo zenit e non ci fu bisogno di riprendere dopo la pausa del pranzo.
Le libagioni, che invero sulla tavola di Itzocar
non scarseggiavano mai, nei giorni di udienza si arricchivano dei doni portati
dai contendenti: vini di ogni tipo e gradazione, particolarmente apprezzati dal
capo tribù, agnellini e volatili domestici, selvaggina, pesci da arrostire, formaggi,
frutta, verdure e dolci tipici venivano sapientemente gestiti da Irisha che non
mancava mai di beneficiare le vedove e gli orfani, più bisognosi degli altri di
sostentamento e di aiuto materiale.
Dopo pranzo si ritirò per
il suo consueto riposo. Poté finalmente liberare la sua mente, sbrigliandola verso
l’imminente raduno settennale. Cogli occhi della mente vide il profilo del
villaggio di Giserri, col suo doppio ordine di torri, prima cinque, attorno a
quella centrale, poi sette e d’intorno le capanne con la sommità di frasche.
Si addormentò così, pensando
al suo amico Hannibaàl e agli altri capi che avrebbe presto incontrato e con i
quali avrebbe potuto concordare una comune strategia per la gestione della
difficile situazione, fattasi più stringente e pesante per la pressione che le
città stato dei Shardana esercitavano sui villaggi, nel tentativo, sempre meno
nascosto, di espandere la loro cultura, i loro traffici e la loro influenza
politica che, al contrario di quella nuragica, sembrava in ascesa.
Toccava a loro
predisporre le contromisure per salvaguardare la loro sopravvivenza.
Sognò che i giganti dei suoi antenati si risvegliavano dal sonno secolare
e affiancati dai possenti guerrieri
ricacciavano in mare gli odiati Shardana e la Sardegna tornava libera e grande,
come in passato e per sempre.
Al suo risveglio il mondo
gli sembrò meno brutto e il futuro meno incerto. Diede gli ordini necessari a
preparare il suo imminente viaggio.
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