domenica 9 febbraio 2025

Giornata del Ricordo

 


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L’APPELLO DELL’INFOIBATO

Primo Premio Terzo Gruppo - Sezione G

Concorso Letterario Internazionale

 “L’Esodo Istriano-Fiumano-Dalmata”

 

Se trovate in un burrone profondo

uno scheletro legato con il fil di ferro

a un altro scheletro,

legato a un altro scheletro

e a un altro ancora,

quello sono io.

 

Non cercatemi in un fosso qualunque!

Io giaccio in quei recessi contorti

che si chiamano foibe.

Avvolgetemi, ve ne prego,

in un drappo bianco

E restituitemi ai miei cari,

alla mia Patria e alle cose di Dio.

Non odio nessuno e perdono tutti.

Solo un’ultima cosa vi chiedo:

aprite gli occhi dei vostri figli

sulla verità!

 

I Thirsenoisin

 


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Capitolo 4

 

Intanto, nel villaggio di Gisserri, a nord di Kolossoi, alle pendici settentrionali dell’altipiano della Giara, tre grandi eventi animavano tutto il villaggio: il raduno settennale delle nove tribù nuragiche federate; il viaggio iniziatico di Salmàn e il rito propiziatorio della sacerdotessa Gula.

Il consiglio degli anziani, in realtà, aveva delegato il gran sacerdote, Anù, per organizzare il rito propiziatorio, atto ad ingraziarsi il favore degli dei delle acque, mentre aveva preso atto che Salmàn, il figlio del capo tribù, era in età per l’intrapresa del viaggio che lo avrebbe immesso nella vita adulta.

Trattandosi di un futuro capo, il consiglio aveva stabilito che Salmàn dovesse stare fuori per almeno sette giorni, con arco, frecce e coltello; partendo a piedi, sarebbe dovuto rientrare con tre cavalli: a dorso di uno dei cavalli ci sarebbe dovuto essere proprio lui, mentre gli altri due cavalli avrebbero dovuto trasportare un cervo maschio e un cinghiale femmina.

Il Consiglio degli Anziani si intrattenne assai più lungamente sul raduno federale che sarebbe iniziato di lì a qualche giorno. Ogni sette anni, da tempo immemore, all’equinozio di primavera, il villaggio di Gisserri aveva l’onore di ospitare il raduno delle tribù nuragiche federate.

 

 

 

 

Com’era costume fu Hannibaàl, in qualità di capo tribù,  a introdurre e a chiudere i lavori. Tutti i membri presero la parola per esprimere il loro punto di vista sul tema che Hannibaàl aveva posto all’ordine del giorno. Il tema era sempre lo stesso da molti anni, al punto che neppure il più vecchio dei membri del Consiglio, ne ricordava un altro più importante, da discutere in preparazione  alle adunanze  federali; era così ormai da molto tempo, da quando gli Shardana si erano insediati nelle coste dell’isola: prima avevano fondato Karalis, poi  Nora,  Cornus, e Solki; poi, via, via, ne erano sorte altre ancora: se ne contavano ormai ben tredici, dalla più meridionale, Karalis, alla più settentrionale, Solki, passando per Tarros, Turris, Feronia, Bithia e Nabui. E piano, piano queste città, composte da provetti navigatori, forti guerrieri e abili commercianti, cercavano nuovo spazio verso l’interno, erodendo sempre più terreno all’influenza dei villaggi nuragici e introducendo le loro merci, la loro cultura e le loro usanze. La presenza dei nuovi venuti, se non altro, aveva fatto diminuire le guerre tra le tribù nuragiche, che potevano vantare, da molto tempo, un periodo di relativa pace. Ma la sindrome dell’accerchiamento eraandato crescendo di pari passo tra le popolazioni nuragiche.

Il problema che si era posto sin dall’inizio per i bellicosi e fieri nuragici era dunque quello dell’atteggiamento corretto da assumere nei confronti dei Shardana.  

 

 

 

 

 

Da sempre si erano formati due schieramenti: quelli che volevano la guerra e quelli che invece invitavano a trovare un modo di vivere insieme; ma possibilmente ognuno a casa sua, chiosavano anche i consiglieri più mansueti.

 La casta dei guerrieri, secondo le storie che si tramandavano oralmente da padre in figlio, all’inizio aveva prevalso. C’erano stati numerosi scontri, con alterne fortune. Ma i Shardana avevano presto lasciato intendere che il loro obiettivo non era quello di conquistare i territori delle tribù nuragiche, strappando loro la sovranità sul popolo e  sulle loro terre; il loro scopo era quello di convivere pacificamente, commercializzando i loro prodotti, scambiando le loro merci e incontrandosi pacificamente per fare affari. Gli  abili artigiani del bronzo e della ceramica  erano stati in un certo senso l’ago della bilancia all’interno dei villaggi nuragici; infatti, se da un lato i guerrieri propugnavano la guerra totale contro i Shardana, sino all’annientamento finale; e se i sacerdoti, dall’altro,  privilegiavano invece il dialogo e la convivenza pacifica con i popoli del mare, gli artigiani scoprirono presto i vantaggi di un mercato aperto; i loro prodotti, oltretutto, piacevano molto ai commercianti delle città stato che, probabilmente, riuscivano a venderli oltre mare, nei ricchi mercati, da un capo all’atro del mare mediterraneo, verso l’Africa, verso la Francia e la Spagna, e perfino oltre il vicino oriente, sino alla Persia e all’India. Tanto più che gli artigiani del bronzo, i maggiori contribuenti dei tributi versati alla comunità,

 

 

 

 

avevano scoperto che i commercianti Shardana gli procuravano, più celermente e in maniera più vantaggiosa, lo stagno, indispensabile per ottenere con il rame, la materia prima dei loro manufatti; essi ricavavano il rame in gran copia dalle loro miniere, insieme al piombo e al ferro.

 L’abbondanza nei mercati di stagno, dovuta all’intraprendenza dei commercianti Shardana, aveva inoltre fatto abbassare i costi della loro produzione.

Tutti gli altri artigiani avevano seguito l’esempio degli artigiani del bronzo e si erano schierati per la pace e per la convivenza coi vicini Shardana.

Pur non avendo un riconoscimento ufficiale nel Consiglio degli Anziani, gestito in pratica dai sacerdoti e dai guerrieri, il loro peso era stato decisivo nel mantenere la pace. Anche quell’anno, Hannibaàl ne aveva sentore, le tribù non avrebbero dichiarato la guerra, ma gli altri capi tribù, ne era altrettanto certo, avrebbero deliberato di resistere quanto più possibile a quella penetrazione culturale e commerciale, limitando al massimo le aperture e difendendo le antiche tradizioni nuragiche. Nessuno si aspettava che il Consiglio assumesse posizioni progressiste, essendo piuttosto un organo di governo tradizionalmente conservatore.

 Il gran sacerdote Anù, responsabile anche degli approvvigionamenti, sovrintendendo una sorta di annona per le scorte di cibo e di materie prime, che provvedeva ad accumulare in appositi e capaci depositi, aveva portato in

 

 

 

 

Consiglio le istanze degli artigiani e di certi allevatori che gli si erano raccomandati per far sì che, da un lato si mantenesse la pace, apportatrice di prosperità economica, dall’altro che si provvedesse comunque a difendere i confini  territoriali e le greggi dalle incursioni (anche se non era certo che quelle incursioni in territorio nuragico  le facessero davvero  i guerrieri Shardana).  La casta dei sacerdoti, inoltre, aveva tutto da guadagnare, in termini economici, dagli scambi commerciali con i Shardana. Essa infatti era tributaria delle decime relative all’estrazione, alla produzione e al commercio dei minerali, anche nella forma redditizia dei bronzetti votivi. E ciò sulla base del fatto che la casta sacerdotale esplicava le sue competenze, anche relativamente alla riscossione dei tributi, su tutto ciò che gli dei avevano posto al di sotto e al di sopra del suolo (metalli, minerali e acque sorgive e piovane), mentre le decime su tutto il resto della produzione (soprattutto gli sterminati armenti e le ricche produzioni agricole, coi loro derivati) venivano incamerate dal re pastore, il capo della tribù nuragica.

 L’intensificarsi degli scambi commerciali tra i due popoli, aveva finito per far cadere molte delle barriere di ostilità e diffidenza che all’inizio erano sorte tra di loro, anche se un retaggio di quella originaria inimicizia, era comunque rimasto a fermentare, sotto la superficie di quell’apparente concordia; e ciascuno si era aggrappato alle proprie origini, anche se non erano mancati i matrimoni misti e le contaminazioni reciproche di usi, costumi e idiomi.

 

 

 

 

Anù, a dire il vero, i suoi pensieri più profondi e le sue energie più importanti le riservava da sempre alle sue funzioni religiose. L’anziano sacerdote capiva bene l’importanza del ruolo che svolgeva la casta di cui egli era il capo.

Se infatti la casta dei guerrieri, capeggiata dal capo tribù, dava al popolo la sicurezza di un ordine ben costituito e di un apparato ben strutturato per la difesa del popoloso villaggio che sorgeva tutt’attorno alla reggia nuragica, la casta dei sacerdoti contribuiva a garantire ad  ogni singolo individuo del gruppo il favore che gli astri celesti e gli dei delle acque assicuravano al popolo nuragico, salvaguardando i raccolti, propiziando le piogge, assistendo le donne nelle nascite, guidando i vecchi nell’ultimo tratto di strada, quello che conduceva all’eterno viaggio nell’al di là.

Anù era responsabile anche della scuola dei futuri sacerdoti.

Aveva una memoria prodigiosa; ricordava a memoria tutti i  capi tribù che avevano preceduto Hannibaàl e i grandi sacerdoti che lo avevano preceduto; si trattava di quasi duecento nomi, gli antenati più illustri; di loro sapeva narrare e ricordava anche le gesta, le battaglie vinte e quelle perse, i risultati raggiunti, le innovazioni introdotte e le leggi emanate. Ricordava inoltre gli antenati di ogni stirpe rappresentata nel Gran Consiglio degli Anziani. Alle cerimonie funebri che celebrava personalmente era capace di ricordarli tutti, dal primo sino all’ultimo.

 

 

 

 

Conosceva inoltre le erbe e i principi curativi che possedevano. Insomma, lo si poteva considerare un’enciclopedia vivente e parlante. Trasmetteva queste cose ai suoi allievi. Li studiava tutti, uno per uno. Doveva scegliere il suo successore, come il suo predecessore aveva fatto con lui. Non era un compito facile.  Oltre che una memoria di ferro, occorrevano altre qualità per divenire grande sacerdote. Lui si affidava anche ai segni del cielo. Sapeva leggere le stelle e interpretare i segni più diversi: dagli uccelli in volo, ai fischi del vento, ai sussurri del fiume; ma questi non li poteva né spiegare, né trasmettere; poteva solo immaginarli in capo ai suoi discenti, come un dono innato che, tutt’al più, poteva svilupparsi col tempo e con la pratica. 

 Portava con sé i suoi allievi a raccogliere le erbe e in tante occasioni li interrogava, dopo avergliene spiegato le qualità curative, sul loro utilizzo a fini terapeutici. Coglieva anche altre erbe, quelle magiche, proibite, dai poteri psicotropi, che potevano mettere in contatto con le forze sopranaturali, quelle che dominano nell’oltretomba, dove risiedono gli antenati che le sue sacerdotesse, sotto la sua direzione, consultavano periodicamente, quando delle decisioni importanti attendevano il Gran Consiglio e grandi eventi investivano la vita del villaggio.  Con quelle erbe occorreva stare attenti: un giovane poteva facilmente rovinarsi la vita, ingerendole. Davano un delirio di onnipotenza, se non venivano utilizzate correttamente, e potevano facilmente condurre alla follia.

 

 

 

 

Poiché esse erano una finestra aperta sull’altro mondo, quello dei morti. Qualcuno non era mai tornato da quei viaggi. Il suo maestro gliele aveva fatte provare e lui stesso ne era rimasto impressionato. Non gli piacevano quelle erbe; e neanche certi funghi che ne costituivano un necessario complemento, come mezzo per entrare in contatto con i giganti dormienti nelle tombe degli avi.

Erano troppo pericolosi e avevano una proprietà che a lui non piaceva per niente: tendevano a dominare sull’uomo, a prenderne il sopravvento, proprio per quella sensazione di onnipotenza che essi trasmettevano. Il suo maestro gli aveva detto che sulle donne avevano le stesse proprietà psicotrope ma non gli davano quella sensazione di potere; in un certo senso, quei funghi e quelle erbe, si ritraevano nei confronti delle donne e ne venivano, a loro volta, dominati. Era uno dei tanti misteri inspiegabili della Natura e degli dei che la dominavano, gli aveva detto il suo maestro. E lui non l’aveva mai dimenticato.

La sera prima, l’ultima di luna piena precedente il grande raduno settennale, quando la sacerdotessa prescelta si sarebbe dovuta sottoporre al rito dell’incubazione, andò da solo a cercare il fungo Amanita che cresce in simbiosi con la pianta della Belladonna. Non tutti i funghi che potevano trovarsi alla base dell’arbusto erbaceo andavano raccolti per quell’occasione; Anù prediligeva gli Amanita della varietà pantherina, anche se sapeva bene che certi sciamani conoscevano come trattare le altre varietà di fungo.

 

 

 

 

Gula, la sacerdotessa con cui aveva stabilito di celebrare il rito dei quattro occhi, di quelli che consentono uno sguardo nell’altro mondo, da cui essa avrebbe dovuto riportare degli auspici, aveva bisogno di un fungo amanita che fosse stato in simbiosi con quelle piante e che avesse ricevuto, ma anche trasmesso, particolari sostanze alle bacche a forma di ciliegia; inoltre i funghi e le bacche andavano raccolti in una particolare zona dove, come gli aveva spiegato un giorno il suo maestro, correva una vena acquifera sotterranea con particolari composizioni favorevoli al processo simbiotico che i due vegetali si scambiavano.

La sacerdotessa prescelta da Anù avrebbe dovuto stare incubata, forse per tutti i cinque giorni del raduno e, pertanto, l’effetto psicotropo doveva essere congiunto alle necessarie linfe di sostentamento, che solo certi funghi e certe bacche possedevano. Anù li chiamava sos micorizzas (o cerexas malaittas). Sminuzzati  il cappello del fungo e le radici delle Belladonna, Anù li avrebbe messi a macerare nel vino e nel succo ricavato dalle bacche della pianta per dodici ore. Dopo una ebollizione lenta e continua per altre dodici ore il decotto, filtrato e lasciato freddare a dovere, sarebbe stato pronto per la somministrazione. Oltre agli  effetti euforici ed eccitanti, il  decotto, produceva    anche certi effetti nutritivi e calmanti. Lui glielo avrebbe somministrato  con il massimo dell’attenzione e gradatamente, durante tutto il tempo dell’incubazione, a intervalli regolari, e opportunamente trattati.

 

 

 

 

Avrebbe così potuto sorvegliarne e monitorarne gli effetti e, se del caso, avrebbe potuto perfino interrompere il rito. Gula era più di una semplice sacerdotessa per Anù. La ragazza, di quindici anni più giovane, non aveva parlato sino ai ventuno anni.  Al villaggio dicevano che avesse ricevuto il malocchio da una vicina di casa, sterile, ingelositasi per le numerose gravidanze che sua madre aveva portato avanti felicemente.

Spesso le venivano delle convulsioni e una volta aveva perfino rischiato di morire perché era caduta nel fuoco, ustionandosi con l’acqua bollente. L’incidente le aveva deturpato il viso e una parte del corpo.  Anù aveva notato la ragazza seduta su una pietra, con lo sguardo assente, un giorno che si era recato al villaggio per certe incombenze legate al suo ufficio di gran sacerdote. Quella pietra non era una qualsiasi pietra, ma costituiva uno dei punti dell’itinerario che il sole percorreva durante il solstizio di primavera. Rimasto vedovo aveva chiesto a sua mamma se la ragazza fosse stata disponibile a trasferirsi da lui per cucinare e tenergli la casa in ordine. Alla mamma non era sembrato vero di liberarsi di quella figlia, spesso con la testa tra le nuvole, muta da sembrare quasi scema e che nessuno aveva chiesto in sposa e mai l’avrebbe chiesta più, dato che aveva già compiuto ventuno anni.

Anù aveva preso a curarla con certi infusi di erbe e di strane polverine che solo lui conosceva. Le convulsioni si erano andate diradando progressivamente e un bel giorno Gula aveva pronunciato, senza preavviso, le sue prime parole.

 

 

 

 

Rivolgendosi ad Anù aveva detto: «Da oggi in poi parlerò per te!»  Da quel giorno le convulsioni non si manifestarono più. In realtà né Anù, né Gula, amavano molto parlare. Anù meditava spesso sul significato da dare alle prime parole pronunciate dalla sua schiava. In una notte tempestosa accadde che Gula, presa dal terrore, si infilasse nel giaciglio di Anù in cerca di protezione. La ragazza si strinse a lui e la ricerca di protezione divenne qualcos’altro. Anù, che dopo la morte di sua moglie, avvenuta esattamente un anno prima, non aveva più pensato ad altre donne, troppo assorbito nel suo dolore e nei suoi mille incombenti, non si oppose. Fece tutto la ragazza con una naturalezza che sorprese il riflessivo Anù. Dopo averlo eccitato gli montò sopra, si fece penetrare, e si mosse con maestria, come se nella sua vita non avesse fatto altro. Anù non era più un giovincello e gli parve giusto regolarizzare la condizione della ragazza. Se lui fosse morto, la ragazza sarebbe rimasta nel suo status di schiava, ma se lui avesse ufficializzato la loro unione, essa sarebbe stata la vedova del gran sacerdote per sempre. La cerimonia, semplice e particolare come si conveniva all’unione tra un vedovo e una ragazza matura, non più vergine, fu celebrata da lui stesso al pozzo sacro, alla presenza di pochi invitati.

Da quel giorno Gula era divenuta la sua assistente, ma non volle che lui assumesse un’altra schiava per curare la casa e per cucinare; forse era gelosa e non voleva dividere la sua intimità con nessuno. 

 

 

 

 

 

Quando lui la informò che cercava una ragazza per celebrare il rito propiziatorio dell’incubazione, in previsione del raduno settennale dei capitribù nuragici dei villaggi federati, lei ripeté quelle stesse, identiche, prime parole: «Da oggi in poi parlerò per te!»

 

 

 

sabato 30 novembre 2024

Scetinsardu: Un omaggio alla Cultura Sarda

 



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Evviva! Bellissimo! Il mio volume della Collana Scetinsardu, nato da una  Una Ricerca Demologica in lingua sarda, che ha come titolo  "Spunti per una nuova grammatica Sarda" occupa oggi la 17.ma posizione della Classifica di Letteratura comparata stilata da Amazon. Onore alla lingua sarda. 

Ecco di seguito uno stralcio iniziale del mio Volume. 

Inzittus po una Gramatica Sarda Campidanesa

Prologo

Totus scinti ca sa limba sarda no tènidi, a su momentu presenti (ma fortzis d’hadi connota in su passau), una fueddada unica e unificada. Bi sunt duas variantis printzipales (su campidanesu e su logudoresu) e una cuantas variantis minores (a parti s’algheresu e su tabarchinu chi dus fueddanta in Alguer e a Carloforti ma no sunt linbas sardas).

Sa matessi varianti campidanesa connoscidi assumancu ottu variedades: s’occidentali, s’arboresa, sa barbaricina, s’ollastina, sa tzentrale, sa sulcitana e sa de su cab’e basciu (meridionali).

Intamen no si scaresiausu ca sa divisioni  aintru de  limbas e dialettus no esti una differentzia scientifica, sino una divisioni politica. Est a narrere chi abbàstada una ley ca dichiaridi s’esistentzia de una limba sarda, unificada e obligatoria me is uficius e me is iscolas e su sardu devenit una limba.

Lasseusu duncas sa politica a is politicus e torreus a faeddare de cultura sarda.

Deu creu chi sa Lingua Sarda Comuna siada unu tentativu giustu de unificai is variantis de sa linba sarda asutta de unu cappeddu unicu (fortzisi hiad'essi prusu justu fueddai de koinè).

Non de mancu deu pentzu chi siada altrettantisi pretzisu chi a cada Sardu benga' lassàda sa possibilidadi de iscriri in sa varianti sua (donèusu a sa burocratzia su chi du competidi ma lassèusu a sa poesia e a s'arti su chi meressinti).

Esti po igussu ca cument'e campidanesu m'hiada praxi de continuai a iscriri su Sardu chi appu imparau de is aiausu (ma promitu chi si depu iscrì una littera a calincunu uffitziu publicu, appa cicai de da fai in Limba Sarda Comuna).

  

1.

S’Alfabetu Sardu

Is literas de s’alfabetu sardu no si paressint cun cussas de s’alfabetu italianu ma, segundu is antigus maistus de literas sardas,  s’accostant prusu a igussas de s’alfabetu latinu.

Issas funti infatti bintixincu: A, B, C, D, E, F, G, H, I, J,K, L, M, N, O, P, Q, R, S, T, U,V, X, Y, Z.

Das mentzonaus tottas e bintixincu po rispettu de sa traditzione ma, a castiai beni, s’abastarianta binticuatro feti, fortzis fintzas sceti bintitresi. Infattisi sa K e sa Y serbinti a pagu: po calincunu fueddu derivau de sa limba greca: Kirye Eleison, Hymerion, Kalaris.

Sa litera J, disconnota in s’italianu, serbidi po fueddus derivaus de su latinu: maju,justu,junior, e no si deppidi cunfundi cun sa  littera "x": custa littera in sa varianti campidanesa esti essentziali e serbidi a indicai su sonu druci de sa J frantzesa: luxi, mexina, boxi; oppuru inveciasa de sa litera “c” in fueddus precedius de s’articulu: su xelu, sa xida, sa xipudda.

 

Po custu motivu deu creu chi si deppada iscriri "su xelu", sa xibudda, su xrobeddu mancai custus fueddus in su ditzionariu s'agatinti cun sa littera "c" (ma de su xrobeddu no seu tanti siguru; segundu mei unu ditzionariu campidanesu deppi ponni su fueddu "xrobeddu" non asutta de sa littera "c" poita foneticamenti su sonu initziali, mancai chene de s'articulu, no esti parisi a su sonu de sa "c" de cibudda e de sa c de celu).

Donai attentzioni a no  fai cumenti a is Piemontesusu in 1794. Candu is rivolutzionariusu dis preguntanta de narai "cixiri" issusu arrespundianta "ciciri" e ci dus imbarcanta po Continenti.

Sempri fueddendi de ortografia, mancai in su scrittu no si rilevinti, tòcada a nai de sas literas “b”  “f” “p”e “t” ca intremesu a is ateras literas, cambianti sonu, pighendindi unu disconnotu in sa limba italiana.

Chi piaguas fueddus cument’e “caboi”, “sa vrittura”, “sa taba””sa pobereresa”, su sonu de is literas c,f,t, cambiadi e diventa’ druci. Calincunu hadi contzillau de fai sighiri sa litera druci cun sa “h”, e quindisi iscriri”cabhoi”, sa vhrittura”, sa thaba”, “sa phobheresa”. Deu no ‘ollu complicai troppu sa scrittura;ma s’idea c’esti i e’ justu a da connosci.

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domenica 24 novembre 2024

I Thirsenoisin




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Capitolo Terzo

Intanto Itzocar ricordava quanto successo con sua figlia. Anche se non poteva certo sapere che la scintilla che aveva avviato quel fuoco parricida nelle vene di Damasu, aveva la sua origine proprio lì, in quel matrimonio pensato per rafforzare la potenza del villaggio attraverso le alleanze con altri capi tribù, come sempre si era fatto a Kolossoi e in tutti i villaggi nuragici.

«Tu devi sposare Arca Salmàn. Sei stata promessa a lui e lo sposerai!»

Aveva voltato le spalle a sua figlia Aristea per dedicarsi  alla vestizione, aiutato da sua moglie Irisha. In giornata avrebbe dovuto dirimere delle controversie di ultima istanza e non aveva tempo da perdere. E poi, i suoi ordini non si discutevano. Nessuno osava metterli in discussione. Discutere un ordine del capo tribù poteva costare la vita. Tutti lo sapevano. Era su questo che si reggeva, a memoria d’uomo, il regno di Kolossoi. Come osava sua figlia, poco più di una bambina, discutere una decisione già presa da lui?

Aristea queste cose le sapeva; dalla mamma aveva ereditato il candore e la bellezza ma anche l’intelligenza istintiva che le consentiva quasi di presagire, con fatalismo tutto femminile, quello che sarebbe accaduto e come doveva comportarsi.  Ma sapeva anche che il suo cuore ribelle e il suo temperamento volitivo (in questo ne aveva preso da suo padre), l’avevano spinta a chiedere udienza e a tentare di far prevalere,  sulla ragione di stato, le sue aspirazioni, i suoi sogni.

 Aveva appreso da tempo di essere stata promessa in sposa, già sette anni prima, al figlio del capo della tribù di Giserri, da sempre loro alleata. All’inizio, nel suo animo di bambina neppure decenne, quella notizia aveva avuto il sapore di un racconto fantastico, simile a quelle storie raccontate da sua nonna nelle notti d’inverno, sulle fate tessitrici, le caprette parlanti e le caverne piene d’oro e di tesori. Ma adesso, da donna, il suo cuore le aveva imposto di gridare la sua voglia di libertà, il suo diritto a sognare. Già da qualche tempo aveva preso a fantasticare sulle città che si stendevano sul mare, oltre gli ultimi villaggi nuragici. Era lì che volava la sua fantasia, era lì che voleva recarsi; era lì che voleva incontrare un uomo che la conducesse in mare, sulla sua nave grande, a visitare nuove città e nuovi mondi. Lei non voleva rinchiudersi in un villaggio, magari un po’ più grande del suo, come era Giserri; ma pur sempre un villaggio.  Per ora non aveva potuto fare di più che scappare, piangendo, quando suo padre le aveva voltato le spalle in quel modo altero, freddo e indifferente.

«Lo odio, lo odio, lo odio!» aveva gridato singhiozzando, battendo il pugno sul letto, dove si era buttata disperata. L’impotenza che sentiva pervadere il suo animo, aumentava di più la sua rabbia e il suo dolore.

Suo fratello le si avvicinò e cercò di consolarla, accarezzandole i lunghi capelli castani.

«Coraggio, piccola! C’è un rimedio a tutto! Fatti coraggio!»

Aristea, sul momento, non si chiese come mai il suo fratello maggiore fosse accorso così prontamente. Certamente lui le voleva bene, era la sua sorella minore e aveva avuto sempre nei suoi confronti un senso di protezione.

Ma era pur sempre l’erede al trono; e ci teneva a succedere al padre; di questo lui non aveva fatto mai mistero.  Li separavano dieci anni di età; lui, il primogenito, erede al trono, lei l’ultimo frutto dell’amore duraturo tra i suoi genitori; anche se degli altri figli nati in mezzo, solo Rumisu, il terzogenito, era sopravvissuto; tutti gli altri figli, chi per una ragione, chi per l’altra, erano morti nei primi anni di vita.

«Aiutami, Damasu! Io non voglio sposare Salmàn! Io voglio un altro uomo, scelto da me e non da mio padre!» disse abbracciandolo. Forse per lei c’era ancora una speranza di salvare i suoi sogni.

Il giovane ordinò alla serva di andare a preparare un infuso caldo per calmare sua sorella.

«Lo so! So tutto, io!» la rincuorò suo fratello, battendole la mano sulle spalle in modo affettuoso. «Ne parlerò con il saggio Mandis. Nessuno conosce le nostre leggi più di lui e mi saprà consigliare.»

«Perché? Perché veniamo obbligate a sposare un uomo che non amiamo?» gli chiese staccandosi da lui e fissandolo negli occhi.

«Sono le antiche leggi del nostro popolo. Ma vedrai che Mandis saprà trovare una via d’uscita» rispose in maniera sibillina accommiatandosi dalla sorella. E questo bastò per alleviarle momentaneamente il cuore che sentiva oscuro e pesante nel suo petto.

Mentre il sole già iniziava a scaldare la crosta della terra, asciugando la brina caduta nella notte, Itzocar aveva iniziato l’impegnativa udienza.

Non era facile giudicare e il capo tribù preferiva sicuramente le partite di caccia e le riunioni dove si prendevano decisioni per il benessere del villaggio, per la costruzione di nuove opere utili alla difesa dei confini e per il miglioramento dei rapporti di vicinato. Ma pronunciare le sentenze di composizione dei litigi degli abitanti del suo villaggio, oppure per punire certi atteggiamenti lesivi della pacifica convivenza, rientrava tra i doveri fondamentali di un capo tribù. Questo lo aveva imparato dai saggi e dai sacerdoti che lo avevano istruito in giovane età. Inoltre aveva sempre presenti i racconti dei vecchi re, quelli che lo avevano preceduto sul trono di Kolossoi.

Si sforzò di trattenere la sua mente, che lo trasportava a Giserri, nell’alta Marmilla, dove presto si sarebbe dovuto recare, per prender parte al raduno settennale delle grandi tribù nuragiche, nel villaggio del suo amico Hannibaàl.

L’udienza si teneva nella grande sala circolare del mastio orientale, due volte al mese, nel primo giorno di luna ponente e di luna calante, di fronte alle statue colossali che rappresentavano i capitribù di un passato immemore, ma che riviveva grazie alla loro presenza, testimoniando la grandezza passata. Lui sedeva sul trono scolpito nella gradinata, affiancato da sua moglie Irisha e dallo sciamano Elki, le persone di cui si fidava di più in assoluto.

Sua moglie riusciva a vedere delle sfumature importanti che a lui solitamente sfuggivano, mentre Elki sapeva sempre porre le domande giuste al momento giusto. La decisione finale spettava a lui, per legge, ma dall’andamento dell’interrogatorio condotto dallo sciamano e dagli sguardi di sua moglie, lui si sentiva più sicuro sulla decisione da prendere. I contendenti venivano prima sentiti separatamente; poi assistevano insieme alla lettura sentenza. Vi era sempre un quarto uomo del governo che assisteva alle udienze, ma non poteva intervenire per alcuna ragione. Era il rappresentante del capo delle guardie nuragiche. Doveva solo ascoltare e registrare mentalmente la decisione, perché sarebbe spettato alle guardie farla eseguire, in caso di ulteriore dissidio o inadempimento. Ma questo succedeva di rado.

Ad ogni buon conto, fuori dall’aula delle udienze, un drappello di guardie garantiva l’ordine ed era pronto a intervenire per sedare qualunque intemperanza. Ma anche questo era raro. Itzocar godeva di una grande autorevolezza tra il popolo; era un uomo ponderato nelle decisioni ma aveva il pugno di ferro con quelli che si ribellavano e non rispettavano l’ordine costituito. Il mancato rispetto di una sua sentenza poteva voler dire la morte, o l’esilio, nella migliore delle ipotesi. Di preferenza il re di Kolossoi  non amava ricorrere all’ordalia; aveva una sorta di diffidenza per quel tipo di giudizio basato sul giuramento e sul responso misterioso e inarrivabile degli dei.

Lui preferiva che si pervenisse a una sentenza fondata sulle consuetudini, sui fatti e sul ragionamento. Finché ciò era possibile, ovviamente.

 I casi da trattare riguardavano le dispute più diverse: litigi sui furti di bestiame; furti di derrate alimentari; contestazioni sul possesso di oggetti personali; inadempimento dei versamenti dovuti all’Annona; inadempimento dei contratti stipulati tra privati; litigi tra coniugi e tra figli e genitori; aggressioni, risse, lesioni gravi e omicidi. I casi più complessi erano quelli che riguardavano membri di altre tribù, di solito quelle viciniori, che avevano i territori confinanti con Kolossoi. In tali casi occorreva coinvolgere le autorità di appartenenza, prima di prendere una decisione. Insomma, c’era sempre un bel da fare, considerando che la tribù di Kolossoi contava quasi cinquemila abitanti, sparsi su un territorio sterminato, tutt’attorno al villaggio nuragico principale;  per tutta la parte bassa dell’Altipiano della Giara sino al confine della pianura del Campidano, si estendevano una miriade di piccoli villaggi nuragici, capanne sparse, minuscoli agglomerati, case rurali di fango e paglia; e tutti facevano capo al villaggio principale e alla reggia nuragica, almeno per le cause di seconda e ultima istanza, quando le autorità locali non erano riuscite a placare gli animi e a comporre la controversia.

Per fortuna l’udienza si chiuse quando il sole era allo zenit e non ci fu bisogno di riprendere dopo la pausa del pranzo.

 Le libagioni, che invero sulla tavola di Itzocar non scarseggiavano mai, nei giorni di udienza si arricchivano dei doni portati dai contendenti: vini di ogni tipo e gradazione, particolarmente apprezzati dal capo tribù, agnellini e volatili domestici, selvaggina, pesci da arrostire, formaggi, frutta, verdure e dolci tipici venivano sapientemente gestiti da Irisha che non mancava mai di beneficiare le vedove e gli orfani, più bisognosi degli altri di sostentamento e di aiuto materiale.

Dopo pranzo si ritirò per il suo consueto riposo. Poté finalmente liberare la sua mente, sbrigliandola verso l’imminente raduno settennale. Cogli occhi della mente vide il profilo del villaggio di Giserri, col suo doppio ordine di torri, prima cinque, attorno a quella centrale, poi sette e d’intorno le capanne con la sommità di frasche.

Si addormentò così, pensando al suo amico Hannibaàl e agli altri capi che avrebbe presto incontrato e con i quali avrebbe potuto concordare una comune strategia per la gestione della difficile situazione, fattasi più stringente e pesante per la pressione che le città stato dei Shardana esercitavano sui villaggi, nel tentativo, sempre meno nascosto, di espandere la loro cultura, i loro traffici e la loro influenza politica che, al contrario di quella nuragica, sembrava in ascesa.

Toccava a loro predisporre le contromisure per salvaguardare la loro sopravvivenza.

Sognò che i giganti dei  suoi antenati si risvegliavano dal sonno secolare e  affiancati dai possenti guerrieri ricacciavano in mare gli odiati Shardana e la Sardegna tornava libera e grande, come in passato e per sempre.

Al suo risveglio il mondo gli sembrò meno brutto e il futuro meno incerto. Diede gli ordini necessari a preparare il suo imminente viaggio.

 


domenica 17 novembre 2024

Domenica 24 Novembre ore 18:30I Nuovi Baroni

 

https://www.hoepli.it/autore/basile_ignazio_salvatore.html?autore=%5b%5bbasile+ignazio+salvatore%5d%5d&

 Amedeo Pistis, anche se illetterato, era un uomo intelligente. Aveva fiutato che quell’aria di rivolta che aveva scombussolato la Sardegna, così come tutta l’Europa alla fine del secolo diciottesimo, era foriera di importanti cambiamenti e non si era fatto cogliere impreparato. Non aveva partecipato direttamente ai moti angioini del ’94 di cui, nella Villa, erano giunti soltanto gli echi attenuati e i riverberi ideologici.

 Però aveva investito una parte del suo gruzzoletto sul suo quinto e ultimo figlio, Luigi Angelino, nato nel ‘97, facendolo studiare dagli Scolopi, a Cagliari.

 L’investimento si era mostrato quanto mai azzeccato grazie alle qualità e all’applicazione che Luigi Angelino aveva evidenziato negli studi.

 Segnalato dai precettori tra i migliori e più brillanti studenti a conclusione degli studi, fu assunto come scrivano all’Intendenza provinciale, che all’epoca aveva la sede a Villacidro. Fu da quella posizione che poco prima del 1820 Luigi Angelino allertò il suo genitore Amedeo che le immense proprietà indivise dei viddazzoni, nei territori di tutto il Regno di Sardegna, stavano per essere aboliti, per consentire alla proprietà individuale di divenire perfetta e che occorreva attrezzarsi per chiudere quante più terre si poteva, perché il primo che recingeva quegli immensi terreni comunitari, ne diveniva il proprietario in maniera definitiva.

Quello era il nuovo che avanzava, l’ondata di ritorno e conclusiva di quell’afflato rivoluzionario del secolo precedente, che avrebbe voluto spazzare via il vecchio regime con la forza ma che invece, per concludere la sua opera, abbisognava soltanto di altro tempo. E il tempo adesso era giunto.

I suoi compaesani si chiesero a lungo e inutilmente per chi fossero quei carichi continui di legname e di massi che andavano e venivano in lungo e in largo sui carri dei suoi buoi e che Amedeo andava ammassando nel cortile della sua casa e in alcuni punti strategici che lui aveva adocchiato come i migliori per il movimento che aveva in mente di fare al momento opportuno.

 E il momento giusto fu l’autunno del 1820, subito dopo la pubblicazione del Regio Editto “Sopra le chiudende, sopra i terreni comuni e della Corona, e sopra i tabacchi, nel Regno di Sardegna”.

Fu allora che i compaesani capirono a cosa servivano quei massi e quei pali di legno con i quali Amedeo recintò centinaia di starelli di terreno comunitario, presentando nel contempo all’Intendenza competente la domanda per chiuderne altrettanti di quelli soggetti a servitù di pascolo e d’abbeveratoio.

Carlo Emanuele si ricordava bene di come suo padre aveva formato delle squadre per recintare le proprietà che aveva adocchiato e di come resistette, negli anni a venire, sia alla forza fisica degli abbattitori, sognatori e nostalgici del tempo andato, sia legalmente a chi era convinto di avere ragione a protestare, senza capire che la legge era stata fatta apposta per recingere.

In giudizio suo padre vinse tutte le cause intentate, e più tardi, ebbe tempo, modo e soldi per recingerne anche delle altre, grazie alle entrature che si era create negli uffici preposti.

E adesso, lui, che del padre Amedeo aveva ereditato il fiuto della storia, sentiva che stava per arrivare il momento di accaparrarsi nuovi possedimenti, tra quelle proprietà feudali che sarebbero presto state riscattate ai vecchi baroni, dove lui avrebbe messo le sue mani, per papparsene una bella porzione.



 

domenica 27 ottobre 2024

Dedicato a mia madre



Ricordi,

quando brillava il sole,

alto nel cielo

e i giorni sembravano senza fine,

che bel tempo abbiamo vissuto insieme?

Ora, che i giorni si accorciano sempre più,

i ricordi si adagiano su te sempre più spesso

e non dimentico quell’ultima carezza che mi hai dato,

prima di salutare questo mondo,

quasi per chiedere scusa di un addio

che poneva fine alle tue sofferenze.

Ma ora non temo più il tramonto,

perché avvicina il giorno

in cui ci ritroveremo.

martedì 22 ottobre 2024

Dario lascia l'Agnata e si reca a Nuoro

 


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Capitolo Quinto

 

Di buon mattino Dario lasciò l’Agnata. Fabrizio aveva insistito perché fosse accompagnato da un suo collaboratore almeno sino a Tempio. In sua presenza, alla stazione Arst, comprò un biglietto per Sassari, anche se sapeva bene che questa volta avrebbe proseguito per Nuoro. Ma non disse niente a nessuno di questa sua intenzione.

Durante il viaggio si perse nei suoi pensieri, osservando il paesaggio agreste che si susseguiva chilometro dopo chilometro. Muretti di pietre a secco contrassegnavano il paesaggio ai lati della strada, limite e confine delle numerose tanche, spesso adibite a pascolo delle mucche e delle greggi, con fitti gruppi di macchia mediterranea a perdita d’occhio, che si inerpicavano nelle valli e nei monti circostanti. L’odore del cisto, del lentischio, del ginepro, della menta selvatica e degli altri aromi della vegetazione penetravano dai finestrini socchiusi e si percepivano più intensamente ogni volta che il pullman si fermava per fare salire qualche passeggero o per consentire a chi già fosse a bordo di scendere.

A Sassari scese per sgranchirsi le gambe e comprare un biglietto di prosecuzione sino alla sua meta di destinazione.

Scendendo a sud, il paesaggio si fece ancora più selvaggio e i centri abitati meno frequenti. Ma il sonno, a un tratto, ebbe il sopravvento sui suoi pensieri e si addormentò.

Una volta giunto a Nuoro, Dario preferì telefonare. Dopo molti squilli, quando stava per riattaccare la cornetta, una voce profonda si udì dall’altro capo del telefono.

«Chi è?»

Dario si ricordò che Vittorio gli aveva suggerito la massima discrezione, parlando il meno possibile al telefono e sempre senza fare nomi.

«Sono l’amico continentale che dovevate ospitare i mesi scorsi…»

«È sicuro di avere fatto il numero giusto. Questa non è una casa vacanza per continentali.»

Prima che quello riattaccasse Dario pensò bene di sbilanciarsi un poco.

«Mi mandano i compagni di Genova e non per vacanza.»

Dopo un attimo di incertezza, l’altro sembrò capire. «Dove sei?»

«Alla stazione dei pullman, in via La Marmora.»

«Aspettami che vengo a prenderti.»

Dario riattaccò e si guardò in giro. Sentiva un po’ freddo, anche se il sole, alto sopra l’orizzonte, sembrava essersi deciso a riscaldare un po’ l’aria.  Decise di sgranchirsi le gambe e si mise a passeggiare in cerca di un bar. Dopo un buon caffè si accese una sigaretta e si riavviò verso la stazione dei pullman. Notò subito un tipo, con gli occhiali e una barba rada e grigia, che lo osservava. Si aspettava di vedere l’uomo che aveva visto con Vittorio nella boscaglia dell’Agnata, ma non era lui. Intanto perché era vestito in maniera molto normale.

«Sei tu il genovese?» gli chiese sottovoce. Ostentava indifferenza e parlò senza quasi guardarlo.

«Piacere sono…»

«Seguimi» lo interruppe l’altro, voltandogli le spalle. «Le presentazioni le facciamo dopo.»

L’uomo, sulla quarantina, aveva parcheggiato la sua auto poco lontano. In macchina scoprì che si chiamava Marino. Gli disse che aveva sentito Vittorio al telefono, la sera prima, e che sapeva tutto.

«Quindi Fabrizio De André è un tuo amico d’infanzia?» chiese l’uomo dopo un rapido scambio di nomi e di formalità.

Anche se la domanda fu pronunciata con tono ammirato, l’assenso di Dario non fu dello stesso tenore.

«Caspita! Lo sai che è il mio cantautore preferito?» domandò Marino. «Ma che tipo è questo Fabrizio De André? Io l’ho sempre considerato uno di noi, magari un po’ troppo anarchico e troppo poco inquadrato, ma in ogni caso un uomo di sentimenti e di idee nelle quali mi riconosco pienamente» continuò, visto che Dario si era limitato, come prima, ad annuire.

«Non è mai stato uno di noi» disse finalmente Dario, dandosi un tono saccente.

«No?» chiese quello deluso. «E perché?»

«Il padre è impaccato di soldi e anche lui, in fondo, è nato benestante e al di là delle apparenze resta un borghese.»

«Ah! Ma pensa! Io credevo che fosse un tuo amico» esclamò Marino sorpreso.

 «Che c’entra? Una cosa è essere stati amici nell’infanzia, un’altra è constatare che ancora oggi ci separa un abisso ideologico ed economico. Anzi, questa nuova consapevolezza, getta anche un’ombra sulla nostra infanzia.»

«In che senso?»

«Nel senso che, con il tempo, ti rendi conto che tu nella vita non hai avuto un belin, mentre altri sono cresciuti nella ricchezza e continuano a farlo. Non hai visto che cosa si è comprato nelle campagne di Tempio?» aggiunse Dario, contento di sorprendere il suo interlocutore.

«No, ma ne ho sentito parlare, anche se non sono mai stato lì. Non mi ero immaginato una cosa di lusso, però.»

«Beh, io non parlo di lusso. Ma quella tenuta enorme, con tutti quegli animali, deve valere una fortuna.»

«Allora hanno visto bene i bittesi» replicò Marino.

«In che senso? E chi sono questi bittesi?»

«Ogni cosa a suo tempo» disse l’uomo fermando l’auto sul bordo della strada. «Siamo arrivati.»

La palazzina stile anni cinquanta davanti alla quale si erano fermati aveva un aspetto anonimo in quella che appariva sicuramente la periferia di Nuoro. In lontananza Dario osservò il profilo dei monti, oltre una vallata sul cui ciglio vi erano sparsi altri edifici sorti nello stesso periodo o forse anche un decennio dopo.

«Lascia pure qui il tuo bagaglio. Dopo pranzo ti mostrerò dove potrai sistemarti. Ti faccio strada in cucina. Ti dovrai accontentare di un pranzo freddo e improvvisato» disse l’uomo appena furono dentro casa.

Il pranzo era freddo, seppure quel pane asciutto, quel formaggio e quella salsiccia avevano un profumo e un gusto che Dario apprezzò e soprattutto quel vino rosso gli rallegrò l’animo e mise entrambi di buonumore. Dopo il caffè si trattennero ancora in cucina, a chiacchierare. Una canna che Marino gli passò, dopo avergli semplicemente chiesto se gli piacesse fumare, gli sciolse la lingua definitivamente, abbattendo le barriere della diffidenza che prima si erano frapposte tra loro. L’uomo che aveva davanti, adesso gli ispirava una totale fiducia. Dario gli confidò i suoi sentimenti rivoluzionari, ma anche i dubbi e la crisi che lo avevano investito dopo quell’azione di fuoco in cui era morto il sindacalista dell’Italsider.   Evidentemente la sua sincerità gli piacque e lo ascoltò con profonda partecipazione, annuendo ogni tanto, come per incoraggiarlo a continuare il suo racconto.

«Ma lo sai che io sono qui, a Nuoro, senza sapere il vero motivo che ha spinto Vittorio a mandarmi da te? Non mi fraintendere. Io sono convinto e leale verso di lui e verso la nostra causa, ma certe volte vorrei sapere di più, capire meglio…non so se tu mi comprendi. »

«Certo che ti capisco. Ma guarda che qualche volta è meglio non sapere e non intendere, credimi».

«Che significa?» chiese Dario che ormai aveva fiducia in quell’uomo.

«Voglio dire che ciascuno di noi deve svolgere il suo ruolo, dando ciò che ha e ciò che può, senza porsi troppo domande e senza cercare di analizzare ciò che a volte è meglio non comprendere…»

«Continuo a non capire» affermò Dario accendendosi una sigaretta. Sentiva la gola secca e bevve un abbondante sorso d’acqua.

«Ti faccio un esempio pratico. Prendi me. Io sulle armi ho le tue stesse perplessità, ma ti ammiro perché sei riuscito a fare parte di un commando armato. Io non sarei capace, non è soltanto questione di coraggio, credimi. È che io ho la vocazione per fare altro. Vittorio e i miei amici bittesi e non soltanto quelli lo hanno capito e non mi chiederebbero mai di fare parte di un gruppo d’assalto o di partecipare a un’azione di fuoco…»

Dario lo guardò con aria interrogativa, senza parlare. Marino sembrò interpretare correttamente la sua aria sorpresa, perché continuo a raccontare.

«Io svolgo una funzione da intermediario tra il mondo pastorale, che conosco bene, dato che mio padre produceva formaggi e da piccolo mi portava con sé, in giro per gli ovili a ritirare il latte che gli serviva per la sua impresa nascente e il mondo degli intellettuali dei quali faccio parte in qualità di insegnante.»

«E quindi?»

«Quando sento dire qualcosa da qualcuno, non faccio domande. Ho introdotto Vittorio nella realtà agropastorale e il mio compito è finito là. Sono a disposizione del movimento per altri compiti ma non sarei capace di fare altro. Credimi se ti dico che non è stato facile per me accettare, ma sono convinto che fosse la cosa giusta, in questo momento storico, e l’ho fatto, restando fedele, in un certo senso, alla mia vocazione non violenta.»

«Ma perché Vittorio è voluto entrare in contatto con il mondo dei pastori?» chiese ancora Dario che adesso cominciava a capire chi fosse quell’uomo silenzioso che aveva visto nelle campagne dell’Agnata in compagnia di Vittorio.

«Io questo non lo so. Posso intuirlo e poi, più che Vittorio sono stati i suoi amici guerriglieri a chiedermelo.»

«Amici guerriglieri?», chiese Dario d’istinto, sentendosi subito dopo uno sciocco.

«I giornali li chiamerebbero terroristi o fuorilegge ma loro preferiscono autodefinirsi guerriglieri e combattenti per la liberazione della Sardegna dal giogo colonialista.»

«Quindi anche i pastori lottano per una Sardegna comunista, libera dall’oppressione capitalistica?»

«Vittorio e gli altri ne sembrano convinti»

«Tu no?» domandò ancora ingenuamente il giovane.

«Molti di loro lottano e agiscono per degli ideali ma non siamo tutti uguali al mondo.»

Anche stavolta Marino sembrò leggere nella mente di Dario le perplessità che avevano suscitato le sue parole.

«D’altronde, alcune volte mi ritrovo a riflettere su cosa pensano i sassaresi e i cagliaritani, cioè la maggioranza numerica dei Sardi, di questa nostra lotta rivoluzionaria. Se anche vincessimo, ci seguirebbero di buon grado? L’accetterebbero?»

«Nelle nostre riunioni ho sempre sentito dire, da quelli che ne sanno più di me, che sono le élites a prendere il potere. Le masse devono seguire, perché hanno bisogno di essere guidate.»

« L’ho letto anche io da qualche parte. Ma vedi, noi Sardi siamo troppo fatalisti per credere davvero nella vittoria finale. Personalmente ho sempre pensato che sarebbe stato diverso se non fosse morto un certo editore, uno con i soldi e la testa da condottiero. Lui sì che ci credeva nella rivoluzione, anche se alcuni dicono che avesse confuso la Sardegna con Cuba.»

Marino, invece di soddisfare l’aria interrogativa che aveva visto ancora dipingersi sul viso del suo interlocutore, questa volta si alzò di scatto dopo avere guardato il suo orologio da polso.

«Devo uscire a telefonare. Vieni che ti mostro la tua stanza. Mettiti a tuo agio, io ritorno subito».

Andando via Marino gli rivolse un ultimo saluto. «Guarda che il telefono, qui in casa, funziona. Dipende soltanto da quello che devi dire e a chi tu debba telefonare.»