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lunedì 27 ottobre 2025
giovedì 9 ottobre 2025
Delitto al quadrivio
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Capitolo Sesto
Il lunedì
successivo all’omicidio l’Opinione riprendeva e rilanciava la notizia a tutta
pagina. Il titolo annunciava che i segni dello strangolamento erano compatibili
con l’utilizzo di un cappio o di una cordicella. Ma il titolo, come al solito,
non rispecchiava il contenuto del pezzo.
Il commissario De
Candia apprese infatti, mentre tentava di sorseggiare il suo cappuccino
bollente nel solito Bar da Tonio, che in seguito all’autopsia era stato
asseverato che nei polmoni della vittima non erano state rinvenute tracce di
iodio. Indi per cui l’omicidio non era stato commesso nel luogo di ritrovamento
del cadavere ma, come evidenziato dall’avvocato Luisa Levi nel ricorso al
Tribunale della Libertà, in altro loco. Dal luogo di effettiva consumazione del
delitto, continuava il ragionamento del difensore nel ricorso, il cadavere era
stato trasportato e abbandonato in un tratto di spiaggia nei pressi dell’ex
Ristorante-Pizzeria Il Quadrivio.
La vera notizia
era che veniva a cadere tutto l’apparato accusatorio della Procura, che si
basava sull’incontro casuale tra vittima e assassino, avvenuto sul lungomare
del Poetto e sul diverbio che, scoppiato tra i due, aveva spinto l’assassino
all’efferato omicidio.
Anche i tempi del ritrovamento del corpo apparivano incompatibili e contraddetti dalla ricostruzione dell’omicidio fatta dalla Procura. Il ritrovamento del corpo era stato fatto alle 22,30. Ma verso le due del mattino il rigor mortis era quasi terminato e quindi dovevano essere trascorse almeno dieci ore dalla morte. Dove era rimasto in quelle sette ore il corpo della povera vittima? A che ora era giunto sul lungomare e come? Tutte domande ancora senza risposte, era l’incalzante finale dell’articolista, che aveva fatto in fretta a scendere dal carro della Procura e salire su quello della Difesa.
In un’intervista,
nelle pagine interne, l’avvocato Levi spiegava che sin da subito aveva ritenuto
inverosimile la ricostruzione operata dagli inquirenti.
Infatti, spiegava
il legale, la vittima indossava un abito elegante e delle scarpe a tacco alto,
senza scialle o giacca al seguito. Nella borsetta non erano state rinvenute né
le chiavi di casa, né le chiavi della macchina. Ora, chiosava il legale con logica
incalzante, come era possibile che il presunto assassino che, non
dimentichiamolo, era stato fermato nell’immediatezza del ritrovamento, proprio
mentre si svolgevano le operazioni peritali sul cadavere, non avesse con sé
neanche un oggetto della vittima? E come mai nella borsetta vi erano invece il
portafoglio, con dei contanti, le carte di credito e altri oggetti di valore?
La risposta logica era che il delitto doveva per forza essere stato commesso da
un’altra parte e non nel luogo del ritrovamento. Per questi ed altri motivi il
Tribunale della Libertà aveva ordinato l’immediata scarcerazione
dell’indiziato.
Elegantemente il legale non aveva fatto cenno agli evidenti svarioni dei cosiddetti inquirenti.
L’Opinione, dal
suo canto, si limitava a lodare l’avvocato difensore del presunto assassino
(mai come ora valeva per lui la presunzione di innocenza) senza ritornare
sull’operato degli inquirenti (che avevano portato all’ingiusto arresto di un
innocente) a suo tempo lodati come tempestivi e brillanti.
Al suo arrivo in
Questura il Commissario si accinse a riesaminare tutti i fascicoli di omicidio
che giacevano sulla sua scrivania (morti ingiuste, anch’esse, ma che meno
risalto avevano trovato nella cronaca), ormai comunque ampiamente istruiti: il
transessuale ucciso a Giorgino; il corpo dagli arti mancanti restituito dal
mare; i due pastori uccisi nelle campagne di Dolianova; la farmacista uccisa in
casa; la prostituta accoltellata in viale Po e il matricida tossicodipendente.
Erano soltanto alcuni “dei casi di omicidio che avrebbero costituito oggetto di
esame della riunione settimanale del suo team che comprendeva, oltre a lui, il
sovrintendente Farci e l’ispettore Zuddas.
In previsione del
periodico incontro, voleva capire quali altri atti essi necessitassero e stava
studiandoci sopra quando proprio Zuddas irruppe nel suo ufficio, dopo una
bussatina veloce che soltanto i suoi più stretti collaboratori, nelle occasioni
informali, potevano permettersi. L’ispettore Zuddas aveva in mano un foglio con
tutta l’aria di un fax fresco di ricezione.
- «Notizia bomba, commissario!» esclamò l’ispettore brandendo proprio il foglio di carta lucida.
«Di
che si tratta, Zuddas?» disse il commissario senza scomporsi, sollevando appena
lo sguardo dalle sue carte – “Accomodati pure!”
-
«La
Procura Generale ha inviato la delega per le indagini del delitto del
Quadrivio!» disse Zuddas di un fiato, sedendosi di fronte al commissario e
porgendogli il foglio appena faxato dalla Procura.
Il commissario
diede uno sguardo al foglio e poi si accese una sigaretta offrendo il pacchetto
al suo sottoposto.
-
«Non
mi tenti, commissario! Oggi è il mio trentesimo giorno di astinenza!»
-
«Ah
già, è vero! Scusami Zuddas, mi ero scordato che hai deciso di smettere…»
-
«Per
ora, commissario!» – disse Zuddas che, per scaramanzia e per orgoglio (nel caso
avesse ripreso a fumare controvoglia) non aveva fatto dichiarazioni eclatanti e
ancor meno trionfanti sulla dismissione dell’odiato, ma anche amato, vizio del
fumo.
-
«Hai
capito il grande capo?» – disse il commissario riprendendosi il pacchetto con
la mano libera- “Quando ci sono interviste e televisioni per millantare
risoluzioni fantasiose è sempre in prima linea! Quando invece ci sono da
consumare il fondo dei pantaloni e le suole delle scarpe, avanti Savoia!!!”
-
“Arma
capere, alios pro mittere ad bellum!” – interpose Zuddas, il quale
aveva tutto un repertorio di massime latine, retaggio dei suoi passati studi
classici, che citava regolarmente e non sempre a proposito!”
- «Eh va beh!» – disse il commissario, levandosi in piedi, con un sospiro di rassegnazione- “era destino che la nostra riunione settimanale la dovessimo fare su sette fascicoli e non su sei!”
-
«Ma
questo mi sa che li vale tutti insieme o sbaglio?»
-
«Beh,
a sentir certi giornali…!»
Così
dicendo il commissario De Candia si avviò verso l’uscita.
-
«Se
mi cercano sono a Palazzo dal procuratore!»
-
«Comandi,
commissario!» rispose Zuddas con cortesia.
-
«Non
torno in ufficio. Se hai urgenza, chiamami al cellulare».
-
«D’accordo
commissario. La chiamo solo se è necessario, dato che io resto qui sino a fine
turno!»
-
«Ah,
fammi il favore! Dai uno sguardo a quei sei fascicoli e poi sistemali in un
faldone per la riunione settimanale!»
-
«Ci
conti commissario!»
-
«Grazie
Zuddas! E avvisa anche Farci delle novità, ricordandogli della riunione! E per
domani giusto!?»
-
«Giustissimo
commissario! Proprio domani!»
-
«A
presto allora! Domani ti faccio sapere del mio incontro di oggi in Procura!» –
aggiunse De Candia infine lasciando l’ufficio.
-
«A
domani commissario! E cave canem!»
giovedì 2 ottobre 2025
Delitto al Quadrivio
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Capitolo Quinto
mercoledì 1 ottobre 2025
Memorie di scuola
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Quarta Elementare
Anno scolastico 1963-64
lunedì 22 settembre 2025
Delitto al quadrivio
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Capitolo Terzo
Dopo avere
recuperato un po’ del sonno perduto, una doccia refrigerante e una buona colazione
l’avvocato Luisa Levi, vestita come si conviene a chi si accinga a simili
visite, si trovava in viaggio sulla strada statale 130, diretta al nuovo
Carcere Circondariale di Uta.
Anche se il personale della Polizia Penitenziaria, che
era lo stesso del vecchio carcere di Buon Cammino, ormai dismesso, la conosceva
bene, dovette assoggettarsi alla
consueta routine cui erano sottoposti gli avvocati (ben più snella e meno
estenuante di quella dei parenti): declinazione delle generalità del
recluso da assistere, consegna del badge
di ammissione, cellulari e macchine fotografiche nel cassetto con chiave e
consueta raccomandazione, ormai superflua, dopo anni di colloqui, di non
lasciare penne o altri oggetti appuntiti ai carcerati (la penna, pur non
essendo di per sé più pericolosa di tanti altri oggetti, era però suscettibile di una banale
dimenticanza rispetto ad altri oggetti pericolosi e di uso meno comune).
La sua attesa fu
breve. Anche il suo cliente non doveva aver dormito a lungo, nella notte appena
trascorsa.
Aveva infatti
l’aria stanca di chi ha fatto le ore piccole e non ha avuto modo né di
sbarbarsi né di cambiarsi d’abito.
Gino Garau era un
uomo sui quarant’anni, di media statua e di complessione olivastra. Aveva
ancora una folta e nera capigliatura riccia, dove si cominciava ad
intravvedere qualche spruzzatina di
grigio. Teneva gli occhi bassi ma dava più l’impressione di un uomo rassegnato
piuttosto che di un colpevole.
Prima di andare a
letto, e dopo avere predisposto al computer il Modulo di Nomina, indispensabile
per formalizzare la sua posizione di avvocato difensore di fiducia, l’avvocato
Levi aveva fatto una ricerca negli archivi elettronici e sulle banche date a disposizione
del suo studio e della rete, scoprendo che il suo assistito era stato
condannato circa quindici anni prima a otto anni di reclusione per rapina a
mano armata (ma ne aveva scontato soltanto sei , in ragione della sua ottima
condotta) a danni della Biglietteria del Teatro dell’Opera Cagliaritano.
Obiettivo della
rapina pareva essere stato l’incasso della Prima della Stagione Operistica.
Il Garau era stato
inchiodato dalla testimonianza di una violinista che lo aveva riconosciuto
nonostante il suo travisamento. A incastrarlo erano stati in particolare alcuni
segni distintivi, confermati poi dall’ impiegata della biglietteria, che la violinista aveva colto
con insolita acutezza mentre, al momento dell’irruzione del malvivente, si
trovava presso la biglietteria per ritirare due biglietti che aveva prenotato
per certi suoi ospiti.
La violinista era
stata colpita in particolare dal colore degli occhi del rapinatore,
insolitamente diversi tra loro; uno
castano, l’altro verde, la malformazione del mignolo della mano sinistra
e un tatuaggio sul polso della stessa mano, che si era evidenziato nel momento
in cui il rapinatore aveva allungato la mano per prendere i soldi che la
bigliettaia, con mano tremante, gli porgeva. In carcere Gino Garau aveva
studiato e si era laureato in psicologia. Da molti anni lavorava come
assistente nella Comunità “El Ziggurat”, un centro sociale che si occupava del
recupero di tossicodipendenti, alcolisti ed ex carcerati.
Il fondatore Don
Costantino Sanna, sacerdote e psicologo,
era convinto che chiunque potesse essere restituito alla vita, anche se non
tutti erano disposti a farsi recuperare.
Gino Garau era la
dimostrazione lampante di come gli ideali di un prete sognatore potessero
realizzarsi.
Dopo avere
sottoscritto la sua nomina, trasformandola da difensore d’ufficio a difensore
di fiducia, Gino Garau raccontò all’avvocato Levi la sua versione dei fatti. La
sera prima si era recato al Poetto per la solita passeggiata notturna col suo
cane, un pastore tedesco di nome Tex; a un certo punto si erano imbattuti in un
cadavere, in un tratto di spiaggia a ridosso del vecchio Quadrivio, che lei
sicuramente conosceva; aveva pensato che fosse il suo dovere chiamare il 112.
In seguito la
sfortuna aveva voluto che ad accorrere per il sopralluogo fosse un certo
maresciallo Camboni, lo stesso che una quindicina d’ anni prima, quando era
ancora brigadiere, lo aveva arrestato per una vecchia storia, per la quale
aveva già saldato il conto alla giustizia.
Lo stesso Camboni,
riconosciutolo tra la folla di curiosi, lo aveva poi sottoposto a fermo,
tramutatosi poi in arresto per volontà del procuratore della repubblica.
-
«Dottor
Garau, mi dica la verità, senza offendersi per la domanda e considerando
l’assoluto segreto professionale che mi vincola all’incarico che lei mi
-
ha appena conferito: è stato lei ad uccidere
la signora Daniela Georgimirescu?»
-
«
No, avvocato. Se lo avessi fatto non avrei mai chiamato la pula e meno che mai
mi sarei trattenuto in zona col mio
cane.»
-
«
Lei mi conferma quello che io ho già intuito. La ricostruzione fatta dalla
Procura e dai Carabinieri non mi ha convinto molto sin dal primo momento e dopo
aver parlato con lei mi convince anche meno!»
-
«
La ringrazio avvocato. Comunque anche la ricostruzione fatta dal quotidiano
‘L’Opinione’ è alquanto fantasiosa.»
-
«
Di quella non faccia alcun conto. Nel dibattimento, semmai ci arrivassimo,
perché io conto di smontare anche prima questo castello di sabbia che hanno
messo in piedi, gli articoli dell’Opinione contano quanto il due di picche,
quando la briscola è a denari!»
Gino
Garau si fece scappare un mezzo sorriso. Nessuno si aspettava che una donna
conoscesse la briscola.
-
«Dov’è il suo cane adesso?» – gli chiese
l’avvocato restando seria.
-
«
Ho pregato i Carabinieri che lo portassero a Settimo San Pietro, nella Comunità
‘El Ziguratt’ e che lo affidassero a don Costantino. Io lavoro e vivo là da
quando ho lasciato il carcere, l’altra volta».
L’avvocato
notò una nota particolarmente dolente nella voce di Gino Garau.
-
«Contatti
don Costantino appena possibile e si assicuri per favore che il mio Tex sia con
lui. E lo rassicuri anche sulla mia buona fede e sulla mia innocenza. Lui e il
mio cane sono tutto ciò mi rimane. In particolare don Costantino mi ha
restituito la dignità, un lavoro e la voglia di vivere in un momento in cui ero
davvero solo, senza più genitori, né affetti e senza più amici.»
-
«Non
dubiti. Questo pomeriggio stesso, dopo che avrò finito i miei incombenti in
Procura, mi recherò da lui. Ci rivedremo presto per l’interrogatorio di
garanzia. Le suggerisco sin d’ora di avvalersi della facoltà di non rispondere,
almeno sino a quando non si sarà svolta l’autopsia. Poi ne riparleremo e
studieremo insieme la migliore strategia».
domenica 21 settembre 2025
Storia vera di un eroe garibaldino
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Capitolo
Quarto
Luigia
Stranio era la primogenita delle tre figlie che erano nate dal matrimonio di
Sebastiano e Margherita Doria.
Forse
non era la più bella ma sicuramente era la più intelligente, la più estroversa
e la più pudica e osservante delle tre.
Ma non
furono certo queste tre doti, che pur acquistarono un peso determinante in un
secondo momento, a colpire di primo acchito Gaspare Nicolosi.
Il
focoso e passionale siciliano, almeno inizialmente, era rimasto incantato dalla
voce della ragazza, che aveva sentito cantare divinamente ad un ricevimento per
i neo-promossi ufficiali del Regno, oltre che dalle sue forme rotonde e
generose, che gli ricordavano tanto le donne della sua amata isola, pur nel
contraltare del suo incarnato pallido e dei capelli biondi, che aggiungevano al
suo fascino quel tocco di esostico nordismo a cui Gaspare Nicolosi, come
qualsiasi altro siciliano, non seppe resistere.
Il
resto lo fecero certamente quelle doti e complessivamente la personalità della
più matura delle sorelle Stranio.
L’intelligenza
di Luigia la portava ad ascoltare più che a chiacchierare; ed a Gaspare
Nicolosi non dispiaceva affatto essere ascoltato, dato che essendo nato in una
famiglia numerosa, per di più cresciuta
senza padre, tempo di ascoltarlo in casa sua non ce n’era mai stato abbastanza;
la sua estroversione, d’altro canto, compensava il carattere fondamentalmente introverso di
Gaspare Nicolosi; e in quanto alla ferrea osservanza cattolica, che per Luigia
Stranio non era un fatto di costume ma di autentica vocazione interiore, per
Gaspare Nicolosi costituiva una sorta di recupero di quei valori che la sua
prima educazione e soprattutto sua madre, gli avevano inculcato sin da piccolo,
ma che lui, abbandonando la famiglia per seguire Garibaldi, aveva voluto deliberatamente
e apertamente rinnegare.
Insomma
i due giovani erano i classici opposti che però si attraevano a vicenda.
Ma
Luigia, in particolare, non avrebbe mai scelto di accettare la corte del
valoroso siciliano se le sue doti e le sue caratteristiche personali non le
avessero ricordato la personalità di un cugino, Lionello, con il quale lei era
cresciuto e che aveva voluto bene come ad un fratello; il quale cugino, unico
dei tre figli di un suo zio paterno, aveva abbandonato carriera e agi borghesi,
per seguire proprio Giuseppe Garibaldi sin dalle sue prime avventure libertarie
e che Luigia, una volta venutogli a mancare, rivide nella personalità
altrettanto avventurosa e leale del suo corteggiatore siciliano.
Anche
se in effetti i due garibaldini non si incontrarono mai sui campi di battaglia
e si conobbero soltanto in maniera superficiale quando Lionello aveva ormai i
giorni contati.
Infatti
mentre Gaspare Nicolosi si faceva onore nel modo che abbiamo già narrato,
Lionello, nella stessa battaglia di Calatafimi, era stato ferito in modo serio,
seppure apparentemente non gravissimo, e quindi insieme ad una trentina di
altri feriti gravi aveva preso la via del rientro a casa.





