Capitolo 11
L’indomani mattina, quando mi svegliai, trovai Michele in cucina che armeggiava con la macchinetta del caffè.
Dopo il caffè gli dissi che prima di andar via avrei voluto aiutarlo a ripulire la casa. In effetti c’era un gran casino dappertutto.
L’idea gli piacque e lavorammo sodo per un paio d’ore.
«Simona sarà contenta, quando torna!» disse, a un certo punto, sedendosi per riposare e accendendosi una sigaretta, tutto soddisfatto.
«Rientrerà per pranzo?» gli chiesi accettando la sigaretta che mi offriva e sedendomi a fumare anch’io.
«No, il venerdì fa orario continuato in agenzia e mangia fuori» rispose Michele. «Che ne dici di una pastasciutta per pranzo?» continuò levandosi in piedi.
Non sapevo se accettare. Avevo paura di disturbare. Forse pensavo a quel detto che ripeteva spesso il mio vecchio ridendo: “L’ospite è come il pesce; dopo ventiquattrore puzza!”. Io ero lì, lì, per compiere un giorno intero. Pensai che magari Simona non sarebbe stata d’accordo.
«Dai, non vorrai farmi pranzare da solo?»
La sua offerta fu così genuina che mi parve scortese rifiutare.
«Permettimi però di andare a comprare qualcosa al supermarket.»
Non voleva, ma dovette accettare la mia condizione, perché capì che senza di quella me ne sarei andato sul serio.
Quando tornai col vino, la frutta e del formaggio stava già scolando la pasta. Aveva improvvisato una carbonara niente male, il buon Michele.
«Mi piace cucinare. Con Simona che mangia spesso fuori mi son dovuto abituare. E adesso lo faccio con piacere.»
Dopo pranzo mi portò nel laboratorio dove confezionava i suoi articoli di pelletteria. Ne aveva parecchi; tutti pezzi unici; avevano un non so di che di robusto, di antico e di artistico allo stesso tempo; pur nella loro estrema essenzialità. Si mise a riempire dei borsoni.
«Domani devo esporre alla Festa de Noantri! Mi fai compagnia? Così mi aiuti anche a portare la merce. Sabato sarò da solo!»
«Simona non viene con te?»
«Magari la domenica. Il sabato lei lavora, soprattutto in questo periodo.»
«Pensi che a Simona faccia piacere?»
«Se sa che mi aiuti alla festa, figurati! Lei è molto protettiva; si sentirebbe sicuramente più tranquilla!» disse con entusiasmo, immaginando dalla mia domanda che io volessi accettare la sua proposta. In effetti l’idea non mi dispiaceva. Fra i miei progetti mai realizzati c’era stato , un tempo, quello di vendere per strada degli oggetti confezionati da me. Come faceva Michele, senza impegno, giusto per campare la giornata. Magari io avevo pensato a dei braccialetti, degli anellini o delle collanine in metallo. Però era l’artigianato in generale che mi piaceva. Mia nonna materna raccontava sempre, con orgoglio e vanto, di avere ritrovato in un ripostiglio, i giocattoli in legno che mi ero costruito da me, un’estate che avevo trascorso a casa sua.
Il sabato notte, quando rientrammo dalla festa, Simona ci aspettava. Lei aveva già cenato ma ci aveva lasciato qualcosa in caldo. Mentre cenavamo Michele le raccontò con entusiasmo di come ero stato abile nel condurre numerose trattative con i turisti di diverse nazionalità e di come avevo convinto una riccona libica, ad acquistare un porta gioie per centocinquantamila lire! Io cercai di sminuire i suoi racconti ma il suo entusiasmo era alle stelle. Lessi negli occhi di Simona una nota di riconoscenza. Era contenta di vedere suo fratello così contento.
Il lunedì successivo si mise a lavorare in laboratorio di buona lena.
Le vendite del fine settimana lo avevano gasato. C’erano altre feste e altre fiere in estate e lui voleva approfittarne per farsi un po’ di soldi.
La sera Simona insisté per accompagnarmi in macchina sino a Bracciano, a casa di un amico, dove avevo lasciato i miei bagagli. Michele preferì stare a lavorare e promise che ci avrebbe preparato la cena.
Simona durante il viaggio mi disse che il mio arrivo aveva migliorato l’umore di suo fratello.
« Non ho fatto niente di speciale» le dissi sminuendo il mio ruolo. In effetti non sentivo di aver fatto niente di speciale. Ero stato soltanto me stesso, con semplicità e sincerità.
Indossava una gonna lunga, di quelle che si usavano in quegli anni, in certi ambienti, con i bottoni sino alle caviglie, che però, abbottonata soltanto nella parte superiore, adesso le lasciava scoperta una bella porzione delle belle gambe bianche. Per non fissarmi in quella direzione le chiesi qualcosa di lei, cercando di guardare il bel paesaggio che fuori si snodava a fianco del finestrino della sua piccola due cavalli.
Non si può dire che fosse una grande chiacchierona. O forse ero io, quello che doveva parlare; almeno quella sera. Infatti, dopo un po’ mi fece una domanda. Mi suonò come se tutto quello che ci eravamo detti prima, fosse stato soltanto un prologo, una sorta di riscaldamento preparatorio.
«Mi ha detto che Michele che sei un amico di Donato Catinari».
«Sì. Ci siamo conosciuti a Londra, un paio d’anni fa. Di passaggio qui a Roma, mi è venuto il desiderio di passare a salutarlo…»
«Davvero? E che facevate a Londra?»
«L’ultima volta che l’ho visto a Londra, vendeva degli specchi a Carnaby Street. Ma sapevo che aveva deciso di rientrare in Italia. Un amico comune, un certo Giampiero, più tardi mi confermò che aveva lasciato la sua ragazza e ogni altra cosa, per tornarsene a Roma.»
Forse aspettava che io continuassi, ma in realtà avevo già finito quello che dovevo dire.
«E’ anche amico tuo, Donato?» , le chiesi a mia volta.
«No, no!» - si affrettò a rispondere- «So molto poco di lui. Esattamente quel poco che mi ha saputo dire Michele. A quanto pare è più un amico di amici. Neanche mio fratello sembra sapere esattamente di cosa si occupi.»
Colsi nella sua voce un accento di ansia, come se fosse preoccupata per qualcosa. Quasi mi avesse letto nel pensiero aggiunse, subito dopo.
«Da quando sono morti i nostri genitori, ho cercato di proteggerlo, come ho potuto. Il mondo è pieno di pericoli; e lui ha risentito più di me della loro morte; è sempre stato un ragazzo molto sensibile…»
«Ti preoccupa il fatto che fumi?» le chiesi, sentendomi in colpa, per l’apprensione di quella sorella materna.»
«Magari fosse il per il fumo! Ma ti pare? » scappò detto, ridendo di gusto, a Simona.
Quella risata sembrò liberarci da dei discorsi che non avevano avuto, a parer mio, un flusso troppo naturale; e neanche scorrevole.
Io mi sentii più tranquillo per il fatto che Simona non si fosse mostrata ostile al fumo. Mi piaceva fumare, ma capivo che per certe persone potesse costituire un problema avere a che fare con quella roba. Non era, di tutta evidenza, il caso di Simona. Doveva esserci sotto dell’altro, ma lei preferì lascia cadere il discorso.
Al ritorno, recuperati i miei bagagli, ascoltammo in silenzio la musica della radio.
Io capii che Simona voleva stare in silenzio. Anche a me piaceva quel silenzio, che permetteva ai nostri pensieri di fluttuare nell’aria, senza scontrarsi, come invece succede quando si discorre, spesso a causa di fraintendimenti, o di pensieri espressi in maniera oscura; o magari troppo chiaramente.
Michele era stato di parola. La cena che aveva preparato fu gradevole. Anche Simona mi sembrò più rilassata. Dopo cena Michele ci mostrò le sue ultime creazioni. Stemmo fuori, nel giardino a parlare e a fumare a lungo. Simona fu la prima a ritirarsi. Quando venne a darci la buonanotte mi disse che mi aveva preparato il divano (che io disfacevo ogni mattina, piegando le lenzuola e riponendole, con il cuscino, sulla seduta) per la notte.
Era la prima volta che mi usava quella cortesia. Michele la ringraziò da parte mia, ma lei rispose al mio sguardo di riconoscenza con un’espressione enigmatica, che poteva voler dire tutto e il contrario di tutto.
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