Capitolo Settimo
Seconda media
Anno scolastico 1966-1967
Alla fine anno scolastico
65-66, come accennato in precedenza, venni promosso a pieni voti e così in
estate potei ricongiungermi finalmente alla mia famiglia.
Il mio paese, la mia famiglia, i miei amici (a parte, ovviamente,
quelli che avevano diviso con me i sacrifici della vita collegiale) mi erano
mancati molto.
Lì ritrovai tutto come prima. I campi assolati, le lunghe
giornate d’estate che sembravano non
finire mai. Le gite al fiume su mezzi improvvisati: sulla canna di una
bicicletta o sul triciclo portabombole
di Giorgio se si andava a “Funtananoba”,
ma anche a piedi se si andava a “Sa
Cascadedda” o a “Su Sifoi”.
Mio padre era drasticamente contrario che si andasse al fiume. Era
proibito per i miei fratelli maggiori, figuriamoci per me. Lui manifestava a
voce le sue paure, che lì,
fra le canne del fiume, i vagabondi del paese potessero commettere degli
abusi sessuali nei nostri confronti (o chissà, magari dentro di sé, aveva paura
che i miei fratelli più grandi potessero abusare magari loro dei ragazzi più
piccoli).
Io per non sbagliare, ci andavo di nascosto anche dei miei fratelli, così correvo meno rischi
di essere scoperto.
E ad onor del vero io non sono mai stato sessualmente molestato in
quelle innumerevoli volte in cui sono stato al fiume. Anche se debbo dire che
mio padre non aveva in fondo tutti i torti.
Mi ricordo infatti un certo “Marieddu
su tuffadori” (un ragazzo un po’ più grande di noi, così chiamato perché
eseguiva dei tuffi davvero impossibili, da altezze per noi inimaginabili) che
si era fissato su uno dei miei coetanei, un certo Caddeo. Marieddu cominciò
col dire, nel suo sardo colorito e
turpe, una volta che Caddeo volgendoci
le spalle, si dirigeva verso l’acqua per
nuotare:
- ” Avete notato che il culo di Caddeo è bello come quello di una
donna?” E ripeti oggi e ripeti domani, nella nostra fantasia di adolescenti a
digiuno di tutto (e soprattutto, ovviamente, di donne) quel deretano bianco e
formoso finì per apparirci desiderabile. Così un bel giorno, mentre Caddeo si
trovava a mezza coscia già immerso nel fiume, Marieddu lanciò un urlo,
incitandoci a cogliere quel frutto di femminile sembianza. Da buon capo branco
fu il primo a lanciarsi verso l’ambita preda. E noi, stupidi inconsapevoli
di un gioco che poteva volgersi in
atroce dramma, lo seguimmo.
Caddeo difese con le unghie e con i denti (nel senso letterale dei
termini) il frutto dei desideri insani di Marieddu e tutto finì in quegli
spruzzi e in quelle spinte di giocosa eppur focosa incoscienza.
Per fortuna arrivò a mio padre la voce delle mie gite proibite al
fiume. Così fui costretto, insieme a qualche altro
fratello che col fiume non aveva niente
a che vedere, all’odiata siesta
pomeridiana (quanto poi l’avrei amata e desiderata negli anni seguenti lo dirò più avanti).
Io aspettavo che cominciasse a russare e poi me la svignavo alla
grande; ovviamente, in tali casi, occorreva pianificare bene ed essere di
rientro prima che mio padre si levasse per l’apertura del negozio (prevista per
le 17,00). Ma in quel lasso di tempo era obiettivamente più difficile cacciarsi
nei guai e combinare disastri.
Ma quando mio padre scoprì quel giochetto arrivò la misura più
drastica, il massimo della pena: la sera sarei andato con lui in negozio, ad
aiutarlo. Non che io fossi in grado di aggiustare gli orologi, intendiamoci; ma
intanto avrei dovuto imparare a stare al banco di vendita (“quattro occhi vedono meglio di due”
ripeteva sempre per invogliarmi a seguire il suo lavoro, soprattutto quando
esponeva gli oggetti d’oro ai clienti visitatori); poi stando accanto a lui nel
banco da lavoro avrei imparato ad eseguire i lavori più semplici: scoperchiare
gli orologi dal fondello con l’apricassa, affilatissimo, senza graffiarlo;
sostituire il vetro; sostituire le anse e il cinturino degli orologi; per poi
passare a qualcosa di più complicato ma che
comportava uno smontaggio solo
parziale e limitato dell’orologio: la sostituzione di albero e corona di carica
e la sostituzione della molla di carica (gli orologi elettronici, ovviamente,
non c’erano ancora).
Al rientro ad Arborea mi prese una grande malinconia. Gli amici
del paese si erano tutti ritirati, o quasi. Eppure tutto sembrava come l’anno
prima: l’accoglienza affettuosa dei precettori salesiani; il passo volante;
l’odore profumato delle saponette, del bucato e del dentifricio nuovi di zecca;
l’odore intenso della cancelleria comprata per l’occasione e quello di libri
freschi di edizione.
Eppure qualcosa era cambiato dentro di me; io non saprei dire
cosa.
Ora mi pesavano di più la severità degli orari, la disciplina a
tavola, dove non si poteva fiatare (pena dei rudi colpi in testa col campanello che i guardiani della sala da
pranzo portavano con sé, ben saldi nelle
mani dietro la schiena, nei giri di ronda tra i tavoli della refezione), io che
ero abituato alla giocosa convivialità dei pranzi di famiglia, quando ci si
trovava tutti insieme attorno alla tavola rotonda che mio padre aveva fatto costruire
apposta dal falegname, per contenere
comodamente tutti e dieci figli, mia nonna
materna (che spesso soggiornava con noi per lunghi periodi), Mariangela (la
ragazza che aiutava mia madre nelle faccende domestiche, che la sera rientrava
a casa sua , per riprendere il servizio l’indomani mattina) e naturalmente
mamma e papà.
Anche la notte, nel dormitorio, mi colpì una sorveglianza stretta
e rigorosa che l’anno prima non avevo notato.
Forse eravamo diventati più maliziosi e quindi più pericolosi agli
occhi dei nostri educatori; o forse fu il mio malessere a farmi travisare la
realtà; fatto sta che a un certo punto ci fu qualcuno di noi che parlò di non
meglio identificate molestie sessuali da parte di uno dei giovani precettori,
neppure ancora consacrati. Preciso che si trattava del più severo e odiato dei
giovani chierici; i suoi colpi di campanello alla testa erano micidiali e
facevano male davvero (io ne porto ancora i segni in testa); ma preciso altresì
che io non ho mai subito molestie sessuali da chicchessia, nè ho mai assistito
ad alcuna azione turpe o scurrile da parte di uno solo degli addetti al
controllo e all’insegnamento di noi studenti. C’era molta severità, questo sì;
anche mezzi di correzione manuali ( i temuti colpi di campanello alla testa ne
erano un esempio eclatante) e anche pedestri (i calci nel sedere ai più
riottosi e discoli di noi non erano certo rari) ma mai gesti sconvenienti,
neppure simulati.
E aggiungo che noi eravamo, in linea generale, una masnada di
indisciplinati, chiacchieroni e scansafatiche; e secondo me i calci in culo e i colpi di campanello ce li
siamo meritati tutti (e anche di più).
Ma io, quando vidi che i miei genitori facevano resistenza alle
mie richieste insistenti di rientrare a casa, usai la diceria delle molestie sessuali che si era diffusa in
collegio, come leva per vincere la resistenza dei miei genitori.
Nessuno, in casa, mi chiese dei particolari su quella stupida
diceria, per cui non ebbi bisogno di inventare niente di niente.
La diceria esisteva e si era diffusa e io la avvertii come
minaccia (o forse la sfruttai a mio comodo). Ma ripeto che a me non risulta per
niente che ci sia stata, in quel collegio e in quel tempo da me speso come
studente interno al Seminario, alcuna molestia di natura sessuale in danno dei
ragazzi. E d’altronde è comprovato che mai ci fu alcuna denuncia contro alcuno
degli educatori, giovani o vecchi, laici o clericali che essi fossero.
Quando le mie richieste si erano fatte più insistenti, una domenica sera, mio padre e mia madre
vennero a riprendermi. Per me fu una liberazione. Il viaggio di rientro passò
quasi nel completo silenzio, non so se dovuto all’ imbarazzo di mio padre, alla
delusione di mia madre o alla mia emozione per aver ottenuto l’agognato
rientro.
Mio padre interruppe il silenzio soltanto una volta. E fu per dire
in tono asciutto :
” Non pensare di trovare
l’America in casa!”
Il che voleva dire , nel gergo da lui prediletto, che non mi
avrebbe dato modo di spassarmela troppo (forse pensava ancora alle mie scorribande
al fiume o per i campi assolati). Invece mio padre aveva in mente uno dei suoi
colpi di scena. Una delle sue intuizioni felici, da noi figli non sempre capite appieno, frutto del suo
desiderio di elevare una famiglia numerosa al livello economico delle più grandi imprese familiari regionali.
La mia ventata di riacquistata libertà durò così veramente poco:
il tempo di un trimestre scolastico per l’esattezza.
Insomma, non avevo fatto ancora in tempo ad apprezzare appieno la
mia nuova classe (finalmente una classe mista, con tante ragazze; dopo aver
vissuto segregato in un ambiente dove le uniche gonnelle erano quelle dei
preti, questo sì che era un grande risultato!) che mio padre calò il suo jolly!
Contrordine: si torna in Sicilia!
Del viaggio ricordo soltanto la 1100 Fiat familiare con mio padre
alla guida che veniva imbracato in una rete enorme ed issato a bordo con una
gru (le navi Tirrenia, all’epoca, infatti, non avevano ancora la poppa
ribaltabile per consentire un agevole imbarco agli autoveicoli e, così, si
ricorreva al metodo che ho descritto.
Poi mio padre ripartì. E per me fu una strana primavera quella del
1967.
I giovani compaesani di mio padre, nonostante la chiara origine
del mio cognome, iniziarono a chiamarmi “U
Sardignolu”. A me non piaceva nè il termine in sé, nè il modo con cui quei
ragazzi lo pronunciavano. Grazie alla mossa segreta, già sperimentata al mio
paese natio con il mio rivale capobanda Rodolfo, ne mandai a gambe all’aria più
di uno. E presto, non so se per timore o per rispetto la smisero di usare quel
termine offensivo; ed io mi integrai bene nei diversi gruppi.
A scuola mi misero all’ultimo banco con un ragazzone argentino di
nome Armando, i cui genitori, forse tentavano come mio padre un impossibile e
nostalgico rientro in Sicilia, partendo però dall’altra parte dell’oceano.
Armando parlava più lo spagnolo che l’italiano; ed io, così piccolo di statura,
da quell’ultimo banco, e con quella compagnia (il simpatico Armando non faceva
altro che parlarmi delle mirabolanti cose argentine) non seguivo certo le
spiegazioni degli ottimi docenti di quella scuola.
Per fortuna la professoressa di lettere (di cui purtroppo non
ricordo il nome), in seguito ad una mia ennesima scena muta, diede una così tremenda sferzata al mio
orgoglio (mi disse letteralmente: “Basile, quando sei arrivato sembrava volessi
spaccare il mondo!!! E adesso non fai altro che chiacchierare a vanvera!!!) che
da allora, chiesto ed ottenuto di cambiare banco (con la scusa che non vedevo
bene la lavagna) cominciai una lenta ma decisa risalita che mi condusse alla
promozione a pieni di voti.
Ricordo ancora Armando, a giugno,
davanti ai quadri di fine anno che commentava: “Ma come? Basile promosso
ed io bocciato?!?”
Povero Armando. Non si era neanche accorto del mio cambio di
passo.
La nostra casa siciliana era nella via principale del paese; una
strada strapiena di esercizi commerciali, di studi professionali, di abitazioni
lussuose e di servizi. La piazza col Castello, il Campo sportivo (con la
scritta “mens sana, in corpore sano”)
ed il Municipio (nei cui pressi c’era anche la casa del sig. Pipo) non erano
distanti dalla nostra casa; così come la scuola e la stazione dei treni.
Eppure, evidentemente, qualcosa non funzionò, se è vero come è
vero, che con la fine delle scuole ce ne ritornammo tutti in Sardegna. E meno
male che mio padre aveva pensato bene di continuare le attività imprenditoriali
già avviate in Sardegna (due negozi di gioielleria) ed era rimasto lì coi miei
fratelli più grandi, nella speranza di poterci raggiungere quanto prima con il
resto della merce e della famiglia.
Della Sicilia ricordo un amico (col quale, la domenica mattina,
invece di andare a Messa, andavamo a bighellonare per gli sterminati agrumeti
della periferia spadaforense. Ricordo anche un flipper, nel bar centrale, dove
i campioni si sfidavano nei pomeriggi e alle domeniche. Ricordo un giornale che a tutta pagina annunciava la
guerra dei sei giorni e la gente che nelle strade e nei bar preannunciava con
timore la Terza Guerra Mondiale. Ricordo
inoltre i miei album di figurine dei calciatori. Non avendo il coraggio di
chiedere i soldi a mia madre per comprarle all’edicola (nella mia ingenuità,
capivo comunque che i soldi incassati nel negozio non erano sufficienti), mi
ingegnai a vincerli al gioco. Si giocava nel cortile della chiesa, “a soffio”.
Il gioco consisteva nell’appoggiare al muro un mazzo di figurine e nel
soffiarlo con la bocca alla base. Si vincevano quelle figurine che si riusciva
a capovolgere con la soffiata. Riuscii a completare ben due Album di figurine:
con il primo vinsi un libro di narrativa (ricordo ancora il titolo: “L’ultimo
dei Mohicani”); con il secondo vinsi invece un’armonica a bocca.
L’Equipe 84 con la canzone
”29 settembre”; Dalidà con “Bang, Bang!”; Adamo con “La notte”.
Quando mio padre si stancò di mandare soldi dalla Sardegna (dove i
suoi affari andavano invece a gonfie vele) ce ne tornammo tutti a casa.
La macchina di mio padre fu imbracata nuovamente nella rete di
corde robuste della Tirrenia e la famiglia fu ricomposta in quella che di lì a
poco, grazie al boom della “Costa Smeralda” stava per trasformarsi da terra di
confino e di esilio a paradiso di vacanze e di promozioni.
Le mie vacanze, in quell’estate più che mai, fui costretto a
passarle nel negozio di mio padre, che aveva annessa la sua bottega di
orologiaio.
Mio padre mi ci portava perché aveva paura che, finita la scuola
istituzionale, io finissi con il frequentare i vagabondi del paese, i
bastasoni, i perditempo, i perdigiorno o i calandroni, come li
chiamava lui, a seconda del giorno e dell’umore.
E poi, mi ripeteva, “impara l’arte e mettila da parte!”.
Insomma, volente o nolente, le mie estati anziché odorare di fiume
e di campo, odoravano di grasso di iena e di olio di lince (mio padre,
soprattutto davanti ai clienti, chiamava
in questo modo misterioso, certi solventi che si usavano per la pulizia e per
la lubrificazione degli orologi e dei suoi innumerevoli ingranaggi,
principalmente perché era un uomo dalla spiccata fantasia e gli
piaceva infatti inventare; a suo modo era infatti un artista, ma io questo l’ho
capito dopo); io credo però che il
motivo fosse anche legato alla segretezza e alla gelosia che ogni capo bottega
ha dell’ arte che vi si svolge e degli
ingredienti che vi si usano.
Quando i clienti, entrando nella bottega (il cui accesso era
consentito soltanto ai clienti più affezionati, che si si spingevano oltre il
banco di vendita) lo salutavano con l’appellativo di “Maestro” io, nonostante
mi rodesse il fatto di essere costretto a frequentare la bottega, mi sentivo
orgoglioso del mio papà!
Mio padre a quel saluto sollevava lo sguardo dall’orologio al
quale si stava dedicando, senza togliersi neppure la lente d’ingrandimento, che
lui calzava nell’occhio sinistro, incastrandola con abilità nell’orbita oculare
ossea, sfruttando evidentemente una mobilità e una resistenza muscolare fuori
dall’ordinario.
Non amava affatto interrompere il suo lavoro (fatto di massima
concentrazione e ferrea precisione) e sul suo volto si stampava sempre un’aria
di severa interrogazione (io, se fossi stato bravo in disegno, avrei potuto,
senza tema di sbagliare, disegnargli una nuvoletta, all’altezza della fronte,
con su scritto “chi sarà mai questo rompicoglioni?”).
Ovviamente rispondeva con una domanda di stile, della serie
“salute a lei, mi dica!”, o qualcosa del genere. Mi dava sempre
l’impressione che scendesse da un altro
pianeta, a confrontarsi sulla terra con degli esseri inferiori che osavano
interrompere il suo viaggio interstellare.
Devo dire per completezza che mio padre non amava neppure
staccarsi dal banco da lavoro per recarsi al banco di vendita; e se non c’era
un affare importante in vista (magari già avviato) preferiva delegare me o
qualche altro fratello, così lui poteva dedicarsi ai suoi amati orologi e ai
suoi misteriosi ingranaggi. Io ero ben contento, al contrario di lui, di
servire la clientela che entrava nel negozio per acquistare, fosse anche per
sostituire il cinturino dell’orologio o il moschettone di chiusura della
catenina o del bracciale. Il mio massimo era servire qualche avvenente ragazza
con cui mio padre si sarebbe scazzato da morire (dato che diceva che le donne
erano sempre troppo indecise e gli facevano perdere del tempo per lui
prezioso).
L’apprendistato dell’orologiaio iniziava con un anno intero passato a guardare il
“maestro” lavorare. Mio padre era un uomo di poche spiegazioni: occorreva
osservare ed intuire. Non amava neppure le domande, che spezzavano la sua
concentrazione.
Quel primo anno serviva
anche per imparare il nome dei solventi (oltre al grasso di iena e all’olio di
lince, c’erano diversi acidi, come quello che serviva a staccare la spirale del
bilanciere) e il nome dei diversi attrezzi (la pinzetta finissima, i
cacciaviti, numerati da 1 a 10, la tronchesina, gli alesatori, gli oliatori,
l’estrattore, i punzoni, numerati da 1 a 50 e così via; c’erano anche pinze e
tenaglie ma mio padre le usava raramente, perché diceva, ridendo, che quelli
erano attrezzi più adatti agli scarpari che agli orologiai); inoltre occorreva
essere capaci di trovare, velocemente, il pezzo che eventualmente fosse caduto
al maestro durante la lavorazione (e lì capivi
l’importanza di fissare il lavoro con lo sguardo; una distrazione in
quella circostanza, oltre che una sgridata o, peggio, un manrovescio,
significava non sapere in quale direzione indirizzare la propria ricerca; e se
si trattava, ad esempio, di una molletta di calendario o di una qualsiasi altra
molletta, erano guai sul serio) .
Dopo il primo anno l’apprendista poteva cominciare a pulire
qualche sveglia, privata dello scappamento dal maestro oppure da qualche
apprendista più anziano e comunque sotto stretta sorveglianza di qualcuno più
anziano in bottega.
Dopo due anni l’apprendista poteva cominciare a smontare e a
rimontare un EB 700 oppure un AS 1130. Si trattava dei due macchinari più
semplici (il primo senza rubini mentre il secondo ne montava ben 17!), allora
commercializzati sotto diversi marchi (mio padre trattava gli svizzeri Imperios e Superior , che montavano anche
l’AS 1130, indistruttibili e senza
tempo); i macchinari su cui all’inizio si esercitavano i praticanti però, non appartenevano ai clienti ma erano di orologi
che appartenevano alla bottega (magari erano stati versati in occasione
dell’acquisto di un orologio nuovo; oppure erano appartenuti a clienti che per
non pagare il costo della riparazione avevano preferito rinunciare
all’orologio; e ciò nonostante mio padre fosse molto meticoloso e preciso nei
suoi preventivi, sconsigliando sempre la riparazione quando il costo sarebbe stato
eccessivo rispetto al valore dell’orologio).
Se questi primi montaggi andavano in porto positivamente, allora
il praticante era ammesso alla sostituzione dell’asse del bilanciere o
dell’albero di carica (con o senza coroncina) e della molla di carica sugli
orologi dei clienti; ma sempre supervisionato dal maestro o da altro praticante
più anziano.
Insomma, se tutto andava per il verso giusto, al decimo anno,
forse, eri in grado di riparare i “cinque linee” (cioè gli orologi da donna più
minuscoli allora in commercio), gli orologi automatici, quelli a calendario e
via, via, i cronografi, con e senza fasi lunari, e i pendoli, il cui apice era
costituito, a quel tempo, da quelli che battevano il quarto d’ora e avevano
delle icone mobili che comparivano nelle diverse fasi del giorno.
Io mi fermai al montaggio e rimontaggio degli AS 1130 (anche se
più tardi, ormai laureando, mi riscattai superando a pieni voti un corso per la
manutenzione dei nuovi orologi analogici al quarzo, organizzato dalla
prestigiosa casa svizzera LONGINES; serbo ancora con orgoglio il diploma che mi
venne rilasciato a fine corso)
Per mia fortuna dopo
qualche anno dalla sfortunata campagna di Sicilia (su cui ho già intrattenuto
il lettore in precedenza) mio padre ebbe un’altra delle sue coraggiose
iniziative e pensò bene di comprare un locale commerciale di oltre
centocinquanta metri quadrati nel centro di Cagliari per farvi una gioielleria
con tutti i crismi. Anche in questa circostanza la testa di ponte fu costituita
da mia madre (col suo ruolo di mamma), da me (col ruolo di vice-capofamiglia) e
tutti e cinque i miei fratelli più piccoli.
Anche questa nuova avventura non andò bene ma debbo dire, per
onestà, che questa volta mio padre aveva visto giusto, ma noi figli non fummo
all’altezza delle sue grandi visioni di allargamento e di ingrandimento
dell’azienda paterna. E perciò,
rivenduto degnamente il locale commerciale, i miei fratelli preferirono
espandersi nei paesi viciniori all’azienda fondata da mio padre.
Ma questo fa parte già di un’altra storia.
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