Capitolo Terzo
19 giugno 1860
Le truppe borboniche lasciano Palermo
Il
fuoco nemico sulla mia spalla si è già spento, ma non sì è spento il fuoco che
ci infiamma il cuore per Garibaldi e per l’auspicio di un’Italia libera dal
giogo degli stranieri. Quel fuoco aveva incominciato ad infiammarmi il cuore
sin dai tempi in cui frequentavo i corsi degli Scolopi a Trapani.
Adesso
sono a Palermo anche io. Dopo avere riposato un po’ sulle retrovie, per
rimettermi dalla ferita (che, a sentire il medico, si è rivelata meno grave di
quanto non apparisse in un primo tempo; e questo perché la pallottola è uscita
miracolosamente dall’altra parte, senza toccare l’osso) ho raggiunto il resto
delle nostre truppe.
Appena
giunto nella capitale Garibaldi mi ha voluto incontrare al Palazzo Pretorio,
dove si è già insediato da Commissario plenipotenziario. Mi abbraccia alla
presenza del suo stato maggiore: è un’emozione sentirlo parlare, rivolto
proprio a me; parla con un accento curioso; capisco che mi loda e che mi
ringrazia ma vedendomi ammutolito (a causa dell’emozione) pensa che io non
abbia capito; La Masa, richiesto dal
generale, mi comunica con orgoglio e
soddisfazione, che sono stato promosso sottotenente e che lui mi deve
considerare un suo aiutante di campo nella Quarta Compagnia, quella dei
Cacciatori, per insegnare agli altri picciotti come si diventa un vero
garibaldino sul campo. Ma io avevo capito benissimo. E’ che mi sembrava troppo
bello per essere vero.
Gli
accenti più diversi, mi sono diventati subito familiari. Come ufficiale, quando
non siamo sul campo di battaglia, frequento di diritto gli ufficiali delle
altre compagnie: la maggior parte sono di Bergamo, di Milano, di Como, di
Pavia, di Brescia; in realtà son soltanto le frasi idiomatiche ad essere di
difficile comprensione: quando si parla a mensa o nei circoli improvvisati che
noi ufficiali istituiamo all’occorrenza, si parla l’Italiano e ci si capisce a
perfezione.
Nessuno
mi fa sentire a disagio: eppure non mancano i laureati in filosofia e in
lettere, gli avvocati, i medici, i matematici,
gli ingegneri e i maestri; non si parla tra di noi solo di battaglie, di
donne e di musica (a proposito il Generale è rimasto incantato dalla mia voce;
mi ha sentito cantare alcune di quelle diverse arie che avevo studiato in
collegio quando mi era venuto il ghiribizzo di fare il cantante; è un grande
esperto ed appassionato di musica e di arie antiche).
Tra
di noi si parla anche della Scienza
Nuova di Gian Battista Vico, delle nuove idee sull’idealismo romantico che
questi miei speciali compagni d’armi padroneggiano e molti ne hanno avuto
l’animo conquistato e mi parlano anche di poesia e letteratura, trattandomi da
pari a pari. Io cerco di elevarmi quanto più posso e leggo tutto quanto mi
capita per le mani. Naturalmente quando non sono in campo.
Siccome
tra noi ci sono alcuni religiosi di carriera (frati e sacerdoti, alcuni, mi è
stato detto, partiti con il Generale sin dal porto di Quarto; altri, come si
intuisce dall’accento, unitisi a noi nell’isola), a volte si formano nelle
discussioni due partiti: quello clericale, che difende la Chiesa e la considera
alleata della rivoluzione per l’Unità d’Italia; e quello anticlericale (del
quale faccio parte anch’io), che invece vede la Chiesa e il Papa, in
particolare, come un ostacolo all’azione di Garibaldi.
Un
giorno uno del mio partito, più acceso degli altri nel dibattito, chiese in
malo modo a Padre Luigi (un religioso che si è conquistato fama di uomo dalle
idee libertarie), se fosse più grande il Papa o Garibaldi.
Quell’uomo
di chiesa e di lettere mostrò tutto il suo valore con la risposta che seppe
dare al mio esagitato compagno, senza peraltro scomporsi.
Rispose
Padre Luigi che Gesù Cristo mise Pietro a capo della Chiesa per perpetuare i
valori del Vangelo e della Fede ma che poteva ben darsi, e la Storia lo aveva
mostrato altre volte, essendo la Chiesa fatta di uomini, che l’uomo della
Provvidenza si trovi ad indossare una camicia rossa, invece di una tunica
bianca; e che spetta all’intelligenza ed alla sensibilità degli uomini
discernere quale dei due sia degno d’essere seguito.
Non
so se fu un caso, ma il giorno dopo Garibaldi si inginocchiò nella Cattedrale
durante la Messa, e dopo avere ricevuto la benedizione del celebrante, tenne un
grande discorso dei suoi, sulla bontà di Gesù e della Sua Parola, e
sull’importanza di essere uniti, tutti gli Italiani, nel nome di Gesù Cristo.
Anche
a Palermo la fortuna ha arriso il mio grande generale e la sua spedizione
avventurosa. I soldati borbonici, dopo che gli abbiamo dato battaglia rione per
rione, casa per casa, aiutati in tutto e per tutto dalla popolazione civile,
hanno firmato l’armistizio, lasciandoci padroni di Palermo.
Il
mio generale è osannato per le strade come un vero liberatore. E tutti noi ci
accorgiamo di essere circondati dall’amore e dall’affetto dei palermitani.
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