sabato 14 settembre 2019

Storia vera di un eroe garibaldino



Capitolo Terzo
19 giugno 1860
Le truppe borboniche lasciano Palermo


Il fuoco nemico sulla mia spalla si è già spento, ma non sì è spento il fuoco che ci infiamma il cuore per Garibaldi e per l’auspicio di un’Italia libera dal giogo degli stranieri. Quel fuoco aveva incominciato ad infiammarmi il cuore sin dai tempi in cui frequentavo i corsi degli Scolopi a Trapani.

Adesso sono a Palermo anche io. Dopo avere riposato un po’ sulle retrovie, per rimettermi dalla ferita (che, a sentire il medico, si è rivelata meno grave di quanto non apparisse in un primo tempo; e questo perché la pallottola è uscita miracolosamente dall’altra parte, senza toccare l’osso) ho raggiunto il resto delle nostre truppe.

Appena giunto nella capitale Garibaldi mi ha voluto incontrare al Palazzo Pretorio, dove si è già insediato da Commissario plenipotenziario. Mi abbraccia alla presenza del suo stato maggiore: è un’emozione sentirlo parlare, rivolto proprio a me; parla con un accento curioso; capisco che mi loda e che mi ringrazia ma vedendomi ammutolito (a causa dell’emozione) pensa che io non abbia capito; La Masa, richiesto  dal generale,  mi comunica con orgoglio e soddisfazione, che sono stato promosso sottotenente e che lui mi deve considerare un suo aiutante di campo nella Quarta Compagnia, quella dei Cacciatori, per insegnare agli altri picciotti come si diventa un vero garibaldino sul campo. Ma io avevo capito benissimo. E’ che mi sembrava troppo bello per essere vero.

Gli accenti più diversi, mi sono diventati subito familiari. Come ufficiale, quando non siamo sul campo di battaglia, frequento di diritto gli ufficiali delle altre compagnie: la maggior parte sono di Bergamo, di Milano, di Como, di Pavia, di Brescia; in realtà son soltanto le frasi idiomatiche ad essere di difficile comprensione: quando si parla a mensa o nei circoli improvvisati che noi ufficiali istituiamo all’occorrenza, si parla l’Italiano e ci si capisce a perfezione.

Nessuno mi fa sentire a disagio: eppure non mancano i laureati in filosofia e in lettere, gli avvocati, i medici, i matematici,  gli ingegneri e i maestri; non si parla tra di noi solo di battaglie, di donne e di musica (a proposito il Generale è rimasto incantato dalla mia voce; mi ha sentito cantare alcune di quelle diverse arie che avevo studiato in collegio quando mi era venuto il ghiribizzo di fare il cantante; è un grande esperto ed appassionato di musica e di arie antiche).

Tra di noi si parla anche della  Scienza Nuova di Gian Battista Vico, delle nuove idee sull’idealismo romantico che questi miei speciali compagni d’armi padroneggiano e molti ne hanno avuto l’animo conquistato e mi parlano anche di poesia e letteratura, trattandomi da pari a pari. Io cerco di elevarmi quanto più posso e leggo tutto quanto mi capita per le mani. Naturalmente quando non sono in campo.

Siccome tra noi ci sono alcuni religiosi di carriera (frati e sacerdoti, alcuni, mi è stato detto, partiti con il Generale sin dal porto di Quarto; altri, come si intuisce dall’accento, unitisi a noi nell’isola), a volte si formano nelle discussioni due partiti: quello clericale, che difende la Chiesa e la considera alleata della rivoluzione per l’Unità d’Italia; e quello anticlericale (del quale faccio parte anch’io), che invece vede la Chiesa e il Papa, in particolare, come un ostacolo all’azione di Garibaldi.

Un giorno uno del mio partito, più acceso degli altri nel dibattito, chiese in malo modo a Padre Luigi (un religioso che si è conquistato fama di uomo dalle idee libertarie), se fosse più grande il Papa o Garibaldi.

Quell’uomo di chiesa e di lettere mostrò tutto il suo valore con la risposta che seppe dare al mio esagitato compagno, senza peraltro scomporsi.

Rispose Padre Luigi che Gesù Cristo mise Pietro a capo della Chiesa per perpetuare i valori del Vangelo e della Fede ma che poteva ben darsi, e la Storia lo aveva mostrato altre volte, essendo la Chiesa fatta di uomini, che l’uomo della Provvidenza si trovi ad indossare una camicia rossa, invece di una tunica bianca; e che spetta all’intelligenza ed alla sensibilità degli uomini discernere quale dei due sia degno d’essere seguito.

Non so se fu un caso, ma il giorno dopo Garibaldi si inginocchiò nella Cattedrale durante la Messa, e dopo avere ricevuto la benedizione del celebrante, tenne un grande discorso dei suoi, sulla bontà di Gesù e della Sua Parola, e sull’importanza di essere uniti, tutti gli Italiani, nel nome di Gesù Cristo.

Anche a Palermo la fortuna ha arriso il mio grande generale e la sua spedizione avventurosa. I soldati borbonici, dopo che gli abbiamo dato battaglia rione per rione, casa per casa, aiutati in tutto e per tutto dalla popolazione civile, hanno firmato l’armistizio, lasciandoci padroni di Palermo.

Il mio generale è osannato per le strade come un vero liberatore. E tutti noi ci accorgiamo di essere circondati dall’amore e dall’affetto dei palermitani.

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