https://www.amazon.it/dp/B0BQ6MR661
Capitolo Primo
Le spie della
Congregazione, in un dettagliato dispaccio, avevano informato il vice legato di
Ferrara, Francesco Pasini Frassoni, che
Pietro Marino De Regis, noto il Carminate, con la complicità di altri membri
dell’Accademia degli Increduli, stava
scrivendo un libro che propagandava le idee rivoluzionarie diffuse da Copernico nel libro proibito “De
Revolutionibus Orbium Celestium”, messo all’Indice sin dal 1616.
L’alto prelato, che surrogava il titolare Giovanni Garzia
Mellini, nominato da papa Gregorio XV
come successore di Pietro Aldobrandini,
per fare le sue veci a Ferrara, pensò
bene di mettersi subito in contatto
con il cardinale suo diretto superiore,
quantomeno per una duplice ragione.
In primis
perché il cardinale era il capo della Congregazione per la difesa della Fede e
quindi non voleva rischiare che l’importante notizia gli arrivasse da altri; in secundis
egli voleva sapere da Sua Eminenza come
procedere, dandogli conferma così della sua fedeltà e della subordinazione,
quantomeno formale. Conosceva inoltre assai bene le mire del grande porporato e
già circolavano voci sulla salute precaria di papa Ludovisi. Una sua elevazione
al soglio pontificio avrebbe significato per lui un sicuro avanzamento nella
carriera ecclesiastica; forse la titolarità della legazione vacante e, in
prospettiva, anche una investitura da
porporato.
E nella peggiore delle
ipotesi, se fosse riuscito a far incriminare il De Regis, poteva pur sempre
contare nella confisca delle sue lucrose proprietà, accresciutesi dopo la morte
della madre e del patrigno, tra cui gli stava particolarmente a cuore la cascina
di Lemole, in Greve di Chianti, che avrebbe potuto così unire a una piccola
proprietà limitrofa ereditata dai suoi avi, senza contare la rendita di 20.000
scudi d’oro che essa rendeva all’anno all’eretico Carminate.
Originario di una
famiglia che vantava in passato ricche ascendenze, ma al presente, scarsi mezzi
economici e finanziari, Pasini Frassoni aveva studiato grazie al generoso
interessamento di uno zio materno, anch’egli prelato, ben addentro nelle
gerarchie della curia pontificia.
Grazie agli intrallazzi e
ai soldi dello zio, era giunto al grado di Consigliere della Segnatura
Apostolica, ma lì si era reso conto che l’ascesa al potere vero era per lui
troppo arduo. Entrato nelle grazie del potente cardinale Garzia Mellini, era
stato nominato vice legato a Ferrara, ma la sua ambizione lo faceva puntare
molto più in alto.
Intanto approfittava di
ogni buona occasione per incrementare il patrimonio che i suoi avi avevano
dissolto per incapacità e per sfortuna.
La primavera aveva già
scacciato da un pezzo uno dei più rigidi inverni degli ultimi vent’anni (tutti
i ferraresi, a memoria d’uomo, non
ricordavano di aver visto il Po ghiacciato
prima di allora), quando il vice legato scelse il più sveglio e il più giovane
tra i suoi collaboratori e lo inviò a Roma dal cardinale Garzia Mellini per
informarlo di quanto le spie locali della Congregazione gli avevano riportato.
«Mi avete fatto chiamare
eccellenza?», chiese don Giuseppe Canaselli, dopo che ebbe udito la voce del
suo superiore invitarlo ad entrare.
«Certo, certo, vieni
avanti», disse il vice legato sollevando gli occhi dalle carte che stava
esaminando.
Il giovane prelato si
avvicinò timidamente al tavolo da lavoro dell’importante delegato. Lo aveva
scelto come suo secondo segretario per la sua discrezione, che sconfinava nella
timidezza, ma soprattutto per la sua prodigiosa memoria, che lo aveva colpito
al tempo in cui era stato suo insegnante di greco e latino.
«Siediti», gli disse
indicandogli una delle sedie che stavano davanti a lui. «Vuoi bere qualcosa?»,
aggiunse dopo che il giovane si fu seduto sul bordo della sedia, con gli occhi
bassi sulle mani che aveva posato in grembo.
«No, grazie, eccellenza.
Io non bevo».
E infatti il suo
incarnato era alquanto pallido, pensò Pasini Frassoni. Si lisciò prima il mento
e poi la gola, sin dove il colletto rigido dell’abito talare glielo permisero. La
nostra chiesa si regge sui sacrifici e sulla rettitudine di questi giovani,
pensò ancora con cuore grato l’alto prelato. Poi intrecciò le mani grassocce
sul prominente girovita.
«Sei mai stato a Roma?»,
chiese abbandonandosi nella sua comoda poltrona.
«Una volta, da ragazzo,
accompagnai mio padre e mio zio che si recavano da un ricco committente per una
pala d’altare».
Ricordava che il giovane
discendeva da una famiglia di rinomati pittori. Ma la sua intelligenza e la sua
natura riflessiva lo avevano attratto nell’orbita della madre chiesa; tanto più
che la bottega dei parenti pittori era stata riempita a sufficienza con i
fratelli e i cugini nati prima di lui.
«E la strada te la
ricordi?»
«Non tanto per la verità.
Ricordo però che si partì più o meno in questa stagione. In altri periodi
dell’anno le strade dissestate rallentano di parecchio l’andatura delle
carrozze».
«Ho un’importante
ambasciata per te; da portare a Roma, e da riferire personalmente al cardinale
Giovanni Garzia Mellini. Te la senti?»
«Comandate pure
eccellenza», disse sempre con gli occhi bassi il giovane chierico.
Così, a metà maggio, Giuseppe
Canaselli partì per la delicata ambasciata. E a inizio giugno era già di
ritorno.
Insieme alle istruzioni
del cardinale riportò la notizia che le condizioni di salute del papa Gregorio
XV si erano aggravate e che i cerusici di corte pensavano che il peggio fosse
ormai inevitabile. Pertanto i grandi elettori, seppure in via informale,
avevano di già iniziato le grandi manovre che precedevano il Conclave ormai
imminente.
A maggior ragione occorreva che il cardinale
papabile agisse con prudenza e con sagacia. Sia queste informazioni, sia le
dettagliate istruzioni che riguardavano il caso gravissimo della Nuova
Accademia degli Increduli, erano state impartite al giovane chierico, di rientro da Roma, totalmente in forma verbale. E meno male che egli godeva di una memoria
prodigiosa (affinatasi nello studio dei
classici e della grammatica della
lingua greca in particolare), perché le istruzioni che gli erano state dettate
a voce dal cardinale medesimo, erano assai minuziose e andavano riferite al
vice legato tali e quali.
Il vice legato capì,
ancor prima di apprenderne il contenuto, che si trattava di questioni
riservatissime (le istruzioni collegate al suo ufficio di vice legato
giungevano solitamente per iscritto).
Dal contenuto delle
istruzioni ebbe inoltre conferma che il suo diretto superiore contava
sull’appoggio della Spagna per la scalata al soglio pontificio (anche se
personalmente non escludeva che lo scaltro porporato tramasse nascostamente per
assicurarsi anche qualche voto dalla Francia).
Il cardinale lo informava
che doveva giungere a Ferrara un suo
emissario, un abile hidalgo spagnolo specializzato nelle indagini e negli
interrogatori degli eretici e che contava su di lui per fornire al militare ispanico
tutti i mezzi necessari per espletare il suo incarico, senza che mai, per alcun
motivo, dovesse figurare il suo nome.
Ma ad agosto, quando
giunse a Ferrara la notizia della elezione di Maffeo Virginio Romolo Barberini
al soglio pontifico, con il nome di Urbano VIII, dell’hidalgo spagnolo
preannunciato, Pasini Frassoni non
aveva visto neppure l’ombra.
Non poteva certo sapere
che don Pedro Domingo Mendoza Martinez, accompagnato dal suo fido Tenoch
Tixtlancruz e da Padre Alonso Ramirez de Barranquilla, S.J., sarebbe giunto a Ferrara soltanto a settembre dell’anno 1623
già inoltrato.
Nessun commento:
Posta un commento