Il commissario le fece da Cicerone, anche se in realtà a guidarlo non erano tanto le sue conoscenze dirette di quei luoghi, ma più che altro i racconti che i suoi genitori, e sua madre in particolare, gli avevano fatto in gioventù. Prendendola per mano affettuosamente il commissario la guidò nei diversi siti, ormai ammantati di un’aura monumentale. La sede della direzione, con gli uffici a piano terra, gli alloggi del direttore al primo e quelli dei dipendenti, tra cui suo nonno paterno, al secondo piano. L’ospedale con la chiesetta dedicata a Santa Barbara, protettrice dei minatori. La laveria, le officine per la manutenzione degli impianti, la vecchia linea ferroviaria, a scartamento ridotto, che trasportava piombo e zinco a San Gavino. E infine Telle, il villaggio dov’era nata sua madre, ormai quasi inghiottito dalla vegetazione, che si stava riprendendo lentamente tutti gli spazi che gli uomini le avevano sottratto nei decenni precedenti.
«Sei stanca?» le chiese a un certo punto il commissario, timoroso di averla fatta camminare a lungo e per troppo tempo.
«No, per niente! Sei riuscito a farmi dimenticare, per una buona parte della mattinata i miei problemi quotidiani!» rispose con trasporto l’avvocato Levi.
«Meno male!» commentò il commissario sentendosi risollevato da quella risposta entusiasta e spontanea.«Adesso ti porto in un bel ristorante a recuperare un po’ di energie, perché poi, se non hai niente in contrario, intendo arrivare sino a Buggerru!»
«Bene! Quest’arietta di montagna mi ha fatto venire un po’ di appetito!»
Ripresero l’auto e a un certo punto della strada provinciale imboccarono una strada secondaria che portava, secondo le indicazioni stradali, alle grotte de ‘Su Mannau’. Lì, in mezzo ai boschi, c’era il ristorante a cui si riferiva il commissario.
«Speriamo che sia aperto!» esclamò l’avvocato Levi appena l’auto fu parcheggiata all’ombra di alcuni possenti alberi.
Tutt’attorno, a vista d’occhio, non si vedevano altro che lecci, olivastri e macchia mediterranea.
«Tranquilla! Ho prenotato sin da ieri sera» disse il commissario.
In effetti erano attesi. Il titolare in persona li accompagnò a un tavolino già apparecchiato. Da lì potevano godere del paesaggio selvaggio che li circondava.
Scelsero un menù di mare, innaffiato con un ottimo vino bianco paglierino. Il commissario notò che Luisa non aveva perso il piacere di mangiare, né quello di accompagnare i suoi pasti con un buon bicchiere di vino. Non era frequente trovare in una donna entrambe le abitudini. O forse era lui che aveva conosciuto, soprattutto in casa sua, soltanto donne praticamente astemie e schifiltose nel mangiare, cui facevano da contrappunto uomini dalle buone forchette e dai gomiti snodati. Insomma era un piacere stare a tavola con quella donna, che in più era anche un’ottima conversatrice.
Quando giunsero in vista di Buggerru era già pomeriggio inoltrato. Con il suo fuoristrada il commissario si inerpicò senza troppe difficoltà su un promontorio roccioso in cima al quale la loro vista dominava la baia di Cala Domestica.
Lì si fermarono a lungo e in silenzio, persi nei loro pensieri. E mentre Amàlia Rodrigues cantava i suoi strali di sofferenza, le loro anime si fusero in quella Saudade malinconica, pervase da quel languore fisico che solo il Fado, il Flamenco, il Blues e certe Canzoni Napoletane, nelle loro diverse e struggenti varianti, sanno dare. E quel silenzio li unì più di tutte le storie che si erano raccontati dalla partenza, durante il viaggio nelle miniere, fino al ristorante, a ridosso delle antiche gallerie. Forse le loro storie incombevano e si calavano in quel silenzio e, attraverso i loro sensi, si proiettavano nel paesaggio circostante, frusciando tra cisti e ginepri, accarezzando olivastri e corbezzoli, appianando sino al mare della costa verde, dopo avere sfiorato i faraglioni, le falesie e le torri spagnole che un tempo avevano difeso quelle coste dalle incursioni dei Saraceni.
Dopo che il sole si fu immerso nel mare, in cielo apparve una luce, quasi all’improvviso.
«Guarda com’è lucente e vicina!» disse Luisa Levi indicando quella luce sopra l’orizzonte.
«Dev’essere…»
«Venere!» concluse lei, precedendolo.
Lui si voltò a guardarla. Quella luce, quel nome, quella parola che lei aveva pronunciato, quasi leggendogli nel pensiero, gli avevano suscitato all’improvviso una trepidazione e un’emozione che ritrovò magicamente negli occhi di lei.
Rimasero così, a guardarsi negli occhi, per un lungo istante, stupiti di se stessi e della loro tenera trepidazione. Non dissero altro. Si baciarono a lungo. Poi i loro corpi si cercarono, con un’attrazione che gli spazi ridotti dell’auto sembrarono rendere perfino più forte e irresistibile.
Fu un’esplosione di passione, sotto la luce sempre più forte di Venere, mentre fuori il concerto dell’avi fauna e il frusciare del vento nella flora selvaggia, accompagnava i loro sospiri e la danza dei loro corpi, fusi nel magico ripetersi di un atto, apparentemente sempre uguale, come il perpetuarsi della specie, eppure sempre diverso, come differenti sono le occasioni e le emozioni che culminano nell’amore.
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